sabato 22 maggio 2010


Numero quattro. Il dossier

SECONDARIA, APPUNTO

Dopo le elementari, la scuola superiore. Anche in questo settore, fondamentale per le prospettive del paese, la sua ricchezza economica, sociale, culturale, e, prima ancora, per i diritti di cittadinanza delle nuove generazioni, il segno delle scelte governative è determinato da una complessiva e grave riduzione dell'offerta formativa, in quantità e qualità.
La parola secondaria rischia di divenire, nella sua accezione negativa, aggettivo attribuibile a tutta scuola nell’attuale realtà italiana.
Ad un giudizio negativo che ci è proprio abbiamo voluto unire più strumenti. Così questo Numero 4, o meglio quarta edizione del nostro “Blog centrale” è largamente dedicata alla Scuola Secondaria, ad una analisi critica e attenta dei regolamenti e delle indicazioni ministeriali sui contenitori, i Licei e gli Istituti, e i contenuti, i programmi previsti per le discipline.
Introduce Davide Ferrari, poi vengono presentati contributi, saggi ed interviste. Li riassumiamo qui, citando il nome degli autori. Per il Liceo delle Scienze Umane: Franco Frabboni, Nicola Lupoli, Adriana Mincione, Annacristina Campofreda. Per il Liceo Classico: Franca Pinto Minerva, in un prezioso dialogo con Luciano Canfora e Mario Manfredi. Per il Liceo Scientifico: Massimo Baldacci, Berta Martini, Vincenzo Fano. Per il Liceo Artistico: Marco Dallari. Per il Liceo Musicale Coreutico: Lorenzo Bianconi e Giuseppina La Face. Per gli Istituti Tecnici e Professionali: Giovanni Sedioli. Infine un ampio saggio di Alessandro Mariani, su Secondaria, Didattica della ricerca e formazione dei docenti, e la ripubblicazione di una interessante intervista con Beniamino Brocca.
Seguiranno presto altri interventi, sia di ricercatori che di insegnanti e studenti.


Nel "post" seguente questo lungo dossier pubblichiamo la seconda parte del Numero quattro con contributi, su altre tematiche, di Osvaldo Roman, Marco Mazzoli, Giancarlo Sacchi, Rossella D'Ugo e Mauria Bergonzini.

.....................................................................................

UNO SGUARDO D’INSIEME

Davide Ferrari

Il gioco sembra fatto. In poco tempo, superando ritardi di almeno quattro generazioni di governo,il Ministero Berlusconi ha dato il via ad una “Riforma” della Scuola Secondaria. Così viene detto. Certo l’urgenza è stata rispettata.
Ma è un urgere, un premere, di ordini finanziari e comunque estranei ad ogni preoccupazione per il bene della scuola. Una riforma vera dell’Istruzione secondaria superiore dovrebbe avere il segno di una volontà di inclusione e promozione sociale.
Occorrerebbe garantire un'espansione qualitativa e quantitativa dei percorsi scolastici, l'innalzamento dell’obbligo in un biennio fortemente integrato con la scuola primaria e media, un investimento adeguato che assicuri didattiche ricche, innovative, personalizzate, non solo per la segnalazione dei talenti, magari per merito e non per censo, ma qualcosa di diverso e di maggiore, una vasto innalzamento delle competenze ritenute da intere nuove generazioni.

Oggi, al contrario, la riscrittura delle scuole superiori viene avanti nell’ottica generale di una riduzione, di una sottrazione, senza alcun coinvolgimento sociale, senza alcun rispetto dei risultati, complessi ma reali, di decenni di pratiche riformatrici.
C’è chi ha scritto che oltre i tagli non c’è nulla. E’ una verita parziale. I tagli sono causa ed effetto insieme di una prospettiva politica e forse addirittura ideologica.
Dopo aver attaccato la Primaria, si passa alla Secondaria. Si considera la scuola un poco come le potenze di fine ‘800 vedevano l’Impero Ottomano, un gigante ferito ed impotente, dal quale togliere chirurgicamente, pezzo dopo pezzo sovranità e vita.

Non si tollera che una grande struttura pubblica richieda i soldi di chi ha di più per redistribuire sapere a tutti, anche ai figli di chi ha meno. Un’ottica finora estranea, in Italia, anche alla Destra, opposta ai principi costituzionali, più simile a certo liberismo autoritario americano che alle grandi correnti politiche europee, fascismo compreso.
Esageriamo? La disamina tecnica dei provvedimenti se ne fa cogliere contraddizioni e multiformità, ed una certa mediocrità generale, non consente però di diminuire l’allarme.
Mediocrità e tecnicismo, insieme ad un malinteso ritorno alle discipline, sono le chiavi con le quali la Destra attuale cerca la sua via, non senza un’intima coerenza che non deve sfuggire.
Il Ministro procede con massima determinazione, d’altronde.
Con Gelmini tramontano le epoche dei dibattiti culturali premessi ai testi di governo. Si è trascurato persino, con disinvoltura, l’iter che la legge prevede per una riforma di così vasta incidenza.
Pochi gli aggiustamenti operati nel testo, in itinere, nonostante le osservazioni critiche e le condizioni espresse da Camera, Senato, Consiglio di Stato e Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, nei loro pareri.

E, dopo aver prodotto, il Ministro ha poi ignorato le richieste di rinvio provenienti dalla scuola reale e gli appelli dell’opposizione al confronto, ed ora si ritrova con l’ostilità di molte Regioni e con la decisione della Provincia di Bolzano e della significativa Assemblea legislativa della Regione Sicilia di non procedere, nel prossimo anno scolastico, all’applicazione.
Si è cercato di sostituire il dibattito con la grandinata informativa e alcuni strumenti, quali il curioso questionario sulle Indicazioni nazionali relative agli obiettivi specifici di apprendimento.
E’ stato fatto autorevolmente notare come le domande siano rivolte ad orientare le risposte, come nei catechismi popolari di ogni totalitarismo

Si dice che, quanto alla strutturazione dei Licei e degli Istituti poco cambia, al massimo si semplifica.
Certamente una semplificazione era necessaria, ma qui il tema è ben altro.

La Gelmini, opera una drastico assottigliamento degli indirizzi e degli orari, senza modificare di proposito gliassetti strutturali negativi delle Superiori - quelli appunto che si dovevano, da decenni, riformare.
In buona sostanza ci si tiene il vecchio, cui si stringono gli abiti per nascondere i buchi e le toppe, si elimina quel tanto di meglio e di nuovo le scuole avevano sedimentato, dopo aver provato mille diverse strade sperimentali.

L’insuccesso scolastico non è più un nemico da combattere e le sue cause, la canalizzazione precoce e la gerarchia discendente, dai licei agli istituti tecnici fino ai professionali, la mancanza di flessibilità, la rigidità dei modelli organizzativi della didattica, restano, si vedono premiate, accresciute.

A questo concorrono, con l’indebolimento contenutistico e strutturale dei vari Licei ed Istituti, la mancata riproposizione di un biennio unitario, mentre in Parlamento si considera assolvibile l’obbligo, non solo con la Formazione professionale ma addirittura con l’apprendistato, e l’incapacità di individuare un nuceo forte di saperi da far condividere a tutti per raggiungere un elevamento delle condizioni culturali generali degli italiani.
Ma non si doveva, superando la "sciatteria" antinozionistica del ‘68 e della Pedagogia garantire alti risultati a chi termina il percorso scolastico?
Le risorse saccheggiate con riduzione degli indirizzi e degli orari non è certo previsto siano recuperate alla scuola, magari per qualificare e premiare nuove figure docenti, per funzioni e progetti, per sostenere l’autonomia.
Semplicemente ciò che si perde uscirà dal welfare per volatilizzarsi in sconti fiscali alle categorie più avvantaggiate o in ammortamento del deficit pubblico.

Lo ricordiamo, supportati per altro dalle manifestazioni di questi giorni delle scuole che lamentano l’assedio dei fornitori e il cumulo dei crediti verso lo Stato, perché l’autonomia curriculare, che si vorrebbe uscita più estesa dopo la “Riforma” Gelmini, in ossequio al “federalismo”, già resa fragilissima dalla diminuzione dell’orario, si infrangerà senza risorse umane e finanziarie adeguate, se non sopravviverà solo come accentuazione del divario Nord e Sud, e all’interno dei territori.

E’ facile ipotizzare un futuro, a breve, dove la scuola sarà più povera e più rigida, burocratico-formale e non laboratoriale, nonostante l’incessante retorica profusa sui laboratori e l’attualizzazione delle discipline.
Una visione d’insieme, così critica, come quella che qui avanziamo, e non da soli, porta con se l’interrogazione circa le risposte che possono essere messe in campo.
In primo luogo deve crescere l consapevolezza sul disegno del Governo, ogni sottovalutazione a questo punto non sarebbe prudenza e realismo ma vera miopia. Poi sembra necessario compiere un passo di difesa ed uno di attacco.

Occorre difendere gli spazi di qualità, dove le scuole autonome si sono alleate con le forze sociali e le istituzioni locali, senza ambasce, distinguendosi laddove le responsabilità di governo sono ancora al centrosinistra.

Nello stesso tempo occorre avere il coraggio e la volontà politica di proporre, dall’opposizione, scelte innovative e radicali, un' ipotesi, che va costruita con la partecipazione, di un vero rinnovamento strutturale degli assetti scolastici, in primo luogo di quelli superiori.
Pensate, c’è perfino, nell’Italia impaurita di oggi, qualcuno, fra i cittadini, che lo chiede, a noi, alle forze riformatrici, con insistenza.

.....................................................................................

LICEO DELLE SCIENZE UMANE
ALLA PEDAGOGIA SI CONCEDE SOLTANTO LO SGUARDO DI POLIFEMO


Franco Frabboni

Gli obiettivi specifici di apprendimento della Pedagogia (sia le sue conoscenze storiche, sia le sue padronanze epistemologiche) formalizzati in questa primavera del 2010 dal Ministero dell’istruzione per il Liceo delle Scienze umane - dove campeggiano anche l’Antropologia, la Psicologia e la Sociologia - dispongono soltanto di un punto di vista diacronico: dall’età antica al medioevo, dal quattrocento al cinquecento, fino alla cultura pedagogica moderna. Gli obiettivi pedagogici fanno scalo soltanto presso un repertorio di accreditate figure dell’educazione che soffre (è la nostra prima denuncia) di una grave parzialità scientifica: trascura colpevolmente straordinari pedagogisti del passato probabilmente giudicati “cattivi/Maestri”. Sono coloro che hanno abitato la casa/laica dell’educazione arredandola di esistenzialismo, positivismo, pragmatismo, neocriticismo, utopismo.

