sabato 20 febbraio 2010



Numero uno

In questo lungo post: la presentazione dei Direttori, e contributi di Franco Frabboni, Massimo Baldacci, Franco Cambi, Beniamino Brocca, Luciana Bellatalla, Giovanni Sedioli.

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La presentazione
RIFORMA DELLA SCUOLA:
TRA SCOMMESSA, PROGETTO, PRESENZA


La gloriosa rivista Riforma della scuola intende riprendere il mare dopo vent’anni dalla sua “provvisoria” chiusura.
Una rivista che ritorna - se vuole essere erede e continuatrice di quello che è stato l’organo più autorevole dei movimenti di rinnovamento della Scuola, fra politica e cultura, non può eludere la domanda principale che può esserle rivolta. Una domanda che proviene dal nome stesso della sua testata.
Ha ancora senso proporre una Riforma del sistema formativo pubblico?
Più cose indicherebbero la fondatezza di questo nevralgico interrogativo. Proprio perché altre “centralità” sociali e culturali stanno progressivamente indebolendo funzioni e status della Scuola: parliamo dei colossi del Mercato e del Mediatico.
Se l’ampio orizzonte internazionale è tutt’altro che immobile - basti pensare al Nobel per la pace di Barack Obama - tuttavia la risorsa/cultura, in Italia ed in Europa, appare sempre più silente e a disposizione di pochi. Sembra accompagnare con disagio, senza contrastarlo, il declino del vecchio Continente al cospetto di tigri industriali dalle dimensioni mastodontiche, di crisi drammatiche generate dalla new/economy (selvaggia e spietata), dalla nascita di povertà migranti, di fragili culture costrette allo spostamento geografico ed esistenziale.
I soggetti sociali a cui ancorare un Progetto di cambiamento epocale appaiono appannati e costretti sempre più alla difensiva.
A cominciare dalle classi lavoratrici.

Nel nostro Paese, i soggetti politici che furono promotori ed editori di Riforma della Scuola hanno vissuto radicali cambiamenti: necessari ma anche difficili e disorientanti.
La politica delle forze di progresso non sempre - oggi - sembra in grado di assicurare quei livelli di approfondimento, studio e continuità progettuale improcrastinabili per dare risposta ai crescenti compiti della Scuola: la principale fabbrica di futuro per le giovani generazioni.
Pur tuttavia, gli studenti, gli insegnanti, le famiglie, gli enti locali, i sindacati, l’associazionismo sono ancora in campo: con impegno, passioni e speranze. Non tutto è sbiadito e confuso, quindi, in tempi di crisi dell’agire collettivo. Anche se ogni dimensione di investimento per se stessi, per i propri figli, per la propria professionalità, per il proprio domani sembra restringersi al campo di ciò che immediatamente si percepisce. A quello che si sta facendo. E non al come potrebbe farsi per il bene futuro di sé e degli altri.

Oggi sembrano più forti gli altri.
La Scuola è costretta a vivere tra molti nemici, spesso seminascosti nel buio: killer della formazione dell’infanzia e dell’adolescenza. Tra questi, il Governo Berlusconi, con i Ministri Tremonti, Brunetta e Gelmini: determinati a mettere in ginocchio l’equazione democratica cara alla Scuola del nostro Paese: il diritto di tutti allo studio (non-uno-di-meno) e l’elevata qualità dell’istruzione (la formazione di Persone dalla testa-ben-fatta).
La Scuola è un grande/media: interattivo, relativamente libero, potenzialmente alternativo al pensiero unico veicolato dai mezzi di comunicazione di massa.
Le vestali della classe media forse ritorneranno, ma per il momento il nostro sistema di istruzione pur ferito e indebolito dalle dissennate politiche della Destra al Governo, resta l’unico gigante ancora vivo, testimone di Persone che pensano con la propria testa e sognano con il proprio cuore.
Per questo, in un’epoca di libertà ristrette - o negate - e dal cuore- solidale).
Sic stantibus rebus è innegabile che la scelta di una nuova Riforma della scuola abbia innanzitutto la volontà di porsi come un Progetto di contrasto e di proposta: attraverso una Presenza capace di avere molto da dire e capace, soprattutto, di dare/voce a tutti coloro che fanno girotondo per la difesa della Scuola pubblica e democratica.

E’ una Scommessa. Come per Pascal, anche per noi la Scommessa è l’atto di credere: fonda la “cosa” e ne definisce l’impegno e la direzione.
Per il grande pensatore è addirittura l’esistenza di Dio. Per noi, con assoluto senso dei nostri limiti, è la possibilità di dare-una-mano, di fornire-un-contributo per unire pensieri, professioni e movimenti: per rendere visibili le ragioni di un’altra/via. Una Scuola di liberi e di eguali abitanti nel generoso regno delle possibilità: delle tante vie per conquistare il diritto all’istruzione.
Forse non mancano le basi oggettive per portare avanti la Scommessa. L’Italia ha bisogno della Scuola, che va pertanto difesa e ammodernata in quantità, ma anche in qualità.
La Scuola non è una spesa purchessia del bilancio statale, perché è una delle colonne che sostengono della nostra Repubblica.
La Scuola è un bene in sé perché avvicina le giovani generazioni alla cultura e alla bellezza, libera l’intelligenza, forma i cittadini, prepara a un lavoro migliore, garantisce coesione e solidarismo sociale.
La storia culturale e sociale dell’Italia - di cui il patrimonio di Riforma della scuola è un pezzo significativo - è sicuramente più ricca dell’ odierno livello, davvero basso, della nostra rappresentanza politica.
Non gettare l’eredità luminosa del nostro Paese vuol dire anche leggere il presente per rintracciare e per valorizzare il tanto-di-meglio che è ancora in campo nelle contrade della penisola.
La società è di fronte a grandi sfide. Non siamo in tempi di bonaccia statica. La “resa” di oggi, il laboratorio del peggio (quello che sembra essere l’Italia odierna) potrebbe risvegliarsi e rovesciarsi in tempi brevi. Essere un grano di lievito è sicuramente più generativo che il rassegnarsi al ruolo predicatorio e inascoltato del corvo, come ammoniva Pasolini. Così come è molto peggio seguire il cammino degli altri, con timidi distinguo sui particolari mantenendo la subalternità sul corpo delle questioni.
Noi siamo -sempre- dalla parte della Scuola
Non c’è mai stato tanto bisogno di Scuola, consapevoli peraltro che questa necessita di innovazioni e ammodernamenti. Una buona/Scuola è quella che sa coniugare l’eccellenza (un’elevata qualità dell’istruzione) con l’equità (traguardi di conoscenza omogenei per tutti). Smentendo il luogo comune che l’una e l’altra sono obiettivi politico/sociali inconciliabili tra loro e alternativi.

Compito della Scuola del terzo millennio è di contribuire a porre l’infanzia e l’adolescenza nelle condizioni esistenziali e culturali di evitare la loro scomparsa nel mare della mancanza di spirito critico e nella riproduzione delle disuguaglianze presenti nelle comunità territoriali.
Purtroppo, è corrente una diversa vulgata formativa: pervasiva, saccente, ipertrofica nei confronti delle giovani generazioni, alle quali si chiede rigore intellettuale e impegno sociale senza nulla volere sapere del loro universo, senza nulla dare in contropartita.
Tanto da annullare le loro identità e le loro differenze. Troppo spesso la Scuola appare disattenta nei confronti delle “pluralità” dei volti infantili e giovanili, impossibilitati a costruire passo dopo passo le sfere costitutive della loro vita personale: affettiva, sociale, cognitiva, estetica, etica, religiosa.
Altrove questa Scuola è stata imputata di indiscrezione tolemaica: tuttologa e asso pigliatutto. Seguendo la metafora astronomica, noi pensiamo che sia necessario che la Scuola del ventunesimo secolo sia copernicana.
Una Scuola che sceglie senza incertezze un versante/altro dalla cultura massmediatica e dai saperi/verità: non più tolemaica (a-scientifica), ma nel nome di un’umanità plurale, una cultura - quindi, una formazione - della discrezione: leggera, congetturale, rispettosa del processo di crescita dei giovani, impegnata sui processi più che sui prodotti dell’azione educativa.
In questo cielo educativo appare ben visibile una “galassia” popolata di bambini e di adolescenti della Ragione: equipaggiati sì di fantasia-sentimento-lievità esistenziale, ma corredati anche di corporeità-logica-cultura antropologica. È una galassia che allude ad una nuova generazione: dotata di interesse verso la partecipazione sociale, voglia di conoscere e di trasformare il proprio mondo di cose e di valori.

Volendo compendiare in una frase i riferimenti teorici con gli obiettivi di una nuova politica scolastica, possiamo dire che il punto di arrivo è quello di realizzare una formazione che contribuisca a dare le fondamenta ad una società traboccante di Persone di qualità, secondo la bella definizione che ci ha dato Umberto Cerroni.
Ecco allora balzare in primo piano questo ineludibile obiettivo, sociale e culturale. Offrire a tutti i cittadini pari opportunità formative (il diritto di tutti allo studio a prescindere dall’età, dal sesso, dalla classe sociale, dalla zona di residenza) lungo l’intero percorso scolastico e oltre: la formazione permanente.
Questi, i suoi due incancellabili segni di riconoscimento.
Un percorso dell’obbligo e del postobbligo pubblico: dotato di risorse statali certe e di contributi municipali e privati sottoposti alla supervisione della collettività sociale. Il tutto nel rispetto delle finalità formative di una scuola democratica,
Un percorso dell’obbligo e del postobbligo gratuito: quanto a iscrizione, servizi sociali, mensa, minibus, libri di testo e materiali didattici.

La casa di una buona/Scuola deve disporre di più piani: la prima-scuola, l’istruzione di base, la formazione superiore.
Li tratteggiamo brevemente, delineando il manifesto delle finalità formative della Scuola, le linee di qualità del suo ammodernamento istituzionale e organizzativo, le necessarie tappe di riforma parlamentare e di sperimentazione innovativa che speriamo tornino a colorare di sereno il cielo del nostro sistema di istruzione dopo il diluvio della Destra: targato Mariastella Gelmini.
Questo, il duplice piano di una buona/Scuola.
Una prima-scuola dove le comunità locali abbiano un ruolo fondamentale (sulla scia di una marcata Autonomia regionale) per definire l’offerta educativa da destinare alla prima e alla seconda infanzia.
Asili-nido e Scuole dell’infanzia pubblici e ad arcipelago: attorno a loro una rete di centri per le bambine e i bambini, di centri-famiglia, di centri giornalieri per l’infanzia e altri ancora.
Un’istruzione di base che abbracci l’intero ciclo 6-16 anni. Un maxipercorso dell’obbligo - dieci anni - cuore pulsante del sistema formativo. Una Scuola che sia l’architrave di sostegno di una alfabetizzazione di primo e di secondo grado che miri ad una elevata qualità delle conoscenze e al diritto di tutti allo studio. Un lungo ciclo unitario dell’obbligo e del diritto alla frequenza scolastica che possa perseguire traguardi formativi oggi irraggiungibili da un sistema di istruzione suddiviso in comparti separati (Scuola primaria e Scuola secondaria di primo grado): derubato dell’identità dell’obbligo e privo di un successivo biennio integrato 14-16 anni conclusivo dell’istruzione di base.
Un lungo/ciclo - dunque - che possa essere la sede, in quanto unitario e non discriminante sul piano sociale, della massima personalizzazione dell’apprendimento, della valorizzazione delle qualità e dei talenti, del recupero degli svantaggi sociali e culturali.

La scuola superiore, da sempre senza riforma, rappresenta uno dei maggiori fallimenti della Repubblica democratica. Decenni di attesa e nodi irrisolti, in particolare le resistenze ad innalzare l’obbligo e le competenze di tutta la popolazione scolastica, hanno determinato un ritardo ed una arretratezza che è diventata tipica nel quadro europeo.
Tuttavia i diversi cicli di sperimentazione, dalle prime esperienze ormai storiche, alla stagione delle innovazioni guidate, fino alle più recenti predisposte dalle scuole, con le possibilità date dall’autonomia, avevano determinato una realtà materiale spesso assai diversa dagli arretrati quadri legislativi e avevano delineato una prospettiva incentrata su un primo biennio della scuola secondaria superiore come unitario e conclusivo dell’obbligo di istruzione e sui diciotto anni come tappa conclusiva del diritto/dovere alla formazione nell’età evolutiva.
Il biennio della scuola secondaria superiore è infatti lo snodo essenziale per lo sviluppo e il consolidamento di conoscenze e competenze fondamentali.. Prima il precocismo degli anni Moratti, tendente a tornare indietro verso scelte divaricanti, ipotecate dal censo e dall’ambiente socio-culturale di provenienza, poi, oggi, la drastica riduzione di orari e di opportunità decisa da Gelmini, con l’azzeramento di tutti i risultati dei cambiamenti determinati dalle scuole, hanno prospettato una secondaria che rifiuta’ modernità ed inclusione e si riduce ad un troncone di saperi preuniversitari, impoveriti, da un lato, e a moduli, probabilmente datati e squalificati, di avviamento al lavoro.
Considerare il biennio di scuola superiore come conclusivo dell’obbligo di istruzione al fine di non interrompere l'esperienza scolastica in una età in cui il consolidamento culturale non si è ancora pienamente realizzato e’ invece determinante, ai fini dell’apprendimento successivo e dell’apprendimento per tutto il corso della vita.
Ed è in quest’ottica che va sottolineata la necessità di un forte impegno su percorsi di orientamento e continuità tra le medie e la secondaria superiore, è indispensabile per combattere la dispersione dei primi anni di scuola superiore.

Dopo l’obbligo, a 16 anni, percorsi integrati tra istruzione e formazione professionale ed anche vere e proprie alternanze scuola-lavoro, potranno corrispondere meglio alle esigenze formative dei giovani.
Non scommettere su percorsi lunghi e moderni, disinvestire, differenziare precocemente i percorsi formativi non risolve il problema dei ragazzi in difficoltà mentre e abbassa la qualità di tutto il sistema formativo, ricollocando l’Italia in coda fra i Paesi europei a partire dalla durata del percorso obbligatorio di istruzione.