La nostra bocca, peraltro, non può trattenere una seconda severa denuncia. Questa. Le Competenze pedagogiche prescritte per il Liceo delle Scienze umane accusano un’altra grave “anomalia” culturale e formativa: non chiedono alle giovani generazioni di avere consapevolezza della centralità educativa di questo albero/maior del giardino delle Scienze dell’educazione. Non dicono nulla sull’altro/sguardo - sincronico: il secondo “occhio” - che brilla nel patrimonio genetico di questa carismatica Scienza della Persona. Parliamo della sua profetica carta d’identità formativa: ineludibile per dotare le giovani generazioni delle gambe culturali ed etico-sociali necessarie per progettare e costruire un’umanità capace di pensare con la propria/testa (dotata di un pensiero libero e plurale) e di sognare con il proprio/cuore (dotata di emozioni e di valori solidali).
Proprio perché dispone di lenti/critiche, la Pedagogia si colloca stabilmente in alternativa al quadro dei valori consacrati nei singoli contesti socio-culturali e politico-economici. Un’alternativa che trae la propria forza dirompente dalla speranza di potere rivoluzionare alle radici il mondo dell’educazione in direzione della massima espansione esistenziale del soggetto/Persona.
Per questo, la Pedagogia è costretta ad indossare, senza complessi, l’abito del dissenso: balcone critico sulla società, perennemente rivolto sul domani, sul possibile, sull’utopia. Caricandosi di sei perentori “dissensi” e assumendosi la responsabilità morale di essere Scienza del no.
Il primo no/fermo è rivolto ai modelli sociali e culturali che mirano a impoverire e a mutilare lo sviluppo “integrale” del soggetto/Persona.
Il secondo no/fermo é rivolto alle discriminazioni, alle inibizioni e alle solitudini “socio-affettive”.
Il terzo no/fermo è rivolto alla manipolazione, al conformismo e all’omologazione “intellettuale”.
Il quarto no/fermo è rivolto al dogmatismo, al filisteismo e all’indottrinamento “etico”.
Il quinto no/fermo è rivolto alla stereotipia, al cattivo gusto e alla massificazione “estetica”.
Il sesto no/fermo è rivolto all’automazione, all’alienazione e allo sfruttamento di cui sono responsabili le “economie/neoliberiste”.
Questa collana di “no” porta a concludere che la Pedagogia si trova perennemente in/crisi. Chiamata a combattere tutto ciò che porta a rimpicciolire (perché interpretato unilateralmente) e a depauperare (perché non interpretato integralmente) l’integralità della Persona.

Dunque, la Pedagogia sembra costretta alla miopia nel Liceo delle Scienze umane: le viene posta sulle spalle il mantello di Polifemo. Un soprabito che la priva del carburante esistenziale necessario per dilatare e umanizzare lo zaino della Singolarità della vita personale. Alla quale con sempre maggiore frequenza è preclusa la tensione vitale dell’andare oltre: verso l’altrove. In un mondo/nuovo nel quale abbia vita questa vibrante speranza del mondo dell’educazione: popolare l’emisfero boreale (ricco) e l’emisfero australe (povero) di un’umanità equipaggiata sia di valori culturali (un’umanità/còlta: capace di pensare con la propria testa), sia di valori civili (un’umanità/responsabile: consapevole della non-delegabilità dei propri diritti di cittadinanza), sia di valori esistenziali (un’umanità/solidale: impegnate a costruire un mondo popolato di democrazia, di giustizia, di cooperazione, di pace).
Questa scienza/maior dell’educazione è dotata di un telescopio strategico la cui lente ci permette di decifrare questa profezia scritta a lettere cubitali: la Pedagogia è la terapia abilitata a guarire la grande malattia che sta flagellando il nostro Pianeta. Porta il nome di reiterata violazione dei diritti universali della Persona: dignità, rispetto, diversità, fratellanza, uguaglianza. La sua forza curativa in campo educativo fa sì che l’infanzia come l’adolescenza, l’età adulta come quella anziana non ne possono fare a meno. Questo perchè il suo statuto disciplinare (teorico ed empirico) dispone di uno sguardo a trecentosessanta gradi, con il quale è possibile una progettazione integrale del soggetto-persona: la dimensione corporea, affettiva, intellettuale, estetica, sociale, valoriale. La Pedagogia non si identifica pertanto con una o più sfere della vita personale, perché azzarda un Progetto esistenziale rivolto a riannodare - in un quadro sistemico - la molteplici dimensioni costitutive della vita personale della donna e dell’uomo.
In questa direzione, la Pedagogia è chiamata a combattere tutto ciò che porta a rimpicciolire (perché interpretato unilateralmente) e a depauperare (perché non interpretato integralmente) l’ecologia delle sfere esistenziali. Suo compito è quello di preservare ed espandere, in tutta la loro ricchezza, le sue dimensioni costitutive: assicurando loro quella vitalità e quella tensione assiologica che fungono da ingredienti dinamici irrinunciabili per combattere e neutralizzare ogni forma di cristallizzazione e di impoverimento delle stagioni evolutive dell’infanzia come dell’adolescenza, dell’età adulta come di quella senile. Di fronte ai tanti oscuri paesaggi sociali che fanno da quinte alle praterie del Duemila, la Pedagogia è impegnata alla progettazione esistenziale di una donna e di un uomo liberi di testimoniare la propria energia creativa, la propria disponibilità socioaffettiva, la propria opzione morale, la propria sensibilità estetica, la propria utopia valoriale.

....................................................................................

LA PEDAGOGIA NEL LICEO DELLE SCIENZE UMANE. I PROFILI DELLE CONTRADDIZIONI

Nicola Lupoli*

Ri-pensare le categorie fondative del nuovo sistema di istruzione/formazione della secondaria superiore avrebbe reso necessario: a) riaffermare la centralità strategica della conoscenza e dell`incremento di risorse per la formazione e per la ricerca; b) comprendere quale domanda di conoscenza affiora dalla complessità delle società post-industriali e a quali storiche e/o inedite sfide occorre oggi dare risposte (emergenti dal mondo dell`economia, dalle amministrazioni pubbliche, dai settori del terziario e quaternario avanzati, dai bisogni collettivi e individuali delle persone sospese tra passato e presente, tra identità storiche e contaminazioni culturali, smarrite in una realtà in incessante mutamento); c) considerare e utilizzare –criticamente, ma senza pregiudizi- le esperienze scaturenti dalle oltre 800 tra sperimentazioni e percorsi di studio degli ultimi decenni; d) sottrarsi alle tentazioni di scelte culturali orientate da categorie ideologico-politiche o lobby disciplinari.
Non è questo l`impianto dell’attuale riordino del secondo ciclo d`istruzione, che sarebbe improprio definire “riforma”. Concepito nel quadro di una pervicace destrutturazione del sistema scolastico pubblico, avviata con tagli della spesa e riduzione del personale (vedi docente unico/prevalente nella primaria), nasce segnato dal peccato originale di una riduzione degli indirizzi e degli orari . Con l’aggravante di un sostanziale mantenimento del precedente assetto strutturale, del quale riconferma sia la canalizzazione precoce e la non reversibilità delle scelte iniziali (messe in evidenza dalla non unitarietà del biennio obbligatorio e dall’assenza di un’area comune di saperi, che rende impraticabili eventuali passaggi), sia l’assenza di qualsivoglia prospettiva di continuità curricolare tra primo ciclo e biennio obbligatorio della secondaria superiore. Una scuola, dunque, che non contribuisce a rimuovere i condizionamenti socio-culturali di partenza, pregiudica il successo scolastico di tutti e destina gli studenti in condizione di marginalità a fuoriuscire dall’obbligo di istruzione utilizzando i canali della formazione professionale e dell’apprendistato.
L’impianto si basa su percorsi gentilianamente gerarchizzati che ri-producono le appartenenze di classe e confermano l’Italia come il Paese europeo a più bassa mobilità sociale. La formazione della classe dirigente è affidata al sistema dei licei, quella dei quadri medio-bassi agli istituti tecnici , quella per le funzioni esecutive qualificate ai professionali . I profili in uscita (con competenze sempre richiamate, ma mai chiaramente definite) esemplificano le radicali differenze.
Nei sei tipi di licei introdotti dal riordino “I percorsi … forniscono allo studente gli strumenti culturali e metodologici per una comprensione approfondita della realtà, affinché egli si ponga, con atteggiamento razionale, creativo, progettuale e critico, di fronte alle situazioni, ai fenomeni e ai problemi, ed acquisisca conoscenze, abilità e competenze coerenti con le capacità e le scelte personali e adeguate al proseguimento degli studi di ordine superiore, all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro.”; agli istituti tecnici è assegnato il compito di fornire una “… solida base culturale di carattere scientifico e tecnologico … con l’obiettivo di far acquisire agli studenti, in relazione all’esercizio di professioni tecniche, saperi e competenze necessari per un rapido inserimento nel mondo del lavoro e per l’accesso all’università e all’istruzione e formazione tecnica superiore”; negli istituti professionali si intende “sviluppare, in una dimensione operativa, saperi e competenze necessari per rispondere alle esigenze formative del settore produttivo di riferimento, considerato nella sua dimensione sistemica per un rapido inserimento nel mondo del lavoro e per l’accesso all’università e all’istruzione e formazione tecnica superiore” .
L’opzione di denominare “liceo” sei istituti, avrebbe dovuto essere sostenuta da una proposta curricolare di alta qualità per ciascuno di essi, adeguata (pur nelle specificità dei diversi tipi e indirizzi) a fornire agli studenti linguaggi e strumenti idonei a sviluppare competenze riflessive, proattive, l’esercizio di un pensiero critico portato fino all’autocritica, a comprendere le realtà sociali e culturali del modo contemporaneo e le loro drammatiche emergenze (dalla manipolazione dell’identità più segreta da parte delle tecnologie, alla negazione dei diritti umani fondamentali per i quattro quinti dell’umanità, al rifiuto dell’integrazione ideologica, di pensare le differenze nel pluralismo).
Le Indicazioni nazionali per il Liceo delle Scienze Umane contenute nella Bozza del 12 marzo 2010 non sembrano all’altezza della sfida. Il profilo del Liceo delle Scienze Umane sconta l’indeterminatezza dell’ambiguo presupposto di dar vita ad un percorso formativo “innovativo” rispetto al Liceo socio-psico-pedagogico (la più consistente sperimentazione Brocca introdotta nell’ex Istituto magistrale). La prima discontinuità è espressa dalla drastica riduzione delle ore già destinate alla Pedagogia, che non solo diminuiscono in generale, ma vanno anche ripartite con Antropologia, Psicologia e Sociologia con le quali condivide il quadro orario sotto la dizione di Scienze umane (264 nel primo biennio, 330 nel secondo e 165 nel quinto anno). È una discontinuità non limpida. Se, nel Profilo generale delle competenze, si sottolinea la centralità della Pedagogia invitando a prestare “particolare attenzione ai fenomeni educativi e ai processi formativi formali e non, ai servizi alla persona, al mondo del lavoro, ai fenomeni interculturali e ai contesti della convivenza e della costruzione della cittadinanza“, non si comprende perché non si sia conseguentemente istituito il Liceo pedagogico o delle Scienze della Formazione.
Non sono, in particolare, all'altezza della sfida il curricolo e le competenze pedagogiche proposte. Luci (poche) e ombre (tante) si alternano nel testo, a mostrare una stesura probabilmente condizionata da diverse sollecitazioni, non tutte ascrivibili all'ambito scientifico.
Decisamente condivisibile è la scelta di distribuire la Pedagogia sull’intero quinquennio, non tanto per la volontà di “sottrarla all’infeudamento della filosofia”, questione non più centrale nel panorama pedagogico che ha da tempo nel suo sguardo i più ampi orizzonti dell'insieme delle Scienze dell'Educazione, quanto per la possibilità di spalmare su un ampio arco temporale sia la sua ricostruzione diacronica, sia l'analisi sincronica dei nuclei fondanti la sua riflessione teorica, sia l'indispensabile riflessione sui bisogni emergenti dal contesto educativo.
Condivisibile è la sollecitazione ad un approccio interdisciplinare poiché, nel tempo della complessità e dell'incertezza, nella sua totalità incatturabile da un’unica categoria e non restringibile entro i confini di una sola teoria, la sola pedagogia teorica, pur con la sua ricchezza conoscitiva e analitico-ricognitiva, non può porsi come generale ed esaustiva chiave interpretativa. La comprensione della/e realtà è in tutti i campi disciplinari metodologicamente orientata dalla consapevolezza dei limiti del ‘paradigma della semplificazione’, incardinato sulla linearità causale, luogo della semplicità, dello sviluppo rettilineo, della precisione, governata da leggi certe e invariabili, che viene meno nell’incontro con i margini estremi del percettibile, con l’affacciarsi su frontiere complesse in cui la stessa materia non è chiaramente identificabile e misurabile e dalla consapevolezza dell’impossibilità di isolare distinti fenomeni o fatti, separandoli dalla metaforica rete di interazioni e relazioni con altri fenomeni o fatti e con i contesti in cui si manifestano.
In tal senso, l'insegnamento della Pedagogia richiede un’opzione metodologica verso un ‘macroparadigma’ trasversale, centrato su un approccio sistemico, che osserva il mondo (i mondi) nelle sue associazioni complesse (complementari, concorrenti, antagoniste), nelle interazioni, transazioni e retroazioni generatrici di forme e di organizzazioni, attraverso l'incontro, la contaminazione, la negoziazione tra diverse categorie interpretative, restituendo in una prospettiva interdisciplinare, la trama multiforme e complessa della realtà.
Decisamente, quindi, non convince la scansione cronologica della Pedagogia, ridotta a Storia della Pedagogia, e non sono condivisibili gli obiettivi indicati.
Rispondere alla domanda di cosa sia la Pedagogia, certamente implica conoscere la sua storia, comprendere come e perché è mutata la sua idea nel corso del tempo, quali sono state le sue principali correnti e quali i principali pensatori. Ma una mera ricostruzione del pensiero pedagogico imbrigliata in una logica tutta diacronica, ancorché arricchita di apporti testuali, resta un sapere cumulativo, una somma aritmetica di conoscenze. È istruzione, produzione sì di essenziali saperi e abilità, ma non educazione intellettuale, non costruisce strutture mentali, non forma “teste ben fatte“.
La Pedagogia è di più. È il generatore dell’irrinunciabile potenziale di ogni uomo e donna, di ogni comunità, è filo che tesse la qualità delle relazioni e delle realizzazioni di tutti gli uomini e di ciascun uomo, è il custode del patrimonio spirituale e culturale di ogni popolo. È un continuo domandare, un permanente interrogare le complesse e delicate zone di confine del valore, della verità e della libertà, un continuo affrontare i problemi della vita, della natura dell’uomo, una coscienza regolatrice dell’azione umana che si interseca con il piano dell’etica e della morale, con la ricerca della direzione e dei significati dell’agire. Essa ha bisogno di tempi, consistenti e distesi, che consentano agli studenti di apprendere in spazi vissuti, di vivere la scuola come luogo in cui si incontrano, decodificano e governano le tensioni sociali e culturali derivanti dalle transizioni in atto Luogo che consente di coniugare quella conoscenza e quella coscienza in grado di dare forma al loro mondo esistenziale e dare forma al mondo, impedendo che entrambi si perdano -modellizzati e conformati- in una sorta di globalizzazione anonima.
Più che studiare la sua scansione cronologica (è forte il rischio nozionistico di una elencazione di modelli statici) è importante attivare un critico confronto con la storia dei problemi che la Pedagogia oggi analizza e con le soluzioni date nel passato, tenendo conto delle potenzialità degli studenti (è impensabile che essi siano in grado di cogliere la complessità di Socrate e Platone al primo anno), e realizzando coerenti raccordi con le altre discipline, delle quali sarebbe auspicabile affidare la scansione all’autonomia progettuale delle scuole.
L'Autonomia scolastica, dettato costituzionale gerarchicamente superiore alle leggi, consente la libera, autonoma scelta dei percorsi, in coerenza con l'offerta formativa progettata, sottraendo la Scuola a Indicazioni che prescrivono centralmente i contenuti e la loro progressione temporale, come avviene, nonostante siano, appunto, Indicazioni e non Programmi. È possibile costruire un curricolo che libera l'insegnamento della Pedagogia da precetti tardo-idealistiche, dove non si comprende, se non supponendo una scelta ideologicamente orientata, la presenza di non rappresentativi autori (perché Gentile, pur ottimo filosofo, e non Lombardo Radice, sicuramente più autorevole pedagogista?), la scarna presenza o l'omissione di correnti e pensatori che hanno fatto la Storia della pedagogia.
Probabilmente non si tollera una pedagogia che inquieta i potenti, che solleva lo sguardo sia oltre la dimensione empirico-pragmatica, sia oltre quella metafisica, e si colloca dentro un orizzonte critico-interpretativo (postideologico, post-conformista, post-autoritario), autoriflessivo ed ermeneutico, e da lì interroga i vari saperi, modelli, prassi, curvandoli verso il senso e la ragione dell’educare, facendo della formazione un luogo di progettazione etico-sociale ed esistenziale. Non si vogliono lieviti di cambiamento in un mondo in cui singole persone e popoli interi sono privati di identità, culture, lingue, risorse e speranze.
Non è, dunque, casuale la “censura” di tutta la pedagogia contemporanea. Il curricolo del quinto anno si caratterizza per la palese contraddizione tra gli obiettivi proposti “sapersi orientare nella cultura pedagogica moderna, riconoscere i principali temi del confronto educativo contemporaneo (...), comprendere le connessioni tra il sistema scolastico e le politiche dell’istruzione a livello europeo (...), cogliere potenzialità e criticità delle tecnologie info-telematiche, saper condurre semplici indagini di tipo empirico” e gli autori suggeriti. La scienza pedagogica si ferma poco oltre la metà del Novecento (limitandosi alla pur nobile lettura di Claparède, Dewey, Gentile, Montessori, Freinet e Maritain), e ignorando (prudentemente?) tutte le principali teorie contemporanee. Eppure, proprio i temi proposti, sostanzialmente condivisibili, anche se frammentari e non esaustivi, richiederebbero più attuali quadri di riferimento teorico.
L’esperienza educativa non può non disporre di una solida dotazione scientifica per cogliere gli inediti tratti che caratterizzano il mondo contemporaneo, caratterizzato dalla consapevolezza dei limiti intrinseci al sistema complesso, del suo aumentare in fragilità al suo crescere in complessità; dall’emersione di modelli concernenti i confini e le catastrofi; dal processo di mercantilizzazione della cultura e dell’educazione, fino alla diffusione di standard tecnologici chiusi; dalla crisi della ragione, congiunta alla consapevolezza dei suoi limiti, del suo rapporto intrinseco con il modo affettivo e relazionale, ed alla rivoluzione epistemologica rappresentata dal paradigma della complessità; dall’ibridazione tra naturale e artificiale (come manipolazione del materiale genetico umano, biologizzazione delle macchine e meccanizzazione degli esseri viventi); dal progressivo ‘meticciamento’ etnico e culturale, fino al nodo della costruzione dell’identità e della sua relazione con la differenza; dall’affiorare di uno sguardo sull’uomo sempre meno categoriamente astratto e sempre più attento a cogliere l’uomo “concreto”, colto nella sua irripetibile unicità e differenza.
Bertin, don Milani, Morin (solo per citare alcuni protagonisti), ma anche le neuroscienze e altri settori della ricerca contemporanea sono assenti dalle Indicazioni.
Resta da confidare nella professionalità dei docenti e nella passione che manifestano quotidianamente nel loro impegno, e sperare che successive modifiche delle Indicazioni restituiscano scientificità e dignità a questo segmento della formazione secondaria superiore .

*Docente di Pedagogia all’Università di Bolzano

.....................................................................................