Compito della Scuola del terzo millennio è apprezzare l’Ambiente di vita degli studenti come la “scorciatoia” più sicura per ridurre la sua cronica distanza dai loro bisogni/interessi e dalla cultura antropologica dei loro contesti di appartenenza. Soltanto entrando/dentro (e non ponendosi di fronte: in una posizione falsamente illuministica) alla fitta trama dei problemi socioculturali del proprio ambiente di vita è possibile corredare il curricolo di conoscenze dirette, problematiche, plurali, mobili. Questo obiettivo è perseguibile ad una condizione: che gli ambienti urbani e naturalistici possano disporre di una qualitativa rete di risorse formative. Parliamo di una diversificata rete vuoi di risorse in città, che chiamiamo Teche (biblioteche, pinacoteche, museoteche, mediateche, cartoteche, ludoteche et al.), vuoi di opportunità del mondo della natura, che chiamiamo Parchi (beni paesaggistici, ecosistemi, Parchi, Fattorie didattiche, Agriturismi et al).
Siamo al cospetto di un sistema formativo integrato. Un progetto formativo a base territoriale che chiede di pedalare insieme - sullo stesso tandem - la Scuola e le offerte educative dell’Ambiente sociale e naturale.
In questi anni/ponte tra due millenni, l’Unione Europea ha rullato con insistenza i tam tam della Formazione. I richiami dei suoi tamburi hanno diffusamente dato sonorità ad una (nuova) identità dei percorsi della conoscenza: dal raggio longitudinale (il lifelong learning: la Formazione per tutto l’arco della vita) e dal raggio trasversale (la Formazione in rete - scolastica e universitaria - tra i paesi del vecchio Continente). Dunque, la Formazione quale bene da non disperdere o inaridire: in quanto prezioso capitale/umano.
Sulla scia di questa argomentazione, l’UE ha posto questo invito improcrastinabile al sistema formativo continentale. La Scuola e l’Università vanno sollecitamente messe nelle condizioni di garantire a tutti gli allievi il diritto di accesso e di successo lungo i loro percorsi culturali e scientifici. L’appello del vecchio Continente è il frutto della consapevolezza che la Formazione delle giovani generazioni costituisce sia una risorsa economica e sociale, sia una risorsa culturale e umana che nessun Paese - oggi - può permettersi di inaridire.
Per rispondere adeguatamente all’invito/UE, l’Università italiana - in compagnia di molti Paesi del vecchio Continente - ha profondamente cambiato il proprio senescente “guardaroba” formativo e didattico. Le ragioni di questa mutazione genetica dell’architettura accademica sono fondamentalmente tre: sociale, culturale e didattica.
La ragione sociale. - La Tesi: le capacità competitive di un Paese e del suo sistema produttivo dipendono anche dall’investimento e dallo stock di conoscenze di cui dispone il suo capitale umano.
Di qui l’importanza strategica del sistema universitario che - superando la tradizionale rigidità dei suoi modelli ordinamentali - è chiamato a garantire un’articolazione efficace della sua proposta culturale, scientifica e professionale.
La ragione culturale. - La Tesi: l’armonizzazione a livello europeo dei sistemi di istruzione universitaria. Possibile, tramite la libera circolazione e spendita dei titoli di laurea conseguiti nelle singole nazioni europee.

La ragione didattica. - La Tesi: la riduzione della dispersione nei percorsi di laurea. La ”malattia” che insidia l’attuale università di massa è per l’appunto la dispersione: sia nella forma dell’abbandono degli studi, sia nella forma del fuori/corso. Come dire, troppi studenti si perdono nel bosco accademico: sconfitti in un ring che li costringe inesorabilmente a gettare la spugna o a prolungare per più anni il match dell’istruzione superiore nel solitario sentiero del “fuori-corso” (lastricato di esami, e basta).

Un ultimo flash. Come sarà editorialmente Riforma della scuola?
Sarà in elettronico. Con rubriche, notizie e riflessioni. E sarà su cartaceo, con un taglio di riflessione teorica e di ricerca maggiormente accentuato rispetto alle annate della Rivista.
Sarà in prima istanza online, dunque,con i suoi editoriali e le sue ricerche, con una nutrita serie di servizi e di blog informativi.
In questo modo, sarà presente e incisiva nelle battaglie ideali, culturali e istituzionali proprie di una Scuola democratica e, insieme, ricca di attualità, di progettualità formativa e di proposte sperimentali utili a qualificare la Scuola militante di casa nostra.
Molti lavori in corso, dunque. Buona lettura e soprattutto: buona scrittura.
Contiamo molto sulla Scuola della periferia: in carne e ossa.
Sarà la nostra redazione allargata, non solo il nostro pubblico di lettori.
Un Progetto ambizioso, ancorchè difficile da portare in porto.
Sicuramente una suggestiva avventura formativa, se condotta dandoci la mano.


Davide Ferrari
Franco Frabboni


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C’era una volta la scuola
Franco Frabboni

Premessa
Non si cambia la Scuola se si sradica il suo albero degli zoccoli, se si smemorizza la sua storia. Se intendiamo porci sul naso un occhiale capace di allungare lo sguardo oltre-la-siepe (sul domani del nostro sistema scolastico) è d’obbligo fermarsi un momento.
Con questi titoli di testa, affermiamo che per progettare un sistema di istruzione dall’elevato profilo formativo - sia sul piano istituzionale (nel nome dell’Autonomia), sia sul piano organizzativo (nel nome del Piano dell’offerta formativa), sia sul piano curricolare (nel nome delle Competenze), sia sul piano didattico (nel nome dell’Individualizzazione dell’insegnamento/apprendimento) occorre, preliminarmente, incamminarsi lungo le verdi colline della Memoria. Dalle quali è possibile sfogliare l’album di famiglia che documenta la storia del viaggio della nostra Scuola del preobbligo e dell’obbligo: quando raccolse meritati successi con tanto di medaglie al merito.
Questo, per affermare che con l’esordio del Ventunesimo secolo godiamo di un eccellente balcone di osservazione per dare-il-voto alla Scuola di base italiana (dell’infanzia-elementare-media) di un Novecento da poco tramontato a occidente.
In particolare, siamo in una stagione affidabile per stilare la pagella - quarant’anni dopo - al suo glorioso Sessantotto: straordinaria stagione di ribellione e di emancipazione collettiva delle sue giovani generazioni. Quando negli Stati Uniti e in Europa presero vento le bandiere della contestazione studentesca che chiedevano al potere/adulto occhi-più-grandi per capire e per dare risposta alla loro domanda di qualità dell’istruzione, di diffusione della cultura, di rispetto dei diritti sociali delle cittadinanze. In una parola. Più impegno e più passione politica per una umanità/nuova: possibilmente inondata di futuro, di incanti, di utopie.
Questa, la nostra tesi. Se si intende decifrare nella sfera-di-cristallo il destino della Scuola di base del Duemila è necessario disporre di occhiali in grado di leggere il suo Amarcord, il suo Albero degli zoccoli pedagogico e didattico.
Lo faremo, sfogliando l’Album delle foto-ricordo della Pedagogia popolare e della Pedagogia accademica di casa nostra che documentano illustri modelli formativi.
Se intendiamo allungare lo sguardo su una Scuola fabbrica di futuro è d’obbligo fermarsi un momento. Per decifrare alla “moviola”- al rallentatore e in gigantografia - l’ultimo terzo di Novecento.
Una stagione primaverile del nostro sistema di istruzione. Soleggiata da tre seducenti modelli didattici della Scuola di base: parliamo della Scuola dell’infanzia (a Nuovo indirizzo), della Scuola elementare (a Tempo pieno) e della Scuola media (a Tempo prolungato).
Laggiù in dissolvenza appaiono dunque i luminosi paesaggi della nostra Scuola, le sue nitide frontiere istituzionali (l’Autonomia), organizzative (il Piano dell’offerta educativa), curricolari (la formazione di Teste-ben-fatte e di Cuori-solidali) e didattiche (un Insegnamento che si fa Apprendimento).
Un replay, ancora. Per ricostruire una Scuola oggi messa in ginocchio dal Governo di Destra, occorre fare quattro passi indietro. E scorrere i fotogrammi che illustrano l’album dei ricordi che ha popolato le spiagge di un’isola che allora c’era: abitata da bambini, da insegnanti, da genitori, da amministratori locali, da sindacati pieni di passioni e di ideali educativi. Sfoglieremo alcune immagini che documentano i gioielli pedagogici che splendono tuttora per la loro indiscutibile affidabilità scientifica: riannodabili - lungo i sentieri di questo Ventunesimo secolo - sotto il segno dell’eccellenza formativa.
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1. La stagione delle rondini
1.1. LA PRIMAVERA DELLA SCUOLA ITALIANA
Si è detto. Per potere cogliere nitidamente i rintocchi dell’orologio che segna le ore più felici della nostra Scuola di fine Novecento è necessario porre - come gli indiani - l’orecchio al suolo per ascoltare i consensi e plausi rivolti al suo Patrimonio pedagogico e didattico. Oltre all’ascolto dei battimani che la nostra Scuola ha ricevuto, ci porremo sul naso anche una lente diacronica.
Questo, il romanzo pedagogico del nostro sistema di istruzione, la sua storia formativa piena di medaglie d’oro zecchino. Soltanto guardando/dentro alla sua sfera di cristallo è possibile sia comprendere i suoi attuali punti di forza, sia progettare il suo futuro.
Lo faremo, sfogliando qualche foto-ricordo. A partire da quelle che documentano il fecondo incontro tra la Pedagogia popolare e la Pedagogia accademica. Per merito del quale sono nati i prestigiosi modelli/top della Scuola di base: apprezzati e lodati in Europa e oltre oceano per l’originalità e l’aristocraticità del loro abbigliamento pedagogico e didattico.
E’ doveroso dunque fare quattro-passi-indietro. Per rileggere una stagione dal cielo popolato di rondini dalle lunghe e sottili ali: cantano la nascita della nostra Primavera scolastica.
E’ un tempo dell’educazione da non rimuovere, durante il quale la Pedagogia popolare e la Pedagogia accademica si alleano insieme per denunciare - attraverso i loro autorevoli megafoni - un sistema di istruzione sempre più discriminatorio, autoritario ed enciclopedico. Una macchina del vuoto: incapace di fornire alle giovani generazioni gli strumenti intellettuali ed etico/sociali necessari per pensare con-la-propria-testa e per sognare con-il-proprio-cuore. Simbolicamente, gli anni settanta inaugurano l’età dell’oro della Scuola di base. Una stagione che stipula il definitivo patto/alleanza tra due Pedagogie.
La Pedagogia popolare riceverà la medaglia al merito per avere fatto salpare tre Velieri di nome Scuola dell’infanzia (il suo albero maestro si chiama Nuovo indirizzo didattico), Scuola elementare (il suo albero maestro si chiama Tempo pieno) e Scuola media (il suo albero maestro si chiama Tempo prolungato).
La Pedagogia accademica riceverà la medaglia al merito per avere ingioiellato la Scuola di base ponendole sul petto quattro pietre preziose: il diamante di nome Scuola democratica, il diamante di nome Scuola della cooperazione, il diamante di nome Scuola dell’integrazione e il diamante di nome Scuola aperta.

1.2. La pedagogia popolare ed i modelli sperimentali
Quattro moschettieri non togati - Nel nostro Paese, è la Pedagogia non/accademica, nata nelle tante contrade periferiche, ad avere acquisito il merito di elaborare e sperimentare una gloriosa teoria-prassi dell’educazione per l’infanzia e per l’adolescenza. Una via nazionale dell’istruzione, una strada formativa italiana in cammino verso un mondo abitato da bambini e da ragazzi abilitati a pensare con la propria testa e a sognare con il proprio cuore.
Questa Pedagogia endogena è nobilitata da quattro straordinari Moschettieri non/togati.
I loro nomi? Don Lorenzo Milani, Gianni Rodari, Loris Malaguzzi e Bruno Ciari.
La scommessa pedagogica è da loro giocata sulla roulette di un’infanzia dal volto storico, antropologico, in carne e ossa. Sono bambini e adolescenti che vogliono conoscere ma anche sognare, che chiedono di sorseggiare fino all’ultima goccia il calice della loro domenica (l’oggi profumato della quotidianità) ma anche di assaporare le primizie del loro lunedì (il domani eccitante del futuro).
In questo giardino primaverile campeggia la Pedagogia popolare degli anni Settanta. Nata dal basso (dall’incontro tra studenti, insegnanti, genitori, enti locali, sindacati, chiese) nell’inossidabile consapevolezza che la Scuola non debba mai abbassare la guardia su questo ideale etico/sociale: dare-di-più-a-chi-ha-di-meno.
A tal fine, la Pedagogia non/togata arreda la Scuola di base di tre modelli didattici di sicura tenuta democratica e culturale: parliamo del Nuovo indirizzo didattico (Scuola dell’infanzia), del Tempo pieno (Scuola primaria) e del Tempo prolungato (Scuola media). Sono i prestigiosi modelli curricolari che hanno fatto il giro del mondo tra i due Secoli. Cioè a dire, é il fecondo patrimonio educativo che la Pedagogia popolare accumula nelle nostre contrade: tanto da indossare la veste di apripista del cambiamento e dell’ ammodernamento del sistema scolastico nazionale.
Pensierino della sera. Nella sfera di cristallo della Pedagogia popolare si respira profondamente la stagione delle rondini. Dare cielo ai loro voli primaverili significa consegnare al terzo Millennio raffinati abiti-da-sera: disegnati e confezionati, per l’appunto, nella nostra prestigiosa sartoria non/accademica.