L’INSEGNAMENTO DELLA PSICOLOGIA NEL LICEO DELLE SCIENZE UMANE


Adriana Mincione*


Il panorama culturale dei nostri tempi farebbe pensare che un indirizzo di studi per essere formativo debba essere centrato sulla padronanza delle pluralità culturali, sociali ed economiche, senza trascurare la dimensione psicologica individuale e collettiva. La realtà in cui siamo immersi come individui, imporrebbe uno studio approfondito delle scienze umane, sia a livello disciplinare specifico, sia nel loro insieme, proprio per cogliere i nessi e i problemi provenienti da un contesto sociale divenuto sempre più complesso e difficile, e per fornire agli alunni strumenti che li mettano in grado di affrontare tale contesto.
Le società della tarda modernità sono complesse e le scienze sociali possono essere una guida per districarsi in questa complessità. Le finalità del loro insegnamento devono, infatti, essere orientate a trasmettere l’idea che la realtà che ci circonda non è soltanto interpretabile in base a categorie ideologico-politiche, ma può essere oggetto di indagine scientificamente controllata.
Le scienze sociali non possono dare certezze assolute, ma solo strumenti per muoverci ragionevolmente in un mondo di “incertezze”. La scuola dovrebbe, in tal direzione, accogliere l’invito che le viene dalle contemporanee scienze dell’uomo che interpretano la ragione quale sintesi di raziocinio ed affetti, e in quanto tale in grado di integrare tutte le dimensioni della persona umana, favorendo lo sviluppo di quella razionalità pratica, progettuale, costruttiva, demonica, raffinata nella sensibilità e audace nell’immaginazione di cui parlava Bertin2, laddove demonica si contrappone a scientista, e significa aperta alle istanze filosofiche, alle risonanze estetiche, alle sollecitudini e alle inquietudini del quotidiano.
Occorre rimettere insieme le esperienze e il pensiero per riportare alla luce l’idea di scuola e una pratica che si fondano: - sulla costruzione del curricolo, sui saperi e le competenze - sull’integrazione fra saperi - sul rapporto tra scuola e mondo fuori dalla scuola - sullo stage formativo come luogo di verifica e di revisione dei saperi - sulla relazione educativa e su una profonda revisione delle metodologie didattiche.
Non è questo l’impianto culturale delle Indicazioni per i Licei. Perplessità e critiche sono espresse da autorevoli voci diversamente collocate nel panorama italiano. Lo stesso Claudio Gentili, Direttore Education di Confindustria nell’ articolo I licei ancora al bivio tra passato e finte riforme, 7 Aprile 2010 afferma che “La prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei sembra puntare in modo squilibrato esclusivamente sulla trasmissione delle conoscenze, esemplificate da materie, testi e programmi e trascurare la più ampia prospettiva educativa che si fa carico della persona e del suo apprendimento, mettendo lo studente in rapporto con le sue potenzialità di evoluzione, richiamando la pluralità delle intelligenze, l'intreccio inevitabile di conoscenze, abilità e qualità personali, i saperi messi al lavoro in campi spesso lontani dall'ambiente scolastico”, riconoscendo/sottolineando quello che Freud già nel 1929 nel Il disagio della civiltà, aveva individuato come uno dei principali limiti dell’educazione nell’incapacità della scuola di preparare gli alunni ad affrontare il mondo: essa pecca anche nel non prepararlo [il giovinetto] alle aggressioni di cui è destinato a diventare l’oggetto. Introducendo così la gioventù nella vita con un atteggiamento così sbagliato, l’educazione si comporta come se si equipaggiassero di vestiti da estate e di carte dei laghi italiani persone che partono per una spedizione polare (Freud, 19711).
Ci sembra di leggere che l’intento della Riforma del Liceo delle Scienze umane non è quello di formare soltanto degli insegnanti o degli educatori, come accadeva con il vecchio istituto magistrale, ma aprire ad un'ampia gamma di possibilità, fornendo competenze chiave per leggere ed interpretare la realtà. A tal fine, sarebbe auspicabile, per il biennio iniziale del liceo delle scienze umane e dell’opzione economico-sociale, presentare un percorso il più possibile comune e interdisciplinare, per trasmettere agli studenti alcuni elementi fondamentali di psicologia e sociologia, affrontando soprattutto temi vicini ai vissuti quotidiani dei ragazzi. In particolare sarebbe opportuno che attraverso l'esame della psicologia cognitiva (percezione, memoria, intelligenza, etc.) venisse rafforzato il metodo di studio degli studenti.
L’introduzione alla psicologia dinamica consentirebbe invece di affrontare la conoscenza del sé e delle emozioni, mentre l'analisi dei gruppi sociali e delle dinamiche interpersonali servirebbe agli allievi per comprendere meglio i contesti relazionali in cui essi sono inseriti.
Verrebbe in questo modo promosso un approccio alle scienze umane didatticamente più motivante, creando un percorso utile e completo anche in vista dell’assolvimento dell’obbligo di istruzione o di un eventuale riorientamento.
Sarebbe opportuno proporre in forma di laboratorio teorico-pratico il frutto delle ultime ricerche di psicologia cognitiva sul metodo di studio e la metacognizione, (autoregolazione, consapevolezza strategica, convinzioni, attribuzioni, abilità cognitive, ecc.) sviluppando maggiormente le scienze della comunicazione, le teorie sistemiche, la psicolinguistica, le conoscenze derivanti dalla cognizione sociale e dalla rappresentazione sociale, le nuove acquisizioni derivanti dall'individuazione di più forme di intelligenza e l'enorme ricchezza teorico-pratica proveniente dall'inquadramento relazionale dei fenomeni a partire dalle neuroscienze (incomprensibilmente assenti dalle Indicazioni).
Concentrare nel primo biennio nuclei essenziali che partendo dall’introduzione generale alle scienze umane (quali sono le scienze umane? di cosa si occupano? come si differenziano dalle scienze naturali? etc.) possano condurre all’esame delle funzioni mentali attraverso lo studio dei processi cognitivi (percezione, memoria, apprendimento, intelligenza e linguaggio), con particolare attenzione al potenziamento del metodo e delle strategie di studio; ai processi affettivi (emozioni, motivazioni, carattere e personalità), con particolare attenzione alla promozione di competenze legate alla conoscenza del sé, dei vissuti emozionali e degli altri; ai processi socio-relazionali (relazioni, dinamiche di gruppo, atteggiamenti e pregiudizi), con particolare attenzione allo sviluppo di competenze nella gestione delle relazioni e dei gruppi, destinando al secondo biennio lo studio della psicologia dello sviluppo.
É da sottolineare l’assenza dalle indicazioni della psicologia sociale e della comunicazione e della psicologia clinica. Si tratta di settori della psicologia che, oltre a suscitare notevole interesse negli studenti, consentono lo sviluppo di importanti abilità nella gestione delle relazioni, dei gruppi e delle dinamiche di cura ed aiuto.
Per rispondere alle sfide della tarda modernità è indispensabile che le scienze sociali assumano quale finalità del loro insegnamento la trasmissione dell’idea che la realtà che ci circonda non è soltanto interpretabile in base a categorie ideologico-politiche, ma può essere oggetto di indagine scientificamente controllata. Le scienze sociali non possono dare certezze assolute, ma solo strumenti per muoverci ragionevolmente in un mondo di “incertezze”, promuovendo, quella pedagogia della speranza3, che, partendo da un approccio problematico fenomenologico all’esperienza educativa, si oppone alla pedagogia di stato idealistico-monistica, valorizzando la complessità e la pluralità e proponendo forme di scuola aperta alla scoperta del mondo. (Frabboni, 19923)
Sarà estremamente improbabile che tali obiettivi siano realizzati, considerando il taglio orario nelle discipline di indirizzo che colpisce duramente i docenti della classe A17, e toglie qualsiasi specificità al liceo delle scienze umane.

1-Freud, S. 1971. Il disagio della civiltà. Torino, Bollati Boringhieri.
2-Bertin, G. M., 1987. Ragione proteiforme e demonismo educativo. Firenze - La Nuova Italia.
3-Frabboni, F. 1992. Manuale di didattica generale. Bari : Laterza.

*Dirigente scolastico

....................................................................................

ANTROPOLOGIA E SOCIOLOGIA NEI LICEI DELLE SCIENZE UMANE.
RIFLESSIONI DI UN DOCENTE


Annacristina Campofreda*


Con l’avvento delle Scienze umane la nozione di scienza si amplia. Le varie scienze umane sono omologhe tra loro per l’oggetto comune che trattano: l’uomo come mente, storia ed attore sociale. E’ nella seconda metà del Novecento che alcune di queste scienze costruiscono il loro statuto ritenuto da alcuni più fondativo e regolativo: l’antropologia e la pedagogia.
L’Antropologia culturale tratta le varie culture, le loro differenze, le ragioni che le hanno determinate il loro intrinseco pluralismo, il ruolo che tali culture hanno rispetto alla religione, arte, economia, organizzazione sociale, con le proprie regole e propri valori. Indubbiamente gli studenti considerando mondi diversi, imparano ad avere una visione globale e non unilaterale delle proprie esperienze, divenendo più consapevoli anche di ciò che maggiormente li caratterizza. La difficoltà è l’integrazione con la dimensione educativa. In alcune pratiche scolastiche è stata una consuetudine distinguere un orario settimanale interno, che prevedeva l’ora di antropologia, l’ora di storia della pedagogia, l’ora di problemi e l’ora di psicologia in un'unica valutazione relativa alle scienze della formazione . Ancora una volta si è caduti in una parcellizzazione dei saperi. Purtroppo, se consideriamo i testi in uso nelle nostre scuole, le case editrici sono, da qualche tempo, molto attente a contenere nei propri margini ciascuna disciplina, cosicché alcuni autori che si ritrovano accennati in libri di discipline diverse, gli studenti danno per scontato che sono omonimie e si fatica non poco nel rinquadrarli in una visione unitaria.
Quando una disciplina racchiude i contributi di più scienze sarebbe preferibile un’organizzazione per problemi e non secondo criteri storico evolutivi. La dimensione storica è quella più diffusa sia come editoria che nella comune pratica scolastica ma è quella che meno prepara i nostri alunni all’Esame di Stato. L’approccio per problemi, rispetto a quello storico cronologico motiva maggiormente gli alunni ed è una strategia da attivare soprattutto ai primi anni. Da riprendere, comunque, al quinto anno perché consente un’adeguata preparazione alla seconda prova d’esame.
Per quanto riguarda la Sociologia, la pratica sperimentale della scuola ha portato al primo anno di liceo pedagogico ad una introduzione sul significato e valore della disciplina al momento della presentazione di tutte le scienze afferenti la formazione, per poi rinviare il discorso sistematico al momento in cui , gli autori più rappresentativi , venivano presentati anche filosoficamente. Le problematiche sociali, abbracciando aspetti di carattere educativo-pedagogico, venivano perfettamente integrate nello studio dei vari fenomeni. L’educazione è alla base del costituirsi e svilupparsi delle culture. Pertanto la pedagogia svolge un ruolo fondativo tra le scienze umane, ne fissa gli obiettivi e ne spiega il senso riportando i saperi umani all’uomo. Una profonda coscienza pedagogica è una reale capacità di comprendere il problema educativo nella concretezza in cui si presenta e di avviare la soluzione nella prospettiva della libertà e dell’autenticità umana di colui che educa.
Il pluralismo ideologico, politico e culturale è la condizione in cui il bisogno di valori può essere appagato nel pieno rispetto della libertà individuale: la pedagogia può arricchire la sua azione con questo impegno civile, nel tirocinio di un dialogo continuo, di una reale tolleranza, nell’oggettività dell’informazione, nella socializzazione di un impegno critico degli alunni, che consente alle conoscenze di dare saldezza alla libertà individuale. In questo modo la pedagogia diventa fulcro di una deontologia che governa la professione docente intesa come deontologia che obbliga a scegliere. Perché si sceglie questa e non un’altra conoscenza? Perché la si sceglie oggi e non domani? La scelta è sempre di valore. Assegnando alla pedagogia un posto d’onore tra le scienze che si pongono a servizio dell’uomo non come specie ma come persona che si forma dentro e con la cultura, bisogna accogliere tutte le forme in cui la cultura si manifesta. Tali forme pur appartenendo a scienze diverse non solo hanno uno scopo comune, ma condividono un insieme di assunti generali e principi metodologici formando un gruppo omogeneo. Una collaborazione effettiva tra tutte le scienze renderà possibile un’interpretazione dell’educazione ed una progettazione più vicina alla realtà e più conforme alle finalità umane viste nella loro integralità.
Nella bozza delle Indicazioni nazionali per i licei sono inquadrate come scienze umane: antropologia, pedagogia, psicologia e sociologia (e il diritto?). Si pone l’accento su un “insegnamento pluridisciplinare” in stretto contatto con la filosofia, storia, letteratura e cultura religiosa, strano che nell’opzione economico-sociale basta solo tale contatto per “condurre” lo studente a conoscere le principali forme economiche, socio-politiche e giuridiche, quasi come ne fosse una naturale conseguenza. Per gli studenti dell’opzione base, invece, tale contatto condurrà a “padroneggiare” le principali teorie in campo antropologico, educativo, psicologico e sociale. A parte il riferimento all’insegnamento pluridisciplinare che ben sappiamo come utilizzazione delle competenze di una scienza da parte di un’altra in funzione di una comune impresa conoscitiva, senza che tra le scienze si istauri un vero dialogo o una vera collaborazione. Il “condurre a conoscere” e il “condurre a padroneggiare” hanno una dimensione diversa quasi gerarchica.
Soprattutto, cosa significa “L’insegnamento… dovrà condurre a padroneggiare..? Che l’insegnamento stesso possieda implicito tale aspetto? Oppure meglio “che l’insegnante dovrà stare attento a far sviluppare tale aspetto? Allora non si tratta di un esito di apprendimento (competenza) , bensì di una prescrizione metodologica per il docente. Inoltre “…con particolare attenzione ai fenomeni educativi e ai processi formativi formali e non…” da parte di chi? Del docente o dell’alunno? O di tutti e due? Trapela un po’ di confusione tra l’insegnamento e apprendimento, tra l’obiettivo formativo del docente e l’esito di apprendimento dell’alunno. Ancora “sapersi orientare”, “oggetto di riflessioni”, “saper confrontare teorie”, “comprendere dinamiche della realtà” sono assimilabili più a conoscenze di secondo livello piuttosto che a precise competenze.
Nel paragrafo riferito all’antropologia :” Lo studente dovrà acquisire nozioni..”, ancora una volta l’assoluta centralità della conoscenza e dei contenuti suddivisi per teorie,autori, temi scanditi cronologicamente. Inoltre, “le cosiddette culture primitive, il loro carattere magico-sacrale e il passaggio alle cosiddette culture evolute, alla crescente differenziazione socio-culturale” evidenziano una concezione di matrice positivistico-evoluzionistica e poco accettate dalla maggior parte degli antropologi.
Per quanto riguarda la Sociologia essa si compendia degli autori Comte, Durkheim, Weber, Pareto e Marx? Credo volutamente dimenticato come Socrate in pedagogia altrimenti si creerebbe un conflitto di interessi con la filosofia ( a ciascuno il suo). Anche se alcuni lamentano che in questo modo, fermandosi al 1920, vengono trascurati tutti i riferimenti alla sociologia americana dei primi decenni del XX secolo, fortunato chi riesce ad arrivarci!
Nelle Indicazioni del quinto anno si definisce la socializzazione come “un problema/concetto fondamentale della sociologia”. Da quando? E la comunicazione? “L’attenzione ai disabili specialmente in ambito scolastico” non è un problema pedagogico? Ancora una volta si è caduti in una settorializzazione, ancora una volta non sono presenti esiti di apprendimento trasversali, solo superficiali accenni nel profilo generale nel quale si manifesta una certa ambiguità interpretativa. E comunque poiché ciò che si insegna non può dissociarsi dal come si insegna e dall’anno prossimo abbiamo l’arduo compito di insegnare scienze umane, speriamo almeno, che non ci siano docenti che le insegnino in modo “disumano”.

*Docente Liceo socio-psicopedagogico

....................................................................................

LICEO CLASSICO

Franca Pinto Minerva*

La riforma del liceo classico, proposta nelle recenti Indicazioni ministeriali, sembra scalfire appena l’impianto tradizionale di questo importante settore della scuola superiore. Gli obiettivi formativi generali, i contenuti disciplinari e l’intero impianto didattico replicano, in gran parte, temi-problemi-questioni culturali e scansioni temporali che, invece, avrebbero avuto bisogno di una profonda riscrittura. E ciò in funzione di una società in transizione accelerata e di un’utenza scolastica socialmente variegata, che esprimono una domanda formativa molto differente da quella elitaria delle classi dirigenti cui il liceo classico gentiliano si rivolgeva. Una nuova domanda formativa, che tuttavia non chiede una semplificazione dello studio, ma significativi cambiamenti, che non intacchino in alcun modo il rigore di una formazione qualificata e articolata. Queste attese sembrano destinate a restare deluse, considerato che l’impianto culturale e didattico proposto sembra discostarsi poco – come già detto - dal tradizionale assetto liceale classico.
Per meglio argomentare le nostre riserve, concentriamo l’attenzione su due aspetti essenziali del curricolo riformato del liceo classico, lo studio delle lingue e letterature antiche e quello della filosofia. Abbiamo espresso le nostre perplessità a due autorevoli studiosi, Luciano Canfora (professore ordinario di Filologia classica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari) e Mario Manfredi (professore ordinario di Filosofia morale della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari).

Quanto alle Lingue e letterature antiche, ci pare che esse confermino i presupposti pedagogici e didattici su cui si fondava il vecchio ordinamento del liceo classico.
Il primo di tali presupposti è la concezione della disciplina formale. Se si accetta tale presupposto, si è portati a ritenere che le lingue e la letteratura antiche siano degne di essere insegnate, perché la loro forma o struttura produce effetti propulsivi sullo sviluppo mentale del discente: esse disciplinerebbero la mente agendo come una sorta di ginnastica intellettiva, a prescindere dal loro valore intrinseco quali fattori di comprensione del mondo e di formazione etica. Se le lingue e le letterature antiche sono di per se stesse funzionali alla maturazione dell’allievo, a prescindere dai valori culturali che vengono proposti mediante il loro insegnamento e indipendentemente dalle forme e dalle modalità in cui si realizza l’apprendimento, perché mai si dovrebbe mettere in discussione l’impianto tradizionale della formazione classica?
Il secondo presupposto della vecchia impostazione degli studi classici è la convinzione che la cultura dei greci e dei romani rappresenti un valore in sé, un valore assoluto, un tesoro di beni culturali che merita di essere tramandato come lascito monumentale del nostro passato, a prescindere dalla loro funzionalità cognitiva e pratica. Ma in verità questi due presupposti si sorreggono a vicenda. Entrambi convergono dunque nel sostenere la perpetuazione del tradizionale impianto didattico. Un impianto che trascura l’esigenza – sempre più avvertita – di riattualizzare e di rivitalizzare l’insegnamento della cultura antica, di renderla cioè funzionale all’intelligenza dell’uomo contemporaneo. Ci si riferisce ad una funzionalità ermeneutica: lo studio dell’antichità risponde infatti al nostro bisogno di auto-comprensione. Senza il ritorno agli antichi non possiamo riappropriarci della nostra storia e del nostro destino.
Occorre allora interrogarsi sui modi in cui l’istruzione classica, nella sua componente umanistica non meno che in quella scientifico-naturalistica, può essere resa funzionale ed attuale in rapporto ai bisogni formativi dell’età nostra. A tal fine, l’attuazione delle Indicazioni per il liceo classico potrebbe essere un’occasione per fondare su nuovi presupposti la didattica delle lingue e delle letterature antiche. Non si tratta soltanto, beninteso, di individuare i principi di una nuova didattica del latino e del greco – un compito che lasciamo agli autorevoli specialisti di queste discipline – si tratta altresì di chiarire la funzione formativa che l’istruzione classica può ancora offrire all’uomo contemporaneo. Se la funzione fondamentale di tale formazione consiste nel promuovere una comprensione più profonda e più critica (e non già il culto fine a se stesso) dei più antichi valori della nostra civiltà, ne consegue che finalità dell’educazione classica è quella di sviluppare la coscienza filosofica, teoretica, estetica, etica, rafforzando in tal modo le competenze linguistiche e storiche e le conoscenze letterarie.
Il carattere fondamentale di una seria formazione classica è dunque la preservazione della consapevolezza storica, nell’avvicendarsi delle generazioni. Scopo di tale formazione non è soltanto quello di sottrarre all’oblio i valori e le esperienze dell’umanità antica, ma quello più generale di comprendere il presente nel quadro dell’intera vicenda storica umana. Il ritorno agli antichi non ha senso se non all’interno di questa generale intenzionalità storico-critica. Una delle finalità fondamentali della formazione classica è dunque la salvaguardia di un rapporto, colto ma anche critico, con il nostro passato. L’essere dell’uomo è intriso di temporalità. Se una parola acquista senso in una frase, e la frase nell’ambito di un testo, il testo nell’insieme di un’opera, l’opera nel quadro di un’epoca, ebbene l’epoca stessa acquista tanto più significato quanto più vasto è l’orizzonte storico nel quale viene contestualizzata. Il liceo classico dovrebbe appunto estendere questo orizzonte.
I rilievi pedagogici e didattici che si potrebbero fare a proposito di queste Indicazioni sarebbero ancora tanti. E saremmo davvero felici se si potesse ancora aprire una discussione, onde evitare che l’attuazione di queste insoddisfacenti Indicazioni si risolva in una conferma dell’impianto didattico del vecchio liceo classico tradotto nel nuovo gergo delle competenze.