1.3. LE PERLE TEORICHE DELLA PEDAGOGIA ACCADEMICA
QUATTRO MENTORI TOGATI. - Se la Pedagogia popolare ricorda i gloriosi Moschettieri che riposano - lassù - sulla collina di Spoon River, parimenti la Pedagogia accademica ricorda i suoi quattro/Mentori che giacciono sulla medesima collina.
I loro nomi? Mario Mencarelli, Raffaele Laporta, Mauro Laeng e Giovanni Maria Bertin La loro penetrante riflessione scientifica e il loro attento sguardo sullo stato di salute (buono o precario) del sistema formativo nazionale hanno lasciato in eredità un fertile scaffale di diagnosi e di terapie pedagogico-didattiche. Il loro merito è stato quello di avere stipato lo “zaino” della Scuola sia di ideali/educativi (l’opzione per una cultura democratica e antidogmatica), sia di modelli/formativi (l’opzione per un’istruzione attiva e antiautoritaria), sia di procedure/didattiche (l’opzione per un insegnamento-apprendimento dai rigorosi fondamenti scientifici).
In altre parole. La Pedagogia accademica ha avuto l’indiscutibile pregio di progettare e costruire - mattone su mattine - una Teoria della Scuola nella quale convivono e si confrontano più teorie dell’istruzione (comportamentiste, gestaltiste, strutturaliste, cognitiviste) e più modelli didattici ideati e sperimentati dalla Pedagogia popolare.
A questa Scuola/reale edificata dalle due Pedagogie è stata assegnata - in sede europea: Lisbona/2000 - la statuetta d’oro (l’Oscar) per le sue copiose cifre formative. Questa, la motivazione dell’onorificenza: l’Italia dispone di una scienza dell’educazione bottom/up che teorizza una Pedagogia ascensionale, dal basso verso l’alto, che prende il volo dall’esperienza del fare-scuola quotidiano.

I PUNTI LUCE DI UNA SCUOLA PER LA PERSONA. - Sono quattro i gioielli pedagogici della Pedagogia accademica.
(a) E’ una Scuola democratica. - Il primo/diamante simboleggia la nobiltà pedagogica di un modello sperimentale che non abbassa mai la guardia dalla sua identità pubblica e gratuita al fine di assicurare, alla sua utenza, il diritto di ingresso e di uscita da uno dei rami del suo sistema formativo.
Sul suo portone d’ingresso si legge a lettere cubitali questo impegno sociale e civile: non-uno-di-meno.
(b) E’ una Scuola della cooperazione. - Il secondo/diamante simboleggia la nobiltà pedagogica di un modello sperimentale che non abbassa mai la guardia dalla sua finalità ultima: costruire una comunità educante che sia luogo di dialogo, ascolto, amicizia, cura, collaborazione, solidarietà.
Sul suo portone d’ingresso si legge a lettere cubitali questo impegno educativo: facciamo-girotondo-a-Scuola.

(c) E’ una Scuola dell’integrazione. - Il terzo/diamante simboleggia la nobiltà pedagogica di un modello sperimentale che non abbassa mai la guardia dalla sua vocazione all’inclusione: sempre disponibile all’inserimento in classe delle “diversità” (disabili, altre etnie).
Sul suo portone d’ingresso si legge a lettere cubitali questo impegno educativo:
insieme nella-stessa-classe.
(d) E’ una Scuola aperta. - Il quarto/diamante simboleggia la nobiltà pedagogica di un modello sperimentale che non abbassa mai la guardia dalla sua vocazione alla pluralità: dei luoghi (classe, laboratorio, atelier, ambiente sociale e naturale), dei saperi (disciplinarità e interdisciplinarità, conoscenze esogene e conoscenze endogene) e delle figure educative extramoenia (le famiglie, gli enti locali, l’associazionismo, il mondo del lavoro, le chiese).
Una Scuola/aperta è la sola in grado di formare una Persona dall’etica solidaristica (socialmente non-competitiva) e dal pensiero plurale (intellettualmente non-conformista). Una Persona che dovrebbe risiedere stabilmente in quel cielo dell’educazione mai contaminato da nuvole di parte, mai investito da acquazzoni partitici.
Sul suo portone d’ingresso si legge a lettere cubitali questo impegno educativo:
Scuola più extrascuola: verso un sistema formativo integrato.

2. La stagione dei corvi
2.1. E’ alle porte un autunno rovinoso.
Con l’arrivo nella nostra penisola della Destra al Governo - dal 2001 al 2006 (Ministro dell’istruzione Letizia Moratti); dal 2008 fino a oggi: 2010 (Ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini) - è doveroso fare quattro passi intorno a una Scuola trasformata in un fortino blindato e claustrale che non comunica con il Paese: Parlamento, Sindacati, Autonomie locali, Associazioni dei docenti, Mondo del lavoro.
Per questo, non possiamo non sfogliare - con tristezza - le pagine ingiallite che illustrano l’album dei dolorosi ricordi d’inizio Secolo: una stagione autunnale (un decennio che annuncia un prossimo inverno nevoso) dal cielo annerito da stormi di corvi dalle zampe unghiate e dal piumaggio colore pece. Una stagione che inaugura l’età del bronzo: l’avvento di una Scuola di latta, forse anche di cartapesta.
La Controriforma della Destra - avviata dalla Moratti (Ministro tecnicamente competente e culturalmente sensibile ai problemi della Formazione) attraverso la strategia, cauta e consociativa, dello stop and go - sta ricevendo oggi una violenta accelerazione dal pressing devastante della Gelmini (Ministro sprovvisto di competenze sul mondo della Scuola e senza alcun pedigrèe pedagogico) che, scopertamente, vuole sopprimere il patrimonio genetico della nostra Scuola di base. Questa, la comunicazione giudiziaria inviata - da un Ministro con scarsa dimestichezza con la Storia e la Cultura - alla Pedagogia popolare e alla Pedagogia accademica italiana: i vostri modelli/sperimentali di fine Novecento sono-di-sinistra, sono figli di primo letto dell’ideologia bolscevica.
Dunque, con la Gelmini stiamo entrando nell’autunno nebbioso abitato da corvi (i politici di Destra e i ciambellani del Ministero dell’istruzione) che puntano il loro micidiale becco su un sistema tricolore di istruzione più volte plaudito e medagliato in Europa e oltre oceano.
L’operazione di smantellamento della Scuola è incolto e brutale. Vuoto di argomentazioni fondate, di convalide documentarie e, conseguentemente, privo di una qualche attendibile giustificazione.
Sono due i meteoriti Controriformistici che si stanno abbattendo sulla gloriosa Scuola di base della nostra penisola: per demolirla. Sono enormi corpi solidi che stanno per incenerirla.


2.2. Meteoriti sul tetto della scuola
2.2.1. Primo meteorite. - Sta per devastare l’alta qualità dei modelli formativi dalla nostra Pedagogia popolare, ferendo brutalmente il Nuovo indirizzo didattico della Scuola dell’infanzia, il Tempo pieno della Scuola primaria e il Tempo prolungato della Scuola secondaria di primo grado. Tutto questo, come? Con le forbici. Per indorare la pillola, il Ministro si è giustificata con il popolo sonnolente della Tv tramite un’alluvione di slogan confezionati per raccogliere consenso su questa misera/bugia: la Scuola costa troppo perché fannullona e spendacciona. Ripuliamola allora dei suoi inutili orpelli pedagogici: costosi e non-remunerativi per il Mercato e per le Aziende. Sono i due Totem verso i quali il sistema pubblico di istruzione - quando la Destra è al Governo - deve genuflettersi a occhi chiusi. Un inchino che la Scuola non deve più rivolgere - secondo la Gelmini - alla Persona, alle giovani generazioni destinatarie degli investimenti per la Formazione. Dunque, viva la mannaia: per tagliare con furore cinque rami vitali dell’albero scolastico.
(a) Il personale docente e non docente. (b) I plessi scolastici minori, delle aree interne: con l’esito di sfiorare il raddoppio degli alunni per classe. (c) Il monte orario settimanale: si può imparare anche a casa di fronte al computer. (d) I finanziamenti per l’edilizia, per i servizi di sostegno ai disabili e agli extracomunitari, per le apparecchiature didattiche. (e) Il patrimonio formativo messo in banca e fatto fruttificare dalla nostra Scuola di base, testimoniato dai tanti riconoscimenti internazionali ricevuti a fine Secolo: a partire dal suo ingresso nei play/off del vecchio Continente.
Siamo all’effetto/meteorite. La furia iconoclasta verso le immagini gloriose della Scuola di base italiana porta senza scampo all’impoverimento della sua qualità formativa di cui è stata “madrina” la Pedagogia popolare. La sua riconosciuta patente internazionale è oggi delegittimata e in fase di ritiro di circolazione nelle strade scolastiche della nostra penisola.
Tramite l’indiscriminata politica dei “tagli”, il Ministro sta mettendo in ginocchio una Scuola aperta alla molteplicità delle culture e dei valori dell’ambiente, partecipata dai genitori e dalle forze sociali, progettata e condotta collegialmente dagli insegnanti, disponibile all’inserimento e all’integrazione delle diversità (disabili, altre etnie), articolata in percorsi formativi di sezione-classe (dove abitano prevalentemente i campi di esperienza e le discipline: e vivono le strategie individualizzate) e di intersezione-interclasse (dove abitano prevalentemente le attività di intercampo e interdisciplinari: e vivono i laboratori/atelier abitati da strategie di ricerca-scoperta).

2.2.2. SECONDO METEORITE. - Sta dirigendosi sui gioielli pedagogici della Pedagogia accademica. Con quale obiettivo? Rubare alla Scuola di base i suoi prestigiosi “diamanti” - l’identità di Scuola democratica, di Scuola della cooperazione, di Scuola dell’integrazione e di Scuola aperta - per sostituirli con altri contraffatti: falsificati e di nessun valore educativo. In altre parole. Strappa le quattro bandiere che sventolano da quarant’anni sui tetti del benemerito nostro sistema formativo e le sostituisce con altrettanti vessilli/neri sui quali, ben visibili, emergono quattro teschi: simboleggiano il requiem di una Scuola che ha ricevuto in Europa medaglie di metallo prezioso.
Questi, i messaggi di morte che sta ricevendo.
(a) Via la Scuola democratica per dare palcoscenico alla Scuola Meritocratica. - Il primo gioiello/contraffatto ghigna il trionfo della Selezione tra i banchi della classe. Mettiamo in soffitta il baule dei falsi ideali/pedagogici. Questo in primis, a parere del Ministro: l’impossibile/equazione del diritto di tutti ad una compiuta scolarizzazione e, insieme, un’elevata qualità delle conoscenze. Un “binomio” improponibile per la Destra a causa dei costi troppo elevati. Preferibile una Scuola ascensore/sociale, nei cui piani di sosta usciranno quote predestinate di allievi: per ceto sociale, per disabilità, per etnia. L’ultimo/piano (l’Attico) sarà a disposizione soltanto dei festanti giovani della futura classe imprenditoriale e dirigente del Paese.
Ancora una metafora. La Meritocrazia sogna una Scuola che fa il controcanto a una gara di Formula/1. Vestita dei panni di un gran premio automobilistico dà il ticket di partecipazione soltanto alle monoposto che possono sperare di concludere positivamente la corsa. Quelle invece che si trovano relegate nelle posizioni di coda è meglio che non prendano neppure il via. Sarebbero presto costrette ai box e al ritiro. Meglio cimentarle in gare di Go-Kart, fuori le mura: più abbordabili per le loro prestazioni. Come dire. Restare nella scuola-di-tutti significherebbe, per gli allievi che accusano dei debiti cognitivi e delle disabilità, perdere del tempo prezioso. Meglio un precoce inserimento nei Corsi di addestramento per imparare lavori di manovalanza che, in contropartita, assicurano ricompense psicologiche e guadagni economici
(b) Via la Scuola della cooperazione per dare palcoscenico alla Scuola Competitiva. - Il secondo gioiello/contraffatto ghigna il trionfo dell’Aziendalismo nelle dinamiche relazionali della vita scolastica. L’avvento di un’atmosfera di cruenta rivalità e conflittualità interpersonale dà via/libera - in classe - ai “disvalori” dell’individualismo e dell’indifferenza nei confronti dell’altro.
Dunque, la Destra pedagogica pone sull’altare della Scuola le reliquie della Competitività. Con l’esito catastrofico di accendere i semafori verdi a una comunità/classe senz’anima: facile preda dei “disvalori” di nome qualunquismo, conflittualità e violenza. Questa atmosfera di cruenta rivalità tra gli allievi (generata dall’aggressività che i giovani portano a Scuola dopo averla interiorizzata nei modelli massmediali) genera il più delle volte una sorta di terra/bruciata: dove non sarà più possibile dare vita al giardino dell’amicizia, della collaborazione, della disponibilità, della solidarietà.
Una Scuola senz’anima si fa teatro di recita di mala/educazione
(c) Via la Scuola dell’integrazione per dare palcoscenico alla Scuola della Separazione. - Il terzo gioiello/contraffatto ghigna il trionfo della Discriminazione nei confronti delle “diversità” che popolano il sistema pubblico di istruzione. Denunciamo a voce alta la sedicente antipedagogia della Destra al Governo (che flirta spudoratamente con un liberismo senza regole, privo di protezioni sociali, nemico del Welfare State) che sta avvolgendo l’utenza scolastica con il mantello sdrucito della Separazione. Tanto da considerare legittima la presenza a Scuola di un guardaroba (dismesso nel Novecento) stipato di classi/speciali e di classi/etniche. Di più. Dove esiste anche un’Anta disponibile per classi/monogenere (i maschi con i maschi, le femmine con le femmine!).
Questa antipedagogia da separati-in-casa si regge su una argomentazione risibile, pedagogicamente grottesca. Le classi/omogenee garantiscono opportunità migliori per l’utenza disabile, per quella titolare di una cultura/altra e per quella maschile e femminile.
(d) Via la Scuola aperta per dare palcoscenico alla Scuola tutta in classe. - Il quarto gioiello/contraffatto ghigna il trionfo del Mediatico che intossica i contenuti e le forme di un apprendimento qualitativo e durevole.
(d1) I contenuti dell’apprendimento si indeboliscono quando la Conoscenza viene erogata stando nel banco, possibilmente al cospetto di un computer: nella cui pancia (nel Power-point) giacciono le lezioni dell’insegnante e le pagine del libro di testo. Sono conoscenze elettroniche validate docimologicamente tramite forme “binarie” di controllo, con domande sì o no. Sono fotocopie dei giochi a quiz che esondando i palinsesti/Tv premiano i saperi-a-caso: ovvero, la cultura che fa rima con ruota della fortuna! Ci riferiamo alla pseudoconoscenza cucinata dal Mediatico che asfalta la mente dei suoi clienti con il catrame dei quizzoni, dei saperi assiomatici e scattanti veicolati dal pulsante si-no. Mai del ni: la vera/conoscenza. Parliamo della zona grigia - di mezzo: tra il vero e il falso - teatro di domande, di perché, di dubbi, di possibili confutazioni e dissensi. Parliamo del palcoscenico della conoscenza elevata a ipotesi, a congettura, a problema. Parliamo dell’Attico di una cultura che vorremmo a disposizione di tutti: e non solo dei virgulti della futura classe imprenditoriale e dirigente del Paese.
(d2) Le forme dell’apprendimento si impoveriscono quando l’istruzione viene messa in catene, costretta al pensiero unico: al conformismo cognitivo, al consenso, alla testa/piena di meccanismi cognitivi già omologati.
Siamo al cospetto di una Scuola obbligata a percorrere il binario morto di una conoscenza - con la “c” minuscola - di breve durata temporale perché confezionata per allievi 3/volte Esse: Secchioni, Signorsì, Sudditi.
Siamo di fronte a una Scuola costretta alla povertà culturale: dove si insegna e si impara il “nozionismo” al solo scopo di superare i test di profitto. Ovviamente, un Tempio dell’istruzione tutto/quiz non solo costa meno allo Stato, ma mette le catene all’intelligenza: costringendola alla rottamazione della sua potenziale mente plurale. Questa soltanto è nelle condizioni di intercettare i saperi/superiori. Ovvero, le competenze: costrette a viaggiare su un binario/morto proprio perché giudicate (temute?) come categorie dissacranti e sovversive del pensiero. Una conferma? Nei Documenti ministeriali le formae mentis di Gardner sono poste sul banco degli imputati, demonizzate come congegni cognitivi “sovversivi”: in controtendenza rispetto al pensare comune. La loro pericolosità sta nel liberare questo triplice dispositivo cognitivo: la facoltà ermeneutica (la capacità di comprendere e di interpretare le conoscenze), investigativa (la capacità di scoprire e produrre conoscenze) ed euristica (la capacità di inventare e creare conoscenze nuove).