............

INTERVISTA A LUCIANO CANFORA
Docente di Filologia greca e latina all'Università di Bari

Franca Pinto Minerva
Alla luce di queste considerazioni, chiediamo a Luciano Canfora cosa pensa della nostra preoccupazione, relativa alla riproposizione, nel documento di riforma, di un’idea di classicità come mondo separato, idea antiquata e monolitica, che rischia di autorizzare la riduzione dell’universo complesso dell’antichità a un’immagine univoca e non problematizzata nella pluralità delle sue sfaccettature. Non rinuncia, in tal modo, il Legislatore a stimolare e ad orientare docenti e studenti verso percorsi costruttivi di saperi e verso interpretazioni più aperte, realmente innovative rispetto ad un’idea di classicità che chiede invece di essere ridefinita alla luce della pluralità delle istanze cognitive e pratiche dell’attuale società? In quanto studioso delle lingue e delle letterature antiche, cosa pensa del modo in cui viene presentato, nel documento di riforma, il problema della traduzione?

Contro l’antiquata nozione di classico si possono muovere molte obiezioni. Va da sé che ormai il termine, quando si parla di ordinamenti scolastici Quando si parla degli ordinamenti scolastici, il termine “classico” ha un valore puramente convenzionale. Indica infatti quelle scuole nelle quali lo studio del latino e del greco continua ad avere, nonostante tutto, una posizione di rilievo. Le difficoltà in cui versa questo ramo dell'insegnamento sono ben note: sono legate innanzi tutto alla perdita crescente della capacità di leggere in originale testi greci e latini. Ciò è sempre più difficile per gli studenti e forse un pochino anche per i professori (colpa della università sempre più lassista e demagogica). Un’ulteriore difficoltà nasce dal fatto che la parola "classico" continua a suggerire l'idea di un supermondo esemplare. Una tale visione danneggia enormemente lo studio dell'antichità, che viene visto come un enorme ingombro, che, così inteso, toglie spazio alla conoscenza del mondo delle civiltà successive e di quella moderna in particolare. L'idea stupidamente idolatrica di "classicità" non solo è nociva ma si fonda su un colossale errore di prospettiva. Il presupposto è infatti che, chissà perché, il mondo classico rappresenti un universo compatto e intimamente coerente nonché portatore di valori assoluti e perenni. È vero invece il contrario: si tratta di un mondo straordinariamente ricco e contraddittorio, attraversato da contrasti laceranti, alcuni dei quali si prolungano fino a noi. Questo mondo, al contrario, diventa molto interessante se viene detronizzato da una così mal fondata e arbitraria egemonia aprioristica.
Il vero problema non è quello di escogitare argomenti per difendere lo studio dei greci e dei romani. Il vero problema è che è in pericolo la conoscenza storica in quanto tale. Il mondo antico è solo una parte di tale indispensabile conoscenza, che viene progressivamente emarginata dalle nostre scuole. Ricollocare l'antichità all'interno di un più ampio processo storico significa sottrarla alla odiosità di cui è oggetto, ma significa anche che la battaglia in difesa della conoscenza storica è tuttora in corso e gli esiti sono incerti.
Un ulteriore problema, legato alla lettura dei testi classici, è appunto quello della traduzione. A causa della distanza che ci separa dai testi antichi, e quindi dell’esiguità del contesto fattuale e intellettuale che ad essi ci accomuna, la traduzione dei loro scritti è uno dei cimenti intellettuali più ardui, e maggiormente fondati sull’intuizione. L’interdipendenza e la circolarità tra “dettaglio” e “complesso” è, nel tradurre gli antichi testi, chiamata in causa in modo esemplare. Chi ha frequentazione dei Greci e dei Latini sa bene quanto (forse in greco ancor più che in latino) il valore di un singolo termine – quanto mai duttile e polisemico – si chiarisca solo se vi è la comprensione-intuizione di ciò che l’intera frase, e tutto il testo, e poi l’intero contesto significano. Il tradurre è pertanto uno degli impegni scolastici più seri. Purtroppo su di esso si appunta, da un po’ di tempo, la diffidenza demagogica dei riformatori.
Schematizzando al massimo, ritengo che l’attesa riforma dei licei, e nel caso specifico quella del liceo classico, non presenti alcuna sostanziale innovazione e che in vari punti il Testo replichi schemi culturali e didattici ormai inattuali. Sono molte le omissioni e numerose le formulazioni generiche, in particolare quelle relative alla descrizione delle competenze.

Franca Pinto Minerva
Passiamo ora ad analizzare la proposta di riforma relativa all’insegnamento della Filosofia. Nella parte intitolata Profilo generale e competenze, ricorrono espressioni come riflessione personale, attitudine all’approfondimento, giudizio critico, discussione razionale, espressioni di indubbio valore formativo, che appaiono tuttavia troppo vaghe per caratterizzare le competenze filosofiche. Sarebbe stato opportuno adottare formulazioni più precise, perlomeno come quelle che ricorrevano nei Programmi Brocca, nei quali si faceva, ad esempio, espresso riferimento ad attività di analisi testuale: es. Compiere nella lettura del testo le seguenti operazioni: definire e comprendere termini e concetti, enucleare le idee centrali, (…) saper distinguere le tesi argomentate e documentate da quelle solo enunciate; (…) dati due testi di argomento affine, individuare analogie e differenze; ecc.
Quelli che nei Programmi Brocca venivano sobriamente definiti obiettivi di apprendimento potrebbero aspirare al titolo di competenza più che tante espressioni che compaiono in tal modo etichettate nelle presenti Indicazioni.
Analoga perplessità suscita la decisione di decretare che la filosofia inizi con Socrate e termini con Hegel, e della decisione di rinchiudere nella riserva dei temi opzionali o propedeutici tutto il resto, compresi i grandi movimenti dell’antichità e dell’età moderna, dalla sofistica alla filosofia ellenistica, dall’illuminismo settecentesco al romanticismo, per finire con la fenomenologia e l’ermeneutica filosofica, il pragmatismo e l’esistenzialismo, gli sviluppi del marxismo e la nuova teologia).
Per supportare un’ulteriore considerazione critica, partiamo da una reminiscenza storiografica. Ricordiamo quello che Eugenio Garin scriveva a proposito di alcuni storici che, pur riconoscendo il valore dell’umanesimo italiano come movimento di idee e come epoca di creatività scientifica, artistica, politica e tecnologica, ne svalutavano tuttavia la portata filosofica in quanto questo movimento non si era espresso mediante le tipiche grandi figure emblematiche della tradizione metafisica, cioè mediante i costruttori di sistemi, ma in un processo ideale e pratico multiforme e diffuso, cioè nelle ricerche di scienziati, politologi, architetti, ingegneri, artisti, ecc.
Ebbene Garin notava che l’intima ragione di questa svalutazione era il
“sopravvivente amore per una immagine della filosofia che il pensiero del ‘400 costantemente avversò. Perché ciò di cui si lamenta da tante parti la perdita [perdita, nell’umanesimo, della filosofia come pensiero metafisico e come speculazione, ndr] è proprio quello che gli umanisti vollero distrutto, e cioè la costruzione delle grandi <>, delle grandi sistemazioni logico-teologiche: della Filosofia che sussume ogni problema, ogni ricerca al problema teologico, che organizza e chiude ogni possibilità nella trama di un ordine logico prestabilito. A quella Filosofia, che viene ignorata nell’età dell’umanesimo come vana e inutile, si sostituiscono indagini concrete, definite, precise, nelle due direzioni delle scienze morali (etica, politica, economica, estetica, logica, retorica) e delle scienze della natura […], coltivate iuxta propria principia, al di fuori di ogni vincolo e di ogni auctoritas (…).”

Ora, se torniamo alle nostre Indicazioni, troviamo che in questo testo riemerge proprio quella antiquata visione metafisica della filosofia che il grande storico italiano censurava. Giganti del pensiero come Anassimandro, Parmenide, Eraclito, Epicuro, e poi Protagora, Gorgia, e poi ancora tutto lo scetticismo e lo stoicismo, ebbene, tutto questo fermento di vita e di pensiero viene ridotto al rango di mera propedeutica all’edificazione delle grandi cattedrali di Platone, Aristotele, Cartesio, ecc. Ci pare inoltre che, sempre in queste Indicazioni, la storia della filosofia venga ridotta a storia della metafisica anche perché non c’è un solo riferimento agli sviluppi della scienza, ad esempio all’impetuoso pensiero scientifico della Grecia antica. Non un solo riferimento ad Ippocrate, Euclide, Eudosso, Galeno, Tolomeo, ecc. Né si tratta di mera svista, magari limitata alla storia della cultura antica, ché la medesima visione della filosofia viene riproposta a proposito della scolastica medioevale, dell’umanesimo e del rinascimento, dell’illuminismo, ecc. Tutto questo è confinato nel limbo della propedeutica storica.
Non parliamo poi della sezione dedicata alla filosofia contemporanea (12 righe), ove campeggiano Schopenhauer, Kierkegaard e Marx e fortunatamente anche Nietzsche. Tutto il resto è opzionale, ridotto a mero ambito concettuale! Ciò accade, ad esempio, per fenomenologia ed esistenzialismo; Circolo di Vienna e filosofia analitica; ermeneutica filosofica. Insomma Wittgenstein e Heidegger sono degli optional.