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Insegnanti e qualità della scuola.
La formazione e il reclutamento dei docenti.

Massimo Baldacci

La scuola la fanno gli insegnanti. Questa semplice constatazione dovrebbe imporre una grande attenzione alle politiche di formazione e reclutamento dei docenti. Da esse dipende una buona parte della qualità della sistema scolastico.
In questo intervento intendiamo dare un rapido sguardo a tali politiche, analizzando i meccanismi di formazione e reclutamento che prefigurano. Diciamo subito che, purtroppo, la direzione di marcia non ci pare quella giusta.
Per ragioni di spazio, ci limiteremo alla scuola primaria, sulla quale pesa la recente decisione di tornare al maestro unico, ma ciò che diremo per il reclutamento vale anche per la secondaria.

La formazione iniziale
Iniziamo con l’analisi del modello di formazione dei docenti nei Corsi di laurea in scienze della formazione primaria. Le esperienze di tali Corsi sembrano caratterizzate da un “nucleo comune” che autorizza l’uso del termine “modello”. Questo nucleo sembra caratterizzato da due idee fondamentali che hanno ispirato le esperienze delle diverse sedi universitarie: un’idea complessa della professionalità docente, e un’idea di curricolo integrato.
L’idea complessa della professionalità docente è legata al superamento di scissioni e parzialità dell’immagine dell’insegnante: ora esperto di contenuti ora di metodi didattici, ora depositario dell’istruzione ora educatore. Ci si è resi conto che il mestiere d’insegnare richiede una pluralità di competenze: culturali (relative ai saperi disciplinari); didattiche (inerenti alle metodologie d’insegnamento); relazionali (concernenti in rapporto con gli alunni); organizzative (relative alla gestione degli ambienti della formazione).
Si è inoltre compreso che la complessità della professionalità del docente non è dovuta solo alla molteplicità delle dimensioni di competenza che implica, ma anche al fatto che tali dimensioni si devono variamente intrecciare ed integrare nel contesto delle pratiche scolastiche. Da qui la seconda idea, quella del curricolo integrato.
L’idea di un curricolo integrato è basata sulla connessione di corsi, laboratori e tirocinio secondo un circolo tra teoria e prassi. In questa logica, i corsi curricolari mirano non tanto a trasmettere i saperi da “applicare” nella pratica, quanto a costruire le strutture concettuali capaci d’interpretare l’esperienza formativa e di guidare la formulazione d’ipotesi di lavoro. I laboratori, dal canto loro, non hanno tanto lo scopo di far acquisire mere abilità operative, quanto quello di fondere conoscenze dichiarative e procedurali, trasformandole in competenze intelligenti, dotate di un profilo riflessivo. Il tirocinio, infine, non è da vedere come un saggio di praticantato, ma come il terreno in cui l’apprendistato culturale (l’imparare da insegnanti già esperti) s’intreccia con la prassi della ricerca-azione (col circolo attività-riflessione) creando l’opportuna tensione tra innovazione e tradizione didattica.
Si deve sottolineare che l’elemento di novità maggiormente rilevante è costituito dall’ottica integrata secondo cui vengono concepite le relazioni tra questi dispositivi, che li porta ad intrecciarsi variamente in forme mobili e non sempre prevedibili.
Tali dispositivi non rappresentano, infatti, una novità assoluta nella didattica universitaria. Tuttavia, in precedenza, i loro rapporti erano stati concepiti alla luce di una logica gerarchica, secondo la quale prima viene la teoria e poi la pratica (laboratori e tirocinio), che ne costituisce l’applicazione. In realtà, una logica gerarchica e sequenziale di questo tipo si è mostrata incapace di spezzare veramente l’incapsulamento delle conoscenze acquisite nel percorso universitario, le quali tendono a permanere “accademiche” nel senso deteriore del termine, e a non fondersi nelle pratiche professionali reali. Qualsiasi pratica professionale complessa non richiede, infatti, la mera “applicazione” di conoscenze e soluzioni acquisite in astratto, ma l’attitudine ad affrontare in maniera intelligente e riflessiva i problemi del proprio campo d’attività.
Per altro, anche una mera logica empirica, che passa ad una professionalità tutta costruita sull’esperienza professionale, appare segnata da gravi limiti. Secondo questa soluzione, la competenza professionale s’impara dalla pratica didattica compiuta direttamente scuola, tutt’al più sotto la supervisione di un collega esperto (una supervisione estremamente “leggera”, in genere); perciò, la preparazione iniziale del docente si deve limitare ai saperi da insegnare e ad una modesta dotazione di conoscenze pedagogico-didattiche, che devono solo fornire un primo approssimativo orientamento. Il resto si imparerà con gli anni, lavorando direttamente in classe.
Se la logica gerarchica si traduce in un’ottica lineare inadeguata a formare una competenza complessa, la logica empirica fraintende l’apprendimento dall’esperienza. Dewey ha distinto due modi di apprendere dall’esperienza: un apprendimento meccanico, basato su un mero processo di tentativi ed errori, ed un apprendimento intelligente, fondato sulla riflessione sui nessi tra idee e fatti. Se l’apprendimento dall’esperienza avviene in maniera meccanica, senza riflessività intelligente, si formeranno abitudini professionali rigide e poco consapevoli. Il corredo professionale del docente, cioè, si strutturerà negli anni e con la pratica, ma questo significherà semplicemente che si avrà il suo indurimento in una serie di copioni fissi, privi di flessibilità.
La logica dell’integrazione sembra in grado di superare tanto i limiti del modello gerarchico, quanto quelli del modello empirico. Infatti, oltre a consentire di formare competenze culturali, didattiche e relazionali, tale modello presenta un valore aggiunto. Se è vero che l’insegnante apprende anche dalla propria pratica professionale, è parimenti vero che la qualità di tale apprendimento dipende da come egli ha imparato ad apprendere dall’esperienza: se in maniera meccanica o riflessiva e intelligente.
Ecco, allora, il valore aggiunto proprio del modello integrato: la formazione collaterale di una competenza metacognitiva che tende ad aggiungersi alle altre competenze citate, ma in una posizione sovraordinata. Si tratta, infatti, di una competenza di livello logico superiore alle altre delle quali regola l’espressione. Questa particolare meta-competenza si può vedere come una cabina mentale di regia del processo d’insegnamento: ne permette la direzione consapevole e intelligente; fuor di metafora, si può dire che dà luogo ad un atteggiamento riflessivo e ad una propensione investigativa verso la propria pratica professionale. Porta cioè a vedere l’insegnamento come un campo di problemi, da affrontare in maniera altamente pensante e in uno spirito di ricerca, secondo un processo in cui: porsi domande, formulare ipotesi di lavoro, sperimentarle, riflettere sui risultati e tornare così a porsi nuove domande, e via di seguito. Così configurato, l’insegnamento diviene una ricerca-azione continua; un’attività intellettualmente appassionante, oltre che umanamente ricca. E l’insegnante diventa un ricercatore della formazione, come avrebbe voluto Dewey .
Grazie al modello integrato, perciò, è ipotizzabile che la formazione iniziale universitaria dei docenti, oltre ad equipaggiarli di un set di competenze fondamentali, permetta loro di imparare ad apprendere dalla propria esperienza in maniera intelligente, gettando così le basi per una formazione in servizio permanente e di elevata qualità.
Chiarito tutto questo, la domanda è se il modello descritto resterà in vita o dovrà essere archiviato a causa delle ultime scelte politiche.
A questo proposito, si deve osservare che la scelta del maestro unico per la scuola primaria, unitamente al nuovo disegno della formazione iniziale, potrebbe creare seri ostacoli al mantenimento di questo modello, o, comunque, al suo svolgimento in forme tali da assicurare l’esito metacognitivo che abbiamo illustrato. Talvolta si dimentica, infatti, che il profilo del maestro unico era quello di un educatore provvisto di una modesta preparazione culturale, non riproponibile negli attuali scenari della società della conoscenza.
Un Corso di laurea in scienze della formazione primaria volto a preparare un maestro unico, anziché un maestro di team, specializzato in un’area disciplinare, subirà per forza di cose pesanti condizionamenti, ben evidenti nel progetto di riorganizzazione di tale corso, formulato dalla commissione presieduta dal prof. Israel. Maestro unico significa docente “tuttologo”, che deve insegnare tutto l’arco delle discipline curricolari. Questo vuol dire che in pratica si dovrebbe far acquisire al nuovo maestro la padronanza dei fondamenti di tutto lo scibile umano. Obiettivo di fatto irrealizzabile, ma che vincola il curricolo del corso di laurea, imponendo un rigonfiamento dei crediti formativi dedicati ai saperi disciplinari, a scapito degli spazi delle didattiche, dei laboratori e del tirocinio. Ma il vero problema non è costituito tanto dalla probabile alterazione degli equilibri curricolari, quanto dalla frammentazione del percorso formativo che ne deriverà. Nel progetto Israel, i crediti disciplinari sono, infatti, spezzettati in tante modeste porzioni, ripartite su un fronte enciclopedico di saperi: dalla linguistica alla letteratura, dalla matematica alle scienze, dalla storia alla geografia, dalla musica all’immagine, dall’inglese all’informatica, dal teatro all’educazione motoria. Di fronte a questa frantumazione dei saperi, l’apprendimento non potrà che risultare di natura nozionistica: gli aspiranti tuttologi non potranno far altro che cercare di memorizzare quante più conoscenze possibile, ma ben difficilmente raggiungeranno la padronanza delle strutture delle discipline e la consapevolezza delle loro epistemologie.
Ora, la competenza metacognitiva di cui si è parlato sopra, l’atteggiamento di ricerca verso l’insegnamento, per potersi esercitare nei confronti della didattica di un sapere presuppone un’adeguata padronanza dei fondamenti della disciplina e una certa consapevolezza della sua logica interna. Ciò si può acquisire solo attraverso un lavoro d’approfondimento di un’area disciplinare, lavoro che implica la concentrazione di un rilevante numero di crediti formativi in tale area rispetto agli altri saperi disciplinari. Altrimenti, gli studenti saranno troppo occupati ad “ingozzarsi” dello spezzatino di saperi, per poter avere spazi di riflessione e di ricerca.
Il mantenimento del modulo e della pluralità dei docenti permetterebbe di pensare un curricolo per la preparazione di un docente di team, specializzato in un’area disciplinare, anche se in possesso di una formazione pluridisciplinare. A questa scelta corrisponderebbe un curricolo universitario articolato per aree disciplinari corrispondenti al profilo di specializzazione scelto (sarebbero sufficienti anche solo due aree d’indirizzo: l’umanistica e la scientifica). Si avrebbe un maggiore equilibrio tra i diversi aspetti del curricolo, e maggiori possibilità di formare un docente dotato di padronanza epistemologica dei saperi e di un atteggiamento da ricercatore.
La scuola, come si è già osservato, la fanno gli insegnanti. Se si formeranno dei tuttologi avremo una scuola culturalmente modesta. Se si desidera una scuola al passo coi tempi si devono fare scelte di tipo diverso.

Il reclutamento
Veniamo adesso alla questione del reclutamento dei docenti. Su questo versante la novità è rappresentata dall’intento, contenuto nella proposta di legge dell’Onorevole Aprea, di passare ad un meccanismo per chiamata diretta da parte del Dirigente scolastico. In questo modo, si dice, si potranno superare i limiti del concorso e quelli del burocratismo delle graduatorie, che impediscono alle scuole di chiamare i docenti dotati di competenze pertinenti al proprio piano dell’offerta formativa (e poter così assumere, per esempio, uno studente laureato con tesi sull’educazione ambientale, se vi è bisogno di un insegnante equipaggiato di questo tipo di competenze).
A questo proposito, condividiamo l’idea dell’inadeguatezza del reclutamento per concorso, perché un elaborato scritto non è un modo valido per controllare il possesso delle molteplici competenze necessarie ad un docente, e perché in passato questo dispositivo è stato non di rado mal gestito. Giudichiamo, però, negativamente anche la chiamata diretta da parte dei Dirigenti scolastici, giustificata da un’ideologica aziendalista, perché tale modalità non offre alcuna garanzia propria di uno Stato di diritto, in quanto lascia eccessiva discrezionalità all’organo monocratico titolare della scelta, creando la possibilità di valutazioni arbitrarie. Considerato che la quadratura del cerchio non è possibile, e quindi che ogni meccanismo di reclutamento presenta propri limiti, si tratta di indirizzarsi su quello meno difettoso. Tale ci appare la chiamata secondo graduatoria, perché una graduatoria costituisce un atto impugnabile e sottoposto a controlli e a criteri obbiettivamente riscontrabili. Ma come stilare le graduatorie senza meccanismo concorsuale? A questo proposito, non avendo competenze amministrative, ci limitiamo ad indicare in dispositivo che avrebbe effetti virtuosi sulla stessa formazione: l’inserimento nelle graduatorie con un punteggio rapportato al voto di laurea. In questo modo, sarebbero garantite sia l’imparzialità del reclutamento secondo graduatoria, sia l’adeguata considerazione del merito. Questo meccanismo, infatti, premia gli studenti che si sono impegnati maggiormente e hanno riportato risultati migliori nel percorso formativo. Adottare una regola di questo genere, inoltre, avrebbe effetti virtuosi sul percorso formativo, perché incentiva l’impegno e la qualità dello studio.
Allo scopo di perfezionare questo meccanismo, sarebbero però necessarie due misure. In primo luogo, per compensare gli eventuali squilibri territoriali tra sede e sede nei voti di laurea (è possibile che certe sedi universitarie siano di manica più larga), nel passaggio da voti di laurea a punteggio di graduatoria, occorrerebbe standardizzare i voti su una metrica comune (una semplice operazione statistica). Inoltre, per attribuire il dovuto peso a tutto l’arco delle conoscenze e delle competenze presenti nel percorso di laurea, si dovrebbero attribuire voti da calcolare nella media finale anche alle attività di laboratorio e di tirocinio. Oltre a questo, le diverse sedi universitarie dovrebbero adottare una sorta di codice di autoregolamentazione che metta un tetto al punteggio massimo aggiungibile alla media-base in sede di esame di laurea, per impedire che quest’ultimo possa avere un peso eccessivo (per esempio, 3 punti: così se uno studente parte dalla media-base di 100, può arrivare al massimo a 103).
E il problema di poter disporre di docenti equipaggiati di competenze su misura del piano dell’offerta formativa della propria scuola? A questo tipo d’esigenza, riteniamo, si deve rispondere con la formazione in servizio, che dovrebbe essere mirata in questo senso. Anche perché il piano dell’offerta formativa può essere modificato nel tempo, e il reclutamento non può di certo essere sincronizzato su tali modifiche.

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Per una scuola di massa e di qualità.
Franco Cambi


1. Un ossimoro, una sfida, un modello?

“Massa” e “qualità” appaiono, applicati alla scuola, quasi concetti ossimorici. Sì, perché della scuola si ha, ancora oggi, un’immagine selettiva più che emancipativa, anche dopo il ’68 e le sue battaglie, dopo Don Milani, Illich o Bourdieu, tanto per fare alcuni nomi di de-mistificatori dell’agenzia-scuola. Dalla cosiddetta “fine della ricreazione” su su per gli anni Ottanta, Novanta e Duemila è tornata al centro l’immagine trasmissiva e funzionalista (rispetto alla società e ai suoi scopi attuali: produttivi, professionali, di efficienza) della scuola. Ciò ha rilanciato l’opposizione tra massa e qualità, e – come idea diffusa – la loro incongruenza. Anche se di massa abbiamo oggi un’idea meno valutativa e più descrittiva, più rivolta a fissare una condizione-di-vita, al suo interno assai articolata, che non una situazione totalizzante e omologata. Anche se di qualità abbiamo un’idea non riducibile al modello elitario, quindi selettivo e autocritico, bensì un’idea, anche qui, più articolata e complessa: come qualità quale efficienza organizzativa dei sistemi e, per la scuola, come convergenza di cultura, cittadinanza e formazione personale ( = individuale e sempre più autogestita, in relazione a vocazioni e capacità e progetto-di-vita).
Allora il binomio massa/qualità non è un ossimoro, né è pensabile nei termini di un Ortega ad esempio.Esso è, piuttosto, un modello-sfida (o una sfida da realizzare che si fa modello) il quale deve agire come compito: pensato in sé e nei percorsi della sua realizzazione. Ed è ciò che, di fatto, a livello di paesi avanzati, sta avvenendo da tempo. Secondo itinera differenziati ma convergenti. Certo, è una sfida in corso, quindi costellata anche di blocchi, di arretramenti, di deviazioni, e proprio perché il compito è complesso, e in molti sensi.Per il modello in sé. Per la sua realizzazione organica. Per il suo adattamento nei contesti socio-culturali, con le loro diverse tradizioni. Per le trasformazioni di cultura scolastica, pedagogica, epistemologica che ciò comporta nelle istituzioni e nei loro diversi attori. Ma il modello è in marcia.

2.L’identità in cammino
E la marcia è in atto da lungo tempo. Prendiamo due classici del pensiero filosofico e politico, ma anche pedagogico: Dewey e Gramsci. Classici che sono stati anche portatori di modelli scolastici di alto profilo e di densa e lunga tenuta. La scuola-comunità-laboratorio di Dewey è una scuola per la democrazia: di tutti e per tutti, ma in cui il paradigma epistemico dell’indagine con la sua logica induttiva/deduttiva e il suo procedere sempre problematico si fa principio “fondativo”, per così dire. La scuola delineata in Democrazia e educazione (e siamo nel 1916) è proprio una scuola e di massa e di qualità e lo è consapevolmente.Si rileggano le pagine sulla scuola come “ambiente speciale” che interagisce con quello sociale e “rinforza in esso il potere del meglio” e lo fa attraverso l’allenamento delle facoltà, di tutte, guardando al “progresso”, come costante ricostruzione, riorganizzazione e innovazione. E offrendo a tutti gli strumenti per essere veri cittadini in una società mobile, aperta, democratica.
Allora la scuola è agenzia che promuove e verso il pensiero come “indagine” e verso una “società più sociale”, ma anche dà vita ( e solo la scuola può farlo), a un “uomo che una volta gode in pieno della conversazione con i suoi amici, un’altra volta gode nell’ascoltare una sinfonia o […] nel leggere un libro o nel guadagnare del denaro” (p. 307): un uomo onnilaterale, avrebbe detto Marx, un uomo emancipato, liberato, avrebbe detto Don Milani. Un modello antropologico e di qualità e per tutti.
Così anche in Gramsci: nei suoi Scritti del carcere, soprattutto, dove ripensa la forma politica della società industriale (si veda Americanismo e fordismo), ma anche si ripensa la cultura e l’antropologia di tale società in cammino. Cultura alta, diffusa e per tutti, che ha bisogno di una scuola ricostruita secondo modelli di cultura moderna (il trinomio lingua/scienza/storia) e secondo un rigore di apprendimento per tutti, scandendosi tra conformismo e creatività, secondo un iter evolutivo. L’uomo che esce da tale scuola ha uno stile di pensiero critico e una personalità aperta, socializzata ma non gregaria. La sua mente ha caratteri leonardiani, si è detto, il suo ethos è, ad un tempo, individuale e sociale, connesso a valori di partecipazione attiva ma anche di critica e, se non proprio di dissenso (tale categoria è estranea a Gramsci), certamente di libertà, sia pure riletta – sulle orme del marxismo classico – in modo assai problematico. Anche in Gramsci la scuola è regolata dalla cultura, è per tutti e guarda all’emancipazione.
Scendendo dai classici della pedagogia (e lì si potrebbe continuare, chiamando in causa Mounier o Suchodolski e molti, molti altri) a quote più modeste (organizzative e pratico-progettuali) si pensi ai modelli di riforma della scuola che si sono attuati nei vari paesi. Persino in Italia, a partire dal 1996 – dalla Commissione dei saggi, voluta da Berlinguer, fino alla legge e al Regolamento dell’Autonomia, oltre che ai lavori svolti da Commissioni, IRRE, Associazioni docenti in merito al modello scolastico da fissare, volere, realizzare. Anche qui il modello è lo stesso: dar corpo a una scuola prima unitaria poi diversificata secondo vari modelli professionali, ma rivolta a enucleare cultura e formazione e cittadinanza in tutti gli ambiti. Realizzando così la sfida ossimorica (apparentemente) del farsi di massa e di qualità.


3. L’ideal-tipo
Partendo proprio dall’esperienza italiana, non tanto legislativa e/o organizzativa elaborata a livello istituzionale, quanto, invece, nel suo iter anche e in particolare di costruzione dal basso, dalle associazioni, dalle scuole, dagli IRRE, dalle Regioni, dalle Università, etc., possiamo cercare di fissare il tipo-ideale di questa scuola attuale, seguendo le procedure indicate da Max Weber nella sua analisi del pensiero sociologico e storico, nella quale esalta proprio il lavoro che si fa attraverso l’applicazione ermeneutica dell’ideal-tipo e la dialettica delle interpretazioni (ovvero il conflitto e l’ integrazione) che l’applicazione di tale principio metodologico viene a fondare.
Siamo davanti – ideal-tipicamente – a una scuola che si incardina sull’autonomia rinnovando radicalmente la sua identità/struttura/funzione che muta la stessa professionalità docente, legandosi alla progettazione curricolare e all’innovazione epistemico-didattica dei saperi e alla loro finalità formativa integrata secondo un modello e fissata negli obiettivi, ma muta anche l’organizzazione del lavoro scolastico, accompagnato dal POF e aperto a integrazioni extracurricolari, ma formative sempre. Una scuola, inoltre, che deve controllare, attraverso l’autoanalisi d’istituto, e il modello realizzato e la sua stessa produttività e organicità strutturale, attivando un feedback sul proprio agire complessivo, dal più generale al più capillare. Non solo: questa è una scuola che si apre al territorio e alle sue risorse culturali e formative; che tutela la propria identità/tradizione; che promuove la formazione – attraverso seminari, gruppi di studio, dipartimenti di ricerca – di tutto il personale, per renderlo sempre più idoneo a promuovere e sperimentazione e innovazione e a stare nella complessità della scuola dell’autonomia. Tale ideal-tipo deve poi sapersi articolare nei vari ambiti soprattutto della formazione secondaria, tra pre-professionale e professionale, tenendo fermo anche qui il binomio (anch’esso non ossimorico) di cultura e lavoro (il lavoro non è cultura ? non produce cultura?) da ben equilibrare (e sperimentare in tali equilibri) nel corso della “scuola dell’ adolescenza”. Ma perché può essere definito e di massa e di qualità? Perché è un modello per tutte le scuole, di ogni ordine e grado. Perché mette al centro la cultura nella sua quota alta e formativa. Perché controlla l’istituzione-scuola muovendo da questi due “fuochi”, ora incrociandoli ora distinguendoli, ma sempre per permettere una sua ulteriore promozione secondo l’ideal-tipo fissato.
Certo, non mancano, in tale modello, rischi, derive, debolezze.Ci sono, eccome, già dubbi. Sulla licealizzazione della secondaria superiore o sulla sua scansione in tipologie scolastiche diverse, licei, istituti, professionali che, però, oggi appaiono da ripensare, da rinnovare, da trasformare. Sulle tecniche di autoanalisi d’istituto, da attivare, da calibrare sulla scuola (non su altre agenzie: tipo aziende), ma anche da rendere più agevoli. Sulla integrazione col territorio, con la società civile e le sue potenzialità formative/educative, a cominciare dal complesso, molto complesso, dialogo con le famiglie. Sul disagio, diffuso, dei giovani che tra bullismo, depressione, alcolismo, etc, portano a scuola un’identità “malata”, ma da interpretare, recuperare, riconquistare alla “normalità”, psicologica e sociale.
Qui, in questo tipo-ideale di scuola, massa e qualità si intersecano intimamente e problematicamente, risultando essere dispositivi per ri-attivare in modo critico sia un’identità complessa della scuola attuale sia la sua mission altrettanto complessa (e costantemente problematica: ovvero da pensare a ri-pensare).

4. Tra formazione e professione, tra cittadinanza e persona
Per quanto attiene all’allievo, al traguardo che la scuola deve permettergli di raggiungere, siamo davanti, ancora, a uno scopo assai complesso: articolato e anche dis-organico, anch’esso da pensare e ri-pensare (come accadeva già al modello ideal-tipico organizzativo globale). A parte subjecti tale complessità si colloca al crocevia tra formazione, cittadinanza, professione, personalità, concetti che scandiscono i poli del lavoro scolastico e anche, però, l’iter di crescita, via via che ci si inoltra nella “carriera” scolastica. Formazione è educazione + istruzione + coltivazione di sé. Cittadinanza è socializzazione democratica + partecipazione + conoscenza del mondo sociale oggi. Professionalità è scelta vocazionale, con possibilità di revoca; è conoscenza + competenza + abilità in un campo (ampio) professionale. Personalità è farsi soggetto-individuo come persona: portatore di identità propria, di una propria gerarchia di valori, di un proprio progetto di vita e di senso della vita (laico o no che sia). Se nella scuola dell’obbligo stanno al centro formazione e cittadinanza, se nel “biennio” si aggiunge la pre-professionalità di area e l’orientamento, nel “triennio” si decanta la via verso la professionalità e l’apprendimento culturale per una professionalizzazione in corso e/o futura. In tutti gli ordini e gradi sta l’impegno per costruire persone nella libertà e nella cura di sé e proprio nella dimensione del dare-senso. Certo è che il gioco tra formazione/cittadinanza/professione è mobile e varia nei tempi e nei luoghi, ma è, se guardiamo la scuola dalla parte dell’utente (drl “cliente” primario), altrettanto certo cha da qui passa proprio il poter/saper realizzare una scuola e di massa e di qualità che operi, sempre, per l’emancipazione. E dei singoli soggetti e della società nel suo complesso

5. Postilla 2010
Questo modello di scuola, che è stato in cammino, sia pure secondo ottiche diverse dal 1996 al 2007, ora in modo più organico (con la legislatura di centro-sinistra '96-'01 e poi '06-'07) ora in modo più “revisionista”, ma in qualche modo anche dialettico (rispetto a quel modello, con la legislatura di centro-destra 2001-2006), si è nel 2008 arenato. Con la nuova legislatura di centro-destra si è andati, con molta decisione, verso una liquidazione di tale modello e dei suoi obiettivi. Si è risaliti ad un’idea di scuola tradizionale (più autoritaria, più trasmissiva, non-innovatrice: dichiarandola “del buon senso” e “dell'ordine” e “della qualità”) e la si è pensata come la migliore e per il presente e per il futuro. Attivando uno strabismo singolare e a sfondo squisitamente ideologico. Immemori della massima deweyana secondo cui se e quanto la società cambia (e qui sta cambiando, e come!) anche la scuola deve ripensare se stessa nel cambiamento, per essere adeguata ai tempi e alle sfide culturali e formative che in essi maturano. No, si è preferito rifugiarsi in un' immagine scolastica d'antan, rassicurando da un lato il cittadino medio (che idalizza, sempre, la scuola del passato) e inibendo ogni progettazione innovativa: de-legittimandola.
Ma l'ideal-tipo scolastico dell'autonomia è ormai del tutto in archivio? No. In molte scuole continua ad essere operativo, lo si usa come regola, lo si coltiva e nella didattica e nella formazione. L'autonomia resta legge, infatti. Certo è, però, che tale “resistenza” ha bisogno di sostegno: e politico e scientifico. Da qui l'urgenza di un lavoro intellettuale sulla e con la scuola che ne tenga aperti i problemi e il modello di riforma che è cresciuto, qui da noi, e dal basso e dall'alto e si è imposto negli anni Novanta come il modello di una nuova scuola moderna. Lavoro intellettuale che devono sì fare le scuole (in autonomia), ma che deve essere accompagnato da una “sponda” universitaria capace di formare dirigenti e docenti, di darsi strumenti operativi capillari ( riviste, collane editoriali), di farsi sentire nella stessa stampa (che ospita, in genere, voci di attacco alla pedagogia e di esaltazione del ritorno alla cosiddetta “scuola del buon senso”, che assomiglia sempre di più – invece – alla “scuoletta” ottocentesca: impari del tutto ad affrontare i problemi istruttivi e formativi del presente).