INTERVISTA A MARIO MANFREDI
Docente di Filosofia all’Università di Bari

In riferimento a quanto detto, chiediamo a Mario Manfredi il suo parere specialistico sulle perplessità espresse.

La lettura delle “Indicazioni” mi conferma in una convinzione che da tempo coltivo: che decenni di poco concludenti “discorsi sul metodo” non abbiano inciso minimamente sui contenuti, che sono rimasti gli stessi dei tempi della Riforma Gentile – a parte le compressioni e i tagli imposti dal fatto che, nel frattempo, la storia del pensiero s’è “allungata”, mentre le ore destinate all’insegnamento della filosofia si contraggono –. Protagonisti assoluti rimangono i grandi autori, i grandi sistemi, i grandi problemi; il resto è sfondo, contesto, “orizzonte culturale”, “ambito concettuale”. E questo inquadramento non è mai inteso nel senso di una possibile sociologia della conoscenza, che riporti il pensiero ai fattori che lo determinano, alla storia materiale, all’economia, alla società, ai modelli culturali in senso antropologico, alla storia delle istituzioni, ecc. La filosofia resta storia delle idee, a partire dall’idea di ‘essere’ e dalla scienza che la coltiva, l’ontologia, che resta la più incomprensibile per gli studenti e la meno idonea a suscitarne l’interesse per la disciplina. Nessun rapporto con le scienze umane (ad eccezione di Freud, che fa capolino insieme con un altro “maledetto”, Nietzsche. Vade retro Darwin, maledetto anche lui, tanto che una Ministra voleva cancellare l’insegnamento della teoria dell’evoluzione), poco spazio alla riflessione sul metodo e sul significato delle scienze, nessun riferimento al diritto, pochi alla politica, nessuna concessione alle aperture della filosofia di oggi a temi cruciali: i nuovi soggetti e i nuovi diritti, la civiltà tecnologica, l’ambiente, l’attività economica, i progressi biomedici, la società multiculturale, le nuove forme di comunicazione e altro ancora. E nemmeno il sospetto che la filosofia non può vivere, oggi, senza una relazione “cordiale” con le Humanities, che le procurano – se non il fondamento – fonti e nutrimento.
Dunque, l’insegnamento della filosofia resta legato allo schema della storia del pensiero da collocare in “sistemi”, ciascuno dei quali riprende il precedente, lo sviluppa o vi si oppone in una certa misura. In ciò, l’estensore delle “Indicazioni” coltiva preferenze difficili da giustificare: perché, per esempio, Hobbes e Hume sarebbero meno importanti di Cartesio e Locke? In ogni caso, c’è un omaggio necessario da tributare ai “grandi”, e una malintesa “classicità” che non concede nulla all’attualità; ragion per cui Fichte si prende il tempo che potrebbe essere di Habermas o di Jonas. Di fronte a tanta inventività didattica non resta che invocare la libertà d’insegnamento ed affidarsi alla sensibilità culturale, alla voglia di capire e di far capire, alla sete di aggiornamento dei docenti uti singuli. Ma quanti sono? Non lo so e, soprattutto, temo che siano scoraggiati dal clima generale, dalla burocrazia, dalla routine e dal compito incombente di dover comunque «portare i ragazzi all’esame di maturità». E poi, è una questione di strumenti, tra i quali spicca il manuale, che le “Indicazioni” inducono ancora a concepire nei termini tradizionali di processione di teste pensanti.
Diceva il mio Maestro – e non era una provocazione – che la storia della filosofia nei Licei andrebbe insegnata all’inverso, partendo dal pensiero dei nostri giorni e retrocedendo. I temi acquisterebbero più risalto rispetto agli autori, e si coglierebbe di più il senso della filosofia come risposta ai bisogni dei tempi; avrebbe un significato diverso la tesi hegeliana che la filosofia è «il proprio tempo appreso con il pensiero». Ma occorrerebbero molto coraggio, molta competenza e molto aggiornamento: tutto il contrario dell’abbondante muffa annidata nelle pieghe delle “Indicazioni” ministeriali.

*F. Pinto Minerva è Docente di Pedagogia all’Università di Foggia
.....................................................................................

LICEO SCIENTIFICO
IL CURRICOLO DEL LICEO SCIENTIFICO

Massimo Baldacci*


Se ci si chiede quale deve essere lo scopo formativo generale del liceo scientifico, la risposta sembra abbastanza pacifica: formare una mentalità scientifica.
Definire cosa si può intendere per “mentalità scientifica” è, invece, una questione molto complessa. A titolo di approssimazione grossolana, si può dire che una tale mentalità implica conoscenze, competenze e abiti mentali di tipo scientifico. Diviene, allora, cruciale comprendere la natura di queste acquisizioni, per determinare un curricolo formativo adeguato.
Secondo Bateson , molte confusioni sull’apprendimento possono essere evitate se si distinguono i suoi livelli logici. Ipotizziamo che questo principio sia estensibile anche al curricolo scolastico.
Per esplorare questa ipotesi occorre proiettare i tipi dell’apprendimento sulla struttura del curricolo.
Bateson indica due diversi livelli dell’apprendimento, che sono contraddistinti dal genere di cambiamento che si verifica:
- l’apprendimento 1 (o protoapprendimento) consiste in una modificazione del comportamento e della struttura cognitiva del soggetto; corrisponde all’apprendimento comunemente inteso;
- l’apprendimento 2 (o deuteroapprendimento) è, invece, rappresentato da un cambiamento dell’apprendimento 1 che ne modifica il successivo decorso: rendendolo più rapido, per esempio; fanno parte di questa tipologia di acquisizioni: l’imparare ad apprendere, il transfer dell’apprendimento, e l’acquisizione di abiti mentali (formae mentis, stili cognitivi, competenze, ecc.);
Questa struttura può essere proiettata sul curricolo, determinandone un’articolazione su due livelli logici:
- il curricolo 1 corrisponde al protoapprendimento e consiste nell’assimilazione di conoscenze e abilità legate ai vari saperi curricolari;
- il curricolo 2 corrisponde, invece, al deuteroapprendimento e riguarda la formazione di abiti mentali astratti (formae mentis, stili cognitivi, competenze ecc.).
Per comprendere le implicazioni di questa articolazione del curricolo, occorre qualche nota di approfondimento sulle caratteristiche dei tipi d’apprendimento. In primo luogo, occorre tenere conto del fatto che l’apprendimento 1 è diretto e manifesto, mentre l’apprendimento 2 ha carattere collaterale (si struttura parallelamente all’apprendimento 1 e solo in connessione con esso) e risulta, perciò, poco evidente. Inoltre, si deve considerare che l’apprendimento 1 produce risultati a breve- medio termine, mentre l’apprendimento 2 dà i suoi frutti solo a medio-lungo termine.
Queste caratteristiche determinano a loro volta la differente natura dei due livelli del curricolo. Il curricolo 1 è relativo ai risultati diretti e immediati delle singole discipline; si tratta, cioè, del curricolo nel senso ordinario del termine: come corso di studio delle diverse materie scolastiche. Il curricolo 2 concerne invece gli effetti formativi collaterali e di lungo termine della scuola, nei termini di mentalità, stili di pensiero, competenze ecc. Come dire: da un lato la testa piena, dall’altro la testa ben fatta . Inoltre, il primo livello corrisponde a quella che solitamente chiamiamo “istruzione”, mentre il secondo è inerente alla cosiddetta “educazione intellettuale”; al tempo stesso, il carattere collaterale dell’apprendimento 2 chiarisce che non si dà educazione intellettuale al di fuori dei processi d’istruzione; essa è annidata in tali processi: è il modo di fare istruzione che produce educazione intellettuale, e quest’ultima risulta di qualità solo se tale modo è di tenore adeguato.
In base a queste premesse, risulta chiaro che la formazione di una mentalità scientifica coinvolge in maniera fondamentale il primo livello del curricolo, la determinazione delle discipline e dei loro contenuti (nonché degli spazi orari loro dedicati). Ma non si tratta solo di questo. I modi di lavoro, le strategie didattiche utilizzate, concorrono nel lungo termine a determinare gli effetti collaterali che costituiscono il secondo livello del curricolo, e che sono cruciali in termini di formazione di competenze e di abiti mentali. Per la formazione di una mentalità scientifica non basta l’assimilazione di conoscenze scientifiche (che sono tuttavia necessarie e fondamentali), occorre impregnarsi del metodo scientifico, e ciò è possibile solo in un ambiente didattico permeato dallo spirito scientifico.
Ripensare i contenuti del Liceo è, perciò, importante ma insufficiente. Se il Liceo scientifico ha fin ora ottenuto risultati poco soddisfacenti in termini di formazione generalizzata di una mentalità scientifica, ciò è scarsamente imputabile ad inadeguatezze dei contenuti. Lo è maggiormente in termini di tempi dedicati alle varie aree disciplinari, e ancora di più al fatto di non aver saputo sviluppare una didattica adeguata alla coltivazione di competenze e abiti mentali di marca scientifica. La partita della qualità della formazione liceale si giocherà anche su questo versante.

*Docente di Pedagogia all’Università di Urbino
...................................................................................