Bibliografia
ADI, Newsletter del 5 aprile 2007 (www.adiscuola.it)
L. Berlinguer, La scuola nuova, Roma-Bari, Laterza, 2001
F.Cambi, Storia della pedagogia, Roma-Bari, Laterza, 1995
F. Cambi, Odissea scuola, Napoli, Loffredo, 2008
Cultura, scuola, persona. Documento del 3 aprile 2007 (elaborato dal M.P.I. e reperibile sul sito)
CIDI, Scommettere sulla scuola: per una scuola di tutti e di qualità (Roma, 16-18 marzo 2007 [atti in corso di stampa]
J.Dewey, Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1949
F.Frabboni, Società della conoscenza e scuola, Centro Studi Erickson, Trento, 2005
F. Frabboni, M. Baldacci, La controriforma della scuola, Milano, Franco Angeli, 2009
A.Gramsci, Scritti dal carcere, 4 voll., Torino, Einaudi, 1975
G.Moretti , Pratiche di qualità e ricerca-azione, Roma, Anicia, 2003
J.Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1962
M.Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 2003

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Pedagogia e scuola, difficoltà di sesto grado
Beniamino Brocca


Sulla roccia ruvida e fessurata dove l’arrampicata è entusiasmante, lo scalatore incontra e supera lastroni, placche, tetti, camini, diedri, spigoli ... i quali rappresentano i diversi livelli di criticità e per i quali è stata adottata una graduatoria, detta «scala delle difficoltà» che va dal «primo grado», elementare, al «sesto grado», estremamente difficile.
Parimenti arduo, complicato e pesante è il “lavoro” della pedagogia. Infatti il termine ‘difficoltà’ allude, nelle sue diverse accezioni, a tre contenuti specifici: alle circostanze avverse che recano imbarazzo, disagio e affanno, generatrici di obiezioni, rimostranze e proteste; alle situazioni ostative che frenano l’attuazione innovativa di un progetto o del compimento concreto di una impresa, alterando o impedendo, così, il corso normale delle cose; alle contingenze sfavorevoli che rendono problematica un’opera la quale per essere attuata richiede doti particolari di ingegno, di volontà e di abilità. A questi tre tipi di difficoltà corrispondono tre banchi di prova della pedagogia (in linguaggio alpinistico, tre passaggi al limite del sesto grado) rappresentati dalla riluttanza nel riconoscimento identitario, dalla resistenza dell’ordinamento strutturale, dalla gravosità nella pratica quotidiana. In questo breve saggio si intende riprendere e mettere a fuoco la seconda difficoltà (quella relativa alla resistenza ordinamentale) perchè è assai legata all’attualità di alcune operazioni modificative dell’organizzazione scolastica vigente.
La pedagogia è l’elemento propulsore per la costituzione, la tutela e la crescita dl sistema educativo. Le fasi dell’ideazione, della produzione e dell’innovazione dello stesso si sviluppano sulla “fotosintesi” del sapere pedagogico il quale, similmente a una centrale elioelettrica, sfrutta l’energia proveniente dal sole delle sue teorie. Infatti, la disposizione regolare, la sistemazione funzionale, la struttura istituzionale dell’ordinamento scolastico che, insieme, ne rappresentano l’assetto, ricevono impulsi determinanti – nel bene e nel male – dalla riflessione pedagogica. Si tratta di interventi e procedure più complessi e più delicati di quelli che si svolgono, ad esempio, nel settore meccanico (aeronautico, ferroviario, navale) i cui requisiti, tuttavia, (equilibrio, stabilità, linearità) pertengono anche all’assetto del sistema educativo, con la sostanziale differenza che le tre forme attinenti ai mezzi di trasporto hanno prevalente carattere materiale e, perciò, sono agevolmente verificabili e calcolabili, quelle, invece, attinenti agli istituti di istruzione e di formazione hanno un prevalente carattere immateriale e, perciò, sono stentatamente controllabili e quantificabili. L’assetto organizzativo di questi ultimi, essendo composto di progetti, di modelli, di funzioni ... oltre che di risorse tecniche, strumentali, umane ... rende difficoltoso il compito di invenzione, di costruzione, di regolazione ... da parte della pedagogia, le cui proposte di rafforzamento, di estensione, di miglioramento registrano notevoli ritardi di produzione legislativa e modesti risultati dell’azione didattica.
Le suddette difficoltà, oltre alla già accennata immaterialità naturale dell’assetto scolastico, sono molteplici e facilmente rubricabili, nonostante si nascondano tra le pieghe dell’ordinamento.
1. La prima difficoltà è radicata nella tendenza, di taluni detentori del potere politico, alla fissità e, quindi, nella ritrosia a possibili riforme che comportano sempre una scomodità. Se, talvolta, gli immobilisti accedono a un cambiamento è perchè esso interpreta o un comportamento gattopardesco, proprio di chi ritiene che la trasformazione sia solo apparente e ininfluente rispetto alle posizioni di privilegio o un processo di riflusso verso concezioni superate, proprie di chi pensa di avanzare regredendo. Sono atteggiamenti passatisti e un po’ retrivi che alimentano un sentimento di disprezzo per ogni ipotesi di innovazione (ancorché prudente, propositiva e conforme a finalità educative) e che ostacolano, perciò, le più nobili intenzioni della pedagogia rivolte alla cura premurosa del futuro delle giovani generazioni.
2. La seconda difficoltà è generata dal furore con cui i cosiddetti riformisti introducono nel sistema educativo estemporanee mutazioni che hanno i difetti della occasionalità e della frammentarietà; che prescindono da una analisi della realtà in cui dovrebbero inserirsi; che ignorano l’opportunità di operare in un disegno strategico; che aderiscono a una seduzione ideologica liberistica e mercantilistica; che peccano di nuovismo avventuroso, privo di sensibilità per i valori permanenti della tradizione culturale italiana. In questo panorama la pedagogia fatica a offrire una sua proposta ispirata alla sobrietà, alla mitezza, alla moderazione.
3. La terza difficoltà è collegata al fenomeno dell’azzeramento delle scelte compiute precedentemente e delle sperimentazioni condotte dalle singole istituzioni scolastiche, senza un preventivo esame delle congruenze e incongruenze, dei benefici e dei danni, dei successi e degli insuccessi delle stesse. La frenesia abrogatoria, di chi si alterna alla guida della pubblica istruzione, è dettata dal desiderio di associare il proprio nome a una qualsivoglia trasformazione; dalla presunzione di essere l’unico depositario della verità; dall’ardimento – nel ruolo di novello messia – di poter dividere la storia della scuola italiana in due testamenti: in un prima di lui (vecchio, oscurantista, reazionario) e in un durante lui (nuovo, illuminato, progressista). È evidente l’aridità e la infecondità del terreno (reso tale dalle oscillazioni dello stop and go, dal manicheismo dei reggitori politici, dalla incertezza e discontinuità della condizione) dove la pedagogia getta la sua semente.
4. La quarta difficoltà è provocata dalla frattura che persiste in tutti i propositi innovatori tra il blocco dei percorsi ginnasio-liceali e il blocco dei percorsi tecnico-professionali. È il retaggio della divisione delle «due culture», ma è anche il sintomo di una insufficiente meditazione intorno ai fondamenti teorici del «doppio canale». La contrapposizione e, quindi, il dualismo in cui la unitarietà non si salda correttamente con la specificità – oltre a creare una scuola di “serie A” per i più bravi e una scuola di “serie B” per i più inetti – non offre indistintamente a tutti la possibilità di scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e i propri talenti e non agevola il compito della pedagogia che punta all’incremento massimo delle diverse intelligenze.
5. La quinta difficoltà è derivata dalla divaricazione che si avverte, sempre più insistente, nella stesura dei curricoli, tra l’istanza di assicurare a tutti i cittadini italiani un livello unitario, minimo, di apprendimenti e la richiesta, basata su un falso concetto di autonomia, di introdurre l’insegnamento delle letterature locali, dei linguaggi vernacolari, delle storie regionali ... avendo come unico orizzonte un’asfittica visione della cultura e una superba pretesa di autoctonia. La premura per le proprie radici non si esprime nella pochezza del proprio particolare, ma nella larghezza nobile del proprio universale; così come la tendenza a prediligere le conoscenze strumentali e i saperi disciplinari (che vanno in ogni caso “curvati” secondo la natura dei singoli indirizzi) non si ottiene a scapito di una maturazione umana e di una coscientizzazione integrale (che si perseguono attraverso la «cultura dell’educazione»). Comunque, fra le ganasce di questa morsa, la pedagogia subisce una stretta e patisce un profondo disagio.
6. La sesta difficoltà è alimentata dalla confusione, spesso ostinata e sempre nociva che, a volte, si crea sia tra il piano della pertinenza politica e quello della perizia tecnica (la tentazione dell’operatore tecnico di arrogarsi un compito politico va sconfitta sul nascere mentre il soggetto agente va riportato nell’ambito di sua spettanza dove può rendere fruttuose la sua competenza e la sua esperienza), sia tra il ruolo della pertinenza politica e quello della giurisdizione amministrativa (il servizio dell’operatore amministrativo – al riparo da ogni sovrapposizione – diventa proficuo quando egli si impegna nell’ausilio all’attività di governo e nella attuazione delle finalità pubbliche individuate dalle leggi). Se, invece, il disordine regna sovrano, i fraintendimenti e i malintesi annullano i possibili orientamenti che la pedagogia può recare.
7. La settima difficoltà è causata dalla violazione del diritto di parola, di valutazione, di opinione e di critica. Si vive, oggi in Italia, purtroppo in un clima di strisciante autoritarismo e di incipiente dispotismo massmediale; un clima in cui la espressione pubblica di un giudizio dissenziente da parte di docenti e dirigenti, sulle scelte e sulle direttive riguardanti il sistema educativo, provoca la dura reazione del potente di turno (o di un suo scherano) il quale accusa gli autori dell’atto di delitto di lesa maestà; li redarguisce perchè non avrebbero capito «le magnifiche sorti e progressive» della scuola italiana a seguito dell’instancabile lavoro dei governanti; li invita a omettere ogni commento sulle disposizioni emanate le quali devono essere, dagli stessi, semplicemente applicate con scrupolo ed entusiasmo. Ma, al di là di questa oppressione del bavaglio, preoccupano, soprattutto, il conformismo e l’allineamento di tanti mezzi di informazione che nascondono o mitigano gli aspetti aspri e contraddittori della realtà, sociale e scolastica, al fine di non disturbare il manovratore e il gironettismo di alcuni uomini di scuola che, per un piatto di lenticchie, cambiano casacca a ogni mutar di stagione politica. Ovviamente, anche in questo frangente la pedagogia non gode di vita facile


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"Gelmini": secondaria superiore, a settembre si parte.
Luciana Bellatalla


Il 4 febbraio 2010, non a sorpresa, ma certo in anticipo sui tempi previsti, la Riforma Gelmini della scuola secondaria di secondo grado è diventata ufficiale. Anzi, da settembre 2010, cioè con l’inizio del nuovo anno scolastico, essa andrà in vigore e gli studenti, che a giu-gno concluderanno il ciclo secondario di primo grado, si avvieranno a completare gli studi secondo le nuove regole. Così nel giro di cinque anni, la vecchia struttura ed i vecchi programmi andranno in soffitta definitivamente. E con loro anche una certa idea di scuola superiore e di cultura, certo legata, come abbiamo visto, all’impianto gentiliano, mai superato, ma altrettanto certamente innovata e vivacizzata dall’impostazione dei programmi Brocca e dalle varie sperimenta¬zioni, che hanno caratterizzato gli anni delle vane discussioni sulla ri¬forma e il diffuso disinteresse per le questioni scolastiche da parte della politica.
Si ha così premura di passare alla nuova forma organizzativa che i termini per la preiscrizione ai nuovi anni scolastici, di solito fissati al 31 gennaio, quest’anno sono stati prorogati al 27 febbraio. Mi per¬metto di notare che, in assenza di piani di studio definiti e di libri di testo adeguati alla nuova normativa ed al nuovo impianto curricolare, settembre 2010 è così vicino che si può temere per la confusione che si genererà all’inizio dl nuovo anno con docenti sospesi tra vecchio e nuovo, costretti ad insegnare, ad esempio, in una prima liceo classico secondo un nuovo piano orario e nuove indicazioni programmatiche ed in una vecchia quinta ginnasio, con orari e piani di studio diversi e tra cultura della programmazione e richiamo alle “misteriose” unità di apprendimento. A farne le spese, saranno, ancora una volta, gli alunni e, quindi, la scuola stessa che apparirà, una volta di più e non sua colpa, incapace di fronteggiare richieste ed innovazione. E ciò anche senza considerare la fretta con cui le case editrici si metteranno all’opera per confezionare – da qui a giugno o forse ancor prima, visti i tempi con cui i docenti debbono procedere alle adozioni dei libri di testo - nuovi manuali o raffazzonare i vecchi con abili, ma rovinosi “taglia e incolla”, grazie alla tecnologia di cui ogni autore ormai di¬spone.
Bisogna dire con fermezza ed anche a voce alta che con questa de¬finitiva approvazione si sta realizzando concretamente quanto si pa¬ventava da tempo. Ora che dalla ideazione si passa all’attuazione della riforma, si vedono ribaditi e rafforzati dubbi e non ci si può esimere dal confermare certi giudizi negativi. Infatti, nel passaggio dall’ideazione all’attuazione del progetto di trasformazione del si¬stema scolastico italiano nulla – se non minuzie o particolari trascura¬bili – è cambiato e nessuna voce, che abbia manifestato perplessità o avanzato proposte alternative o elementi di integrazione, è stata ascoltata per migliorare e perfino trasformare l’impianto della nuova secondaria di secondo grado. Soprattutto, benché si faccia riferimento, nei comunicati stampa diffusi il 4 febbraio 2010, ad una consultazione on-line (si veda il sito http:///nuovilicei.indire.it, dove sono consulta¬bili gli esiti di questo forum) i regolamenti sembrano tenere conto solo marginalmente dei problemi concreti delle scuole, sul piano dell’organizzazione e della gestione del cambiamento e delle basi epi¬stemologiche delle varie discipline, ma perseguono in maniera chiara e netta, tenace e senza ripensamenti, un progetto politico prima ancora che culturale. Insomma, l’universo scolastico e quello del ministro sembrano tutt’affatto estranei l’uno all’altro.
La definitiva approvazione e la partenza della riforma giungono a pochi giorni dall’equiparazione del percorso scolastico e dell’ap¬prendistato per quanto attiene il rispetto dell’obbligo scolastico. Di fatto, con questa equiparazione l’obbligo scolastico viene ridotto ed il lavoro di apprendista viene gabellato, ad un’opinione pubblica inerte quando si parla di scuola a meno che non se ne enfatizzino disfun¬zioni e difetti, come assimilabile allo studio. Eppure, si sa benissimo, e senza bisogno che qualcuno tenga su questo tema una dotta lezion¬cina, che per contenuti, caratteri, tempi e qualità esistenziale i due percorsi sono non solo diversi, ma addirittura opposti.
Tra uno studente, che ha il privilegio di entrare nel mondo delle conoscenze e della cultura, potendo rimandare ad anni successivi la sua scelta di vita, ed un apprendista, che si vede chiuse le porte del raffinamento culturale e che, da quando decide (o è costretto da varie circostanze a decidere) di abbandonare la scuola, imbocca un progetto di vita senza ritorno – ed ha solo 14 o 15 anni! – le differenze sono evidenti.
In effetti, saperi e cultura manuale, poiché sono entrambi impor¬tanti per la formazione integrale ed omnilaterale dell’individuo, do¬vrebbero trovare posto insieme in ogni curricolo scolastico. La loro netta separazione è grave dal punto di vista dell’educazione, che non può e non deve privilegiare un’area a scapito di un’altra, anteponendo il sapere al saper fare, ma ha conseguenze ancora più gravi a livello sociale: essa blocca il cosiddetto ascensore sociale e ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, che la teoria dei due popoli, in Italia, non è an¬cora stata superata e che il neo-liberismo, nonostante sottolinei, come, quando e quanto più può, il ruolo della libera iniziativa e dell’intraprendenza individuale, in effetti, crea una società fatta di compartimenti stagni, che alimenta conflittualità e rende una parte dei membri della comunità (si possono ancora chiamare cittadini?) invi¬sibili rispetto a chi è chiamato a gestire tale comunità e finisce per potenziare e riprodurre, grazie a percorsi scolastici mirati a questo scopo, solo i ceti privilegiati, in genere per motivi economici.
Non è un caso che nei comunicati stampa con cui il Consiglio dei ministri, Gelmini in testa, ha dato notizia dell’ufficializzazione della riforma della scuola secondaria di secondo grado – comunicato, ora reperibili sul sito del MIUR – sezione istruzione -, la definizione ob¬bligo scolastico sia nuovamente scomparsa a favore della formula morattiana di diritto-dovere all’istruzione ed alla formazione.
Scomparso l’aggettivo pubblica per riferirsi al Ministero preposto alla scuola, scomparso l’obbligo scolastico, orgoglio e vanto di un lento processo di conquiste e di una crescita di democratizzazione del Paese, viene anche travolto un altro pilastro della scuola repubblicana – post-sessantotto -: nella C.M. del 15 gennaio 2010, a firma del di¬rettore generale, dott. Mario G. Dutto, a proposito degli alunni disa¬bili o stranieri, nonché degli adulti, e delle procedure per la loro iscri-zione nel paragrafo dedicato a “accoglienza e inclusione”. Dove è fi¬nita la parola integrazione, peraltro sancita per legge oltre che da una sana impostazione pedagogica? Tutti i casi difficili – dal disabile allo svantaggiato sociale fino all’adulto, italiano o straniero, ma comun-que in debito scolastico - sono etichettati sotto la voce paternalistica dell’accoglienza e tutt’al più dell’inclusione, vale a dire dell’inseri¬mento, ma non cero dell’integrazione. Si può obiettare che si tratta di un linguaggio burocratico, ma, anche pensando che il ministro non si metta a correggere le lettere dei suoi direttori generali, si dovrà pure ammettere che dal ministro provengono le linee di fondo per queste lettere o per e varie circolari distribuite alle scuole. In ogni caso, dun¬que, il quadro di riferimento ci riporta indietro di anni, ad un periodo di “oscurantismo” educativo, se mi si passa il termine forte, nel quale la scuola doveva dividere e dare a ciascuno il suo, evitando incursioni in giardini segreti o sconfinamenti illeciti, perché ogni classe sociale riproducesse se stessa, senza interferire con le altre. Qualcuno scap¬pava dalla rete fittissima, posta dalla scuola a protezione del sistema sociale, ma erano casi rarissimi, che talora superavano lo sbarramento grazie a particolare impegno o abilità, ma talora anche perché appro¬fittavano della “distrazione” di chi avrebbe dovuto esercitare meglio la sua sorveglianza e la sua selezione.
Ma lo spirito restauratore è presente in tutti i regolamenti della nuova secondaria di secondo grado e non solo perché essa si fonda su una tripartizione degli studi: il settore liceale, quello tecnico e quello professionale, ciascuno dei quali dotato di un ruolo e di caratteri suoi propri. Ciò è evidente anche e soprattutto nel modo con cui la nuova secondaria di secondo grado è stata pensata e ora è pronta per essere attuata.
Innanzitutto, in ciascun comparto dell’istruzione superiore, il monte-ore è diminuito. Il ministro difende la sua scelta, giustifican¬dola con il fatto che il monte-ore attuale, benché superiore, era solo virtuale, in quanto era ormai divenuta abituale, in tutti gli istituti, l’ora di lezione pari a 50 minuti. Al contrario nella nuova scuola l’ora di lezione dovrà essere di 60 minuti. Il conto torna, anzi, pare dare ra¬gione a Gelmini che, pur diminuendo le ore, aumenterebbe di fatto il tempo di lezione. Torna, anzi, tornerebbe, se non fosse vero che non ovunque le ore di lezione erano state convenzionalmente decurtate e che, per l’organizzazione interna dei vari istituti e della vita di classe, il tempo di lezione va “aggiustato” per consentire “ricreazione”, spo¬stamenti in palestra o in laboratori, passaggio di testimone da un do¬cente all’altro e così via. Quello che torna a tavolino, non torna nella pratica.
In secondo luogo i quadri orari sono desolanti, perché Gelmini an¬cor più di Moratti, frammenta e distingue. Inoltre millanta meriti che la sua scuola non ha.
Parla di un potenziamento dell’insegnamento del latino, quando di fatto, eccezion fatta per Liceo Classico e Scientifico, pure con un quadro orario diversificato – ci sono licei che ne possono fare a meno, come l’artistico o il musicale-coreutico, l’indirizzo sociale delle Scienze umane e l’indirizzo tecnologico dello Scientifico o parzial¬mente perfino il Liceo linguistico. Per una scuola che si qualifica come liceale, queste scelte lasciano molto perplessi: o il Latino è una disciplina, come peraltro credo, formativa e opportuna per un indi¬rizzo scolastico liceale, finalizzato alla prosecuzione degli studi nell’università, e allora perché privarne alcuni corsi? O il Latino torna ad essere, come a lungo sfortunatamente è stato, una materia utile per discriminare ed allora bisogna concludere che alcuni licei, a dispetto del loro nome altisonante e carico di tradizione, vanno considerati a-priori sottoprodotti e finiranno destinati a scarti intellettuali, incapaci però di applicarsi a studi tecnici, che richiedono la cosiddetta intelli¬genza pratica.
Inoltre, ancora restando ai quadri orari, dobbiamo lamentare il trattamento che ricevono certe discipline. Da un lato, la geografia, che non a caso ha occupato le cronache dei quotidiani nel mese di gennaio 2010, perché da ogni parte ci si lamenta della scarsa considerazione in cui è stata tenuta. O rimane al palo – come accade nel Liceo Classico e Scientifico – dove mantiene il posto avuto anche nei vecchi piani di studio o addirittura, accorpata con la storia, viene ridotta. Perfino nell’indirizzo turistico dell’Istituto Tecnico, dopo il biennio viene so¬stituita da una non meglio precisata geografia turistica, che, a dire il vero, appare piuttosto misteriosa con questo aggettivo stravagante, che l’accompagna. Ma Geografia è in buona compagnia, se anche Storia o Diritto non conquistano posizioni, ma, anzi, vedono ridotto lo spazio loro assegnato. Non a caso Geografia, Storia e Diritto sono tre materie fondamentali per conquistarsi il ruolo di cittadino attivo.
Ci sono, poi, addirittura materie a cui tocca peggior sorte. Pedago¬gia, infatti, scompare del tutto,: nonostante si dica che il Liceo delle Scienze umane deve abituare a leggere i problemi anche dal punto di vista pedagogico, questa disciplina, che Moratti manteneva nel primo biennio del suo progetto, viene assorbita da Scienze umane nell’intero quinquennio. Perfino nell’indirizzo “servizi socio-sanitari” dell’istituto professionale, il riferimento a questioni educative è sus¬sunto da Psicologia, che viene introdotta con la definizione improba¬bile di “Psicologia generale, evolutiva e educativa”. Per un ministro che vuole riportare la scuola italiana ai fasti della serietà del passato, non va male: per alzare la qualità della scuola, non solo si riduce il corpo insegnante e si diminuisce il tempo-scuola, ma si danno cono¬scenze in maniera approssimativa, trascurando lo stato dell’arte e la riflessione epistemologica intorno ai vari saperi specifici.
Ma – e questo è il fiore all’occhiello di Gelmini – viene potenziata l’area scientifica, che è, per tradizione, la più maltrattata nella scuola italiana e quella in cui i nostri studenti mostrano più carenze. Ad uno sguardo superficiale, questo incremento sembra reale, ma uno sguardo approfondito mette in luce anche in questo caso un compor¬tamento gattopardesco. L’unico indirizzo che cresce sul versante dei saperi scientifici è il liceo scientifico, laddove, ad esempio il Liceo classico, nonostante qualche ritocco, mantiene l’area scientifico-matematica troppo secondaria rispetto ad altre. E, addirittura, nel Liceo musicale coreutico le Scienze naturali fanno una timida comparsa nel primo biennio, per poi scomparire negli altri tre anni. Se, davvero, si voleva potenziare l’area scientifico-tecnologica, sarebbe stato necessario aumentare il monte-ore e arricchire, anche nei licei l’attività laborato¬riale, che è invece destinata solo agli istituti tecnici e professionali.
Si può concepire, oggi, una scuola secondaria di secondo grado che offra solo eccezionalmente due lingue straniere nel suo piano di studi o che marginalizzi il ruolo della storia dell’arte o che affronti il tema delle scienze integrate solo in uno o due indirizzi di studio? Ep¬pure è quanto accade nella scuola di Gelmini, che, ad ogni piè so¬spinto, nei regolamenti come nelle circolari o nei comunicati stampa, afferma di essersi adeguata agli standard europei. Si è adeguata solo per alcuni aspetti – come la marginalità della Pedagogia, su cui all’estero c’è, sul piano della ricerca, la tendenza a ricondurla a Psi-cologia o Sociologia; o la tripartizione degli orientamenti -, ma non certo per l’interesse verso le Lingue straniere o le discipline scientifi¬che.
Forse, per la lingua straniera, il ministro crede che sia sufficiente costringere gli alunni a lezioni in inglese, magari lette o esposte da in¬segnanti che dell’inglese hanno una conoscenza superficiale, per es¬sere al passo con i tempi. Gli istituti, economicamente tanto stremati da dover fare colletta in mezzo ai genitori per garantire agli alunni gessetti, fotocopie e perfino carta igienica, come le cronache ci rac¬contano, forse con un certo sensazionalismo, ma anche con una buona dose di veridicità, non potranno certo permettersi grandi esperti stra¬nieri per insegnare in inglese a scolari che, in alcune zone italiane, chiedono a gran voce, in nome della globalizzazione e della comune casa europea, di parlare dialetto a scuola, di scrivere in dialetto e di tradurre in dialetto perfino i grandi classici letterari.
Sarebbe stato meglio, proprio alla luce di questi sommovimenti folcloristici ed anche in nome dell’occupabilità, che tanto sta a cuore all’attuale esecutivo, dare maggior spazio alla lingua materna, giacché i nostri giovani non hanno chiare le strutture morfologiche, i canoni ortografici e gli elementi sintattico-gram¬mati¬cali della lingua in cui quotidianamente comunicano o dovrebbero comunicare. Per l’inglese dovrebbe bastare, come si fa da anni, la lezione ordinaria, accompa¬gnata da conversazione con lettori di madrelingua e potenziata da at¬tività nel laboratorio linguistico. Così, del resto, si fa anche all’estero. E non da ora.
Bisogna essere consapevoli che la scuola non può offrire una enci¬clopedia dei saperi, ma deve soprattutto, sulla scorta di alcune cono¬scenze di base ed imprescindibili, fornire un metodo di studio e di ri¬cerca, in ogni settore. Quindi non si può chiedere alla scuola di inse¬gnare tutto o di tutto. La pratica della programmazione rispondeva e risponde appunto a questo anti-enciclopedismo. Tuttavia, ogni epoca ha delle conoscenze a cui non ci si può sottrarre per essere cittadini attivi, per esercitare diritti o semplicemente per capire quanto ci cir¬conda. Nelle scelte di Gelmini ci sono indubbie omissioni, che com¬promettono il quadro d’insieme della riforma.
Del resto, ed il ministro lo riconosce, la maggior parte di questi curricola, perfino a livello liceale, come ben mette in luce il Liceo musicale-coreutico o quello delle Scienze umane, è finalizzata al la¬voro ed alle richieste del mercato del lavoro. La scuola del futuro do¬vrà preparare quei giovani, che non vogliono entrare precocemente nel percorso dell’apprendistato, ad un lavoro socialmente tripartito: da un lato, i quadri dell’impresa (provenienti dall’università, via Li¬ceo); dall’altro, l’impiegato ed il tecnico specializzato (proveniente dagli Istituti tecnici, con aggiunta, opzionale, di laurea); e, infine, l’operaio specializzato o l’operatore in vari settori della vita comuni¬taria (proveniente dall’indirizzo professionale). Sotto queste catego¬rie, l’operaio senza specializzazione, il lavoratore flessibile, perché privo di una preparazione specifica e qualificante. Quattro categorie sociali, quattro fasce economiche, quattro distinti modi di interpretare il ruolo sociale, ma tutti focalizzati su un unico compito: mantenere e far prosperare la macchina produttiva ed incarnare come meglio si può la sua funzione di ingranaggio di un sistema complesso di “do¬minio” economico e culturale, che trascende i singoli.
Infine, ultime due notazioni.
Gelmini – come già avevano fatto Berlinguer ed anche Moratti – si attribuisce il merito di aver semplificato e di molto la selva dell’offerta formativa della scuola secondaria italiana. Bisogna ren¬derne atto a lei, come a Berlinguer e Moratti. Hanno tutti semplifi¬cato, ma non quanto era necessario, vale a dire costruendo una scuola unica con percorsi opzionali al suo interno. Così non avendo avuto, anche Gelmini come i suoi predecessori, il coraggio di unificare e non semplicemente quello di tagliare e di accorpare, c’è da aspettarsi che l’architettura appena disegnata del nuovo sistema secondario di secondo grado, fatto di tre orientamenti e vari indirizzi, poiché si fonda sul riconoscimento delle autonomie dei singoli istituti, manterrà per poco tempo il corpo snello, con cui è nato. Interessi locali – ed il legame con il territorio è più volte affermato –, mode culturali, progressi tecnologici impor¬ranno per tempo, specie a livello tecnico-pro¬fessionale, nuovi indi¬rizzi. E, del resto, alla miriade di proposte c’è una sola alternativa: non un numero minore di proposte, ma una scuola unitaria.
Inoltre, questo richiamo all’autonomia va a spezzare l’unità del curricolo in ciascuno dei tre orientamenti e finisce per applicare di fatto una sorta di federalismo dell’istruzione: infatti, ad ogni istituto, in relazione all’ordine di appartenenza, è concesso dal 20% al 30% e addirittura il 35% di flessibilità – a seconda del biennio di riferimento fino al massimo consentito nell’ultimo anno di corso – per diminuire o ampliare il quadro orario o per introdurre insegnamenti opzionali (una seconda lingua straniera, diritto ecc.). In questo modo, ogni isti¬tuto, può offrire un POF a suo arbitrio, seguendo le indicazioni del territorio, le pressioni dialettali degli utenti, i desiderata della famiglia o le richieste urgenti del mercato del lavoro, specialmente nel caso dei Tecnici e dei professionali. Si evidenzia così il progetto di crescente privatizzazione della scuola: i vari istituti potranno giovarsi di questa facoltà di arricchimento del curriculum e di diversificazione dell’offerta formativa solo nel caso in cui possano finanziariamente avvalersi di risorse ad hoc, senza gravare sul bilancio statale. In que¬sta prospettiva, si può ipotizzare una mappa delle scuole secondarie di secondo grado italiane, nella quale l’eccellenza si andrà a collocare in certe zone piuttosto che in altre, ampliando così il divario tra Nord e Sud, sempre rilevato, anche a livello di cronaca giornalistica e ben presente anche in sede ministeriale, nel Quaderno bianco di Fioroni.
Così la nuova secondaria di secondo grado si svela per quello che sarà: una scuola povera nei contenuti, poco stimolante per offerta formativa, con insegnanti piegati ai voleri altrui, tutta sbilanciata sulla dimensione professionalizzante e, finalmente, non più nazionale, ma legata alle varie realtà territoriali. Se a ciò, infine, si aggiunge che il concetto di personalizzazione, caro a Moratti, torna in campo, avremo chiaro il fatto che questa nuova secondaria di scuola ha ormai solo il guscio esteriore: divisa in tre tronconi, che disegnano e mantengono, le distinzioni sociali, culturali ed economiche in atto, disposta all’accoglienza, ma non all’integrazione, essa dovrà dare a ciascuno quanto gli spetta, ma non di più. Il suo scopo non sarà quello di supe¬rare le differenze di partenza, di sanare dislivelli e di farsi strumento se non di emancipazione, almeno di contenimento di difficoltà, por¬tando ciascuno al suo livello di eccellenza, ma di lasciare ogni indivi¬duo nella condizione in cui l’ha trovato, al momento del suo ingresso nel sistema d’istruzione ed ogni realtà regionale nella sua condizione di partenza.
A ciò si aggiunga il fatto che non solo la riforma della scuola secondaria di secondo grado viene a completare la riforma del sistema scolastico italiano, iniziato con il ripristino della maestra unica nella scuola primaria, ma deve anche essere posta in raccordo con altri due punti critici delle scelte dell’attuale esecutivo: da un lato, la soppressione della SSIS e l’introduzione di nuove regole per la formazione iniziale di un docente, dal profilo culturale e professionale piuttosto basso e, dall’altro, la riforma dell’università, che ha come fine palese quello di trasformare gli atenei in fondazioni di diritto privato e di snaturare l’autonomia della ricerca scientifica. Si tratta di un disegno unitario di delegittimazione della scuola pubblica e della libera attività intellettuale, di cui la scuola secondaria di secondo grado è solo una tessera.
Dunque, non una scuola di tutti e per tutti è quella che da settem¬bre 2010 prenderà il via, ma una scuola per pochi fortunati (siano essi individui, gruppi sociali o realtà territoriali) e di scarso spessore cul¬turale per quanto attiene a contenuti e progetti. Ma ormai il dado è tratto.

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Questo articolo riproduce, con pochi cambiamenti, alcune considerazioni esposte nel volume Scuola secondaria. Struttura e saperi, che uscirà all’inizio di marzo presso la Casa editrice Erickson.

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Riflessioni sul riordino della scuola superiore
C’era un grande bisogno di riforma della scuola superiore, ma non di “questa” riforma.

Giovanni Sedioli*


Le riforme servono a collegare gli ordinamenti, il governo dei processi, i risultati attesi, le metodologie e strumentazioni didattiche, le stesse politiche del personale con le nuove attese sociali, con le trasformazioni culturali in essere, con i cambiamenti avvenuti nel rapporto tra soggetti istituzionali e non, con i pesi assunti dai vari interlocutori nella definizione dei percorsi di vita dei cittadini, non solo dei bambini e degli adolescenti. Insomma, le riforme devono dare corpo ad una “idea di scuola” in cui i cittadini sappiano identificare il loro ruolo ed il loro interesse ed in cui le istituzioni e gli altri soggetti coinvolti trovino la motivazione per investire risorse e idee.
Forse è ingeneroso dire “nulla di tutto questo” si trova nel riordino del Governo (positiva, ad esempio, la riduzione degli indirizzi e l’impostazione dei curricula per competenze-abilità-conoscenze), ma il “motore primo” di questa riforma non pulsa in sintonia con quanto prima detto. Senza negare che, almeno per alcuni aspetti, l’avvio era stato promettente, riferendoci all’intenso lavoro preparatorio svolto per gli istituti tecnici e professionali, ora fortemente impoverito dalle scelte effettuate, tanto da rendere contraddittori i dispositivi previsti rispetto ai principi affermati.
La lettura di “taglio” economico-finanziario come logica primaria è sicuramente riscontrabile. Non vogliamo alludere semplicemente alla riduzione di orario, su cui si potrebbe discutere in una logica che veda la scuola come protagonista “educativo” anche al di fuori dell’orario rigorosamente programmato, ma al fatto che questa si associa alla drastica riduzione delle risorse, finanziarie e umane, indispensabili per iniziative autonome delle scuole: l’associazione di questi due dati porta inevitabilmente ad un “taglio funzionale” a causa del quale l’attività formativa viene compressa e qualitativamente compromessa. Clamorosa, in questo senso, la riduzione delle compresenze dei docenti negli istituti tecnici, pur a fronte della affermazione che la didattica laboratoriale è alla base di quegli istituti. Siamo quindi in piena continuità con scelte già compiute dall’attuale Governo: riduzione lineare di docenti e non docenti, tagli di fondi, perfino per le pulizie. Con buona pace della qualità della scuola.
Ma gravi sono le pecche anche di carattere generale: manca un impianto culturale unitario dei tre segmenti soggetti a riforma. Un tentativo di lettura identitaria dei Tecnici (il lavoro, le tecnologie, i linguaggi) e dei Professionali (il lavoro, la prestazione) è presente ma non compiuta, quindi prevalentemente dichiarata, proprio per i tagli intervenuti; per i Licei, appare invece del tutto assente un principio identitario. E anche la struttura dei tre segmenti è incoerente con alcuni elementi già definiti dalla normativa previgente per quel che riguarda il biennio iniziale. Le norme sull’innalzamento dell’obbligo di istruzione prevedono, infatti, che al termine dei primi due anni delle superiori (o dei primi due anni nel sistema di istruzione e formazione professionale) tutti gli studenti debbano acquisire alcune competenze “irrinunciabili”, individuate su quattro assi culturali. La struttura ora proposta, pur migliorativa rispetto alla prima versione dei regolamenti, non appare avere risolto compiutamente il problema, perché conferma un contesto formativo in cui i passaggi da un sistema ad un altro saranno ostici.
Il rischio evidente è che venga confermata, al di là delle affermazioni di valorizzazione della cultura tecnica e del lavoro, la attuale stratificazione sociale delle frequenze nei vari ordini di scuola, facendo venir meno un possibile importante elemento di innovazione. Se si tiene conto, inoltre, della annunciata volontà di abbassare la pratica dell’apprendistato al 15° anno di età, ricomprendendola in più fra le modalità per assolvere l’obbligo di istruzione, si concretizza qualcosa di più di un sospetto su una volontà di negare la funzione generalista della educazione dei giovani, rimandando le fasce più deboli ad
esperienze che, nella situazione attuale, sarebbero inevitabilmente riduttive sul piano della costruzione culturale e della personalità. A livello dell’obbligo di istruzione, bisogna lavorare di più sul tema della realizzazione di un qualificato sistema IFP, piuttosto che pensare ad improbabili scorciatoie che realizzerebbero di fatto, nella situazione attuale, nuovi canali di esclusione sociale.
La indisponibilità del testo definitivo dei regolamenti impedisce altre importanti valutazioni, ma sicuramente saranno da interpretare alcune questioni relative ai Professionali; non vi è stata, infatti, da parte del Ministero la volontà di chiarire il rapporto fra competenze di Stato e Regioni sul tema delle qualifiche professionali né il senso da dare alla sussidiarietà, richiamata dalla versione precedente del regolamento, attraverso la quale gli IPS potrebbero svolgere un ruolo complementare rispetto alla IFP, al fine del rilascio delle qualifiche e dei diplomi professionali. Si avvia la riforma con incertezze sui percorsi che rischiano di danneggiare la funzionalità degli Istituti e le prospettive di chi le frequenta.
Più in generale, si può evidenziare una persistente sottovalutazione del ruolo delle Regioni da parte del Ministero. In particolare, il ritardo nella definizione delle norme compromette di fatto i poteri delle Regioni in ambito di programmazione dell’offerta e della rete formativa; in Emilia-Romagna, sono stati predisposti criteri e strumenti condivisi per ridurre al minimo gli effetti legati a questo dato, confermando atteggiamenti di responsabilità che evitino danni all’utenza ed alle scuole, ma si deve segnalare un atteggiamento che mette in difficoltà la volontà della Regione di potenziare, non compromettere, la qualità della scuola.
Non da ultimo vi è il tema dei tempi di applicazione del riordino: va sottolineato che, ad oggi, la nuova norma non è ancora compiutamente visibile e che mancano comunque atti di legittimazione. Anche volendo procedere “come se” fosse tutto chiaro, tenuto conto che le iscrizioni devono essere effettuate entro il 26 marzo, siamo di fronte ad un tempo troppo ristretto perché le scuole possano svolgere al meglio le funzioni di orientamento e le famiglie possano compiere scelte meditate. E’ un problema che il Ministero ha trascurato, così come non sono avviate le necessarie fasi di aggiornamento per i docenti. Una fretta che danneggerà la qualità del sistema e che dà corpo alla logica della priorità data ai tagli.
Infine, una nota sul tema della autonomia: l’innalzamento delle quote di autonomia è certamente un passo avanti, ma va fatta chiarezza sul rapporto fra queste quote e la disponibilità degli “organici”. Certo è che va ribadito che l’autonomia richiede una forte sponda collaborativa da parte dei territori, che la RER è impegnata ad estendere e rafforzare, ma richiede anche la certezza di risorse proprie delle scuole.


*Assessore regionale alla Scuola, Formazione, Università e Lavoro, Regione Emilia-Romagna

Il primo numero

20 Febbraio 2010