LA MATEMATICA NEL LICEO SCIENTIFICO

Berta Martini*


Le indicazioni per l’insegnamento della matematica nel liceo scientifico sono articolate in due sezioni: la prima descrive il “profilo generale” e le “competenze” relative all’intero percorso liceale; la seconda individua gli “obiettivi specifici di apprendimento” per il primo e secondo biennio e per il quinto anno. La contrapposizione generale/specifico, tuttavia, non prelude (e ciò non è necessariamente un male) ad un elenco di traguardi formativi di diverso grado di generalità, bensì ad un’articolazione diffusa di temi, approcci e raccomandazioni metodologiche. Ciò, tuttavia, non senza una certa difformità. La descrizione del profilo generale è infatti indipendente da un’articolazione della disciplina per nuclei fondamentali sui quali, invece, vengono articolati gli obiettivi specifici di apprendimento (Aritmetica e algebra, Geometria, Relazioni e funzioni, Dati e previsioni). Questa discrepanza potrebbe indurre gli insegnanti a considerare indipendentemente le indicazioni contenute nell’una e nell’altra sezione, con il risultato di vanificare l’impostazione generale dell’insegnamento, peraltro esplicitamente caratterizzata da un opportuno respiro epistemologico e culturale. Apprezzabile, da questo punto di vista, il riferimento contenuto nella prima parte del documento, all’“interazione dello studio della matematica con le altre discipline scientifiche” e alla possibilità di “connettere le varie teorie matematiche studiate con le problematiche storiche che le hanno originate”. Un ulteriore elemento da rilevare è l’assenza di una formulazione sistematica delle competenze matematiche. Esse infatti sono indistintamente riferite ora alla “padronanza di concetti e metodi di base”, ora alla “consapevolezza critica” (in particolare dei rapporti con lo sviluppo del pensiero matematico), ora alla “familiarità” con approcci matematici specifici (il riferimento è a quello assiomatico), ora all’“acquisizione” e all’“uso” di principi (in particolare il principio di induzione matematica). Se anche non si volesse attribuire al termine “competenza” una valenza in rapporto al tipo di apprendimento che esprime (e dobbiamo essere consapevoli che un simile atteggiamento è in controtendenza con le direttive europee) qui è in gioco, o dovrebbe esserlo, la distinzione tra traguardi a breve e a lungo termine, tra apprendimenti più semplici e circoscritti e apprendimenti più ampi e complessi. L’esplicitazione di questo rapporto potrebbe rendere più facile evitare il rischio di un approccio didattico centrato sui contenuti e sulla convinzione che la loro padronanza assicuri, ahimè in maniera del tutto implicita e difficilmente controllabile, le competenze corrispondenti. Del rischio, eppure, il testo sembra di essere consapevole quando avverte che “l’approfondimento degli aspetti tecnici (...) deve essere sempre funzionale alla comprensione in profondità degli aspetti concettuali della disciplina”. Profondità che, tuttavia, è inseparabile dalla comprensione storica e dalla critica in direzione epistemologica se, come ci ha insegnato Bachelard, un concetto contiene in sé la sua storia. E allora il registro della mera raccomandazione metodologica ci appare francamente un tentativo troppo debole per la valorizzazione di uno studio della matematica (e di tutte le discipline, come recita l’allegato A) “in una prospettiva, sistematica, storica e critica”. Il sospetto è confermato dalla descrizione del tema Aritmetica e algebra che seppur con la raccomandazione di evitare tecnicismi addestrativi, fa riferimento unicamente agli elementi di base del calcolo letterale, ai polinomi e alle operazioni fra questi, alla loro fattorizzazione o alla loro divisione con resto. L’immagine che ne risulta è quella di una giustapposizione di definizioni e regole sintattiche alle quali – come dimostrano gli innumerevoli lavori di ricerca in didattica dell’algebra – è difficile, per i nostri studenti, attribuire un significato. Certo, si potrebbe obiettare che ciò dipende dall’approccio didattico dell’insegnante. Tuttavia ci chiediamo se non fosse il caso di rendere esplicito il ricorso alle fasi più salienti della storia dell’algebra, una storia che dai problemi presenti nel papiro di Rhind del 1650 a.c. (ovviamente risolti in via aritmetica) alle prime formulazioni simboliche di Viète (1540-1603) testimonia lo sforzo di creazione di un linguaggio potente e efficace per lo studio dei tipi generali di forme e di equazioni.
Sul tema Geometria, due le tradizionali fonti di ispirazione: la tradizione euclidea e quella cartesiana (quest’ultima solitaria al quinto anno). L’Italia si sa, soffre da sempre, come ci ricorda Francesco Speranza, di un “eccesso di tradizione euclidea”. Essa ha il pregio della sistematicità, ma troppo spesso perde di vista l’organizzazione globale per concentrarsi sui singoli teoremi. È una sistemazione che appare definitiva e che proprio per questo induce negli studenti (ma anche in molti insegnanti) un atteggiamento acritico basato su un’idea del sapere matematico statico e immutabile. Spiccano per assenza, allora, i temi fondamentali della tradizione critica come le geometrie non euclidee o la sistemazione di Felix Klein delle diverse geometrie. Temi il cui studio, anche approssimativo, permette di comprendere il senso della stessa sistemazione euclidea, oltre che dell’approccio assiomatico alle teorie matematiche e, più in generale, di sviluppare quell’atteggiamento critico evocato nella prima parte del documento e indispensabile alla costruzione di una forma mentis matematica.
In sintesi, nel documento avremmo voluto leggere, oltre agli elementi canonici degli approcci tradizionali alla matematica, un riferimento esplicito, stringente e coraggioso, alla storia delle idee (che è anche storia sociale, economica e politica) non come elemento di conoscenza accessorio o come espediente didattico, bensì come una trama che permette di dominare “dall’alto” il cammino del sapere matematico. Trama che connette e dà senso e che costituisce il presupposto cognitivo ed emotivo per sentirsi parte, da studenti, di quella stessa storia.

*Docente di Pedagogia all’Università di Urbino
....................................................................................

LE INDICAZIONI NAZIONALI DI FISICA NEI NUOVI LICEI
Vincenzo Fano*



Il 15 marzo 2010 è stato pubblicato il Regolamento dei nuovi Licei (http://archivio.pubblica.istruzione.it/riforma_superiori/nuovesuperiori/doc/Regolamento_licei_definitivo_16.02.2010.pdf), che comprende, come suo allegato i profili educativi (http://archivio.pubblica.istruzione.it/riforma_superiori/nuovesuperiori/doc/Allegato_A_definitivo_02012010.pdf) e i nuovi quadri orari (http://archivio.pubblica.istruzione.it/riforma_superiori/nuovesuperiori/doc/04_Allegati_BCDEFG_Quadri_orari_definitivo_refuso_design.pdf). Contestualmente, nel sito del Ministero, è possibile reperire anche le Indicazioni nazionali sui profili educativi delle singole discipline (http://nuovilicei.indire.it/content/index.php?action=riforma&id_m=9599). Ci occuperemo brevemente del caso della Fisica nei licei.
Colpisce favorevolmente fin da subito, nel profilo educativo del Liceo in generale, il fatto che lo studio delle discipline debba essere nel contempo “in una prospettiva sistematica, storica e critica” (Allegato A, p. 1). Che l’esercizio della lettura non riguardi solo i testi letterari, ma anche quelli scientifici (ivi). Inoltre, fra i Risultati di apprendimento, comuni a tutti i livelli, nell’Area storico-umanistica, spicca per novità e valore il “collocare il pensiero scientifico, la storia delle sue scoperte e lo sviluppo delle invenzioni tecnologiche nell’ambito più vasto della storia delle idee” (ivi, p. 3). Molto positivo è anche il fatto che il percorso del Liceo scientifico venga presentato a partire dal “nesso tra cultura scientifica e tradizione umanistica”, con una particolare attenzione alle “interazioni tra le diverse forme del sapere” (ivi, p. 10). Entrando nello specifico si auspica il “saper cogliere i rapporti tra il pensiero scientifico e la riflessione filosofica” e l’”essere consapevoli delle ragioni che hanno prodotto lo sviluppo scientifico e tecnologico nel tempo” (ivi, p. 11). Si favorisce anche “la riflessione metodologica sulle procedure sperimentali”, nonché l’analisi delle “strutture logiche coinvolte ed i modelli utilizzati nella ricerca scientifica” (ivi, p. 12). Se poi si passa al Profilo generale e alle competenze di Fisica nei licei scientifici, già al primo capoverso si afferma che lo studente, al termine del percorso, dovrà avere “consapevolezza critica del nesso fra lo sviluppo del sapere fisico e il contesto storico e filosofico in cui esso si è sviluppato”.
Per chi come noi ha lavorato attivamente affinché la didattica della fisica nelle nostre Scuole secondarie sia presentata sempre più come una forma del sapere umano, cioè con attenzione alla sua storia e alla sua rilevanza filosofica (V. Fano, I. Tassani, a cura di, Antidoti alla tecnicizzazione. Epistemologia e didattica della fisica, in La fisica nella scuola, Quaderno 18, 2007), questi profili sembrano veramente la realizzazione di un sogno.
Purtroppo però, quando si arriva ai cosiddetti OSA (obbiettivi specifici di apprendimento), il sogno si infrange contro una realtà fatta di inossidabili contenuti presentati senza attenzione agli aspetti storici e filosofici, in un ordine demotivante per lo studente, insistendo fin dall’inizio su aspetti astratti e decontestualizzati per un discente del primo anno, come la comprensione di nozioni quali quella di grandezza fisica, scalare, vettore e unità di misura. Senza contare che non si riserva quasi alcuno spazio a tutta la fisica dal 1900 in poi. Solo nel quinto anno del Liceo scientifico, non degli altri Licei, si accenna che “il percorso didattico comprenderà […] percorsi di fisica moderna (relativi al microcosmo e/o al macrocosmo)”. Qui per fortuna, occorre dirlo, si torna a sottolineare l’importanza del nesso fra la fisica, la teoria della conoscenza e la storia dell’uomo in generale. Aspetti che però erano assenti nella presentazione dei contenuti precedenti, dall’ottica e la termodinamica fino all’elettromagnetismo.
Da tutte quelle dichiarazioni generali, ci saremmo aspettati che gli studenti sarebbero stati accompagnati nella comprensione delle leggi fondamentali della fisica a partire dall’esame delle apparecchiature che pervadono la loro vita quotidiana, piuttosto che dalle leggi astratte dell’ottica geometrica. Inoltre, che fin da subito i discenti fossero familiarizzati con le frontiere del dualismo onda-corpuscolo e della cosmologia contemporanea, che tanta rilevanza hanno per la nostra visione del mondo e possono essere presentate in modo semplice e comprensibile a un ragazzo di 15 anni (vedi, ad esempio, R. Feynman, B. Leighton e M. Sands, La fisica di Feynman, Zanichelli, Bologna, 2001, vol. 1, capp. 37 e 38 e S. Bergia, Dialogo sul sistema dell’universo, McGraw-Hill, Milano, 2002). Oltre a sottolineare la “natura quantitativa e predittiva” delle teorie fisiche, più volte ribadita, sarebbe stato importante enfatizzare anche la loro rilevanza conoscitiva, cosa che compare solo nell’ultimo capoverso della parte dedicata al quinto anno, con accentuazione però anche dei “limiti del sapere fisico”. Non si può certo sostenere che il sapere coincida con il nostro attuale sapere fisico, ma è difficile oggi stabilire, anche solo in via ipotetica, quali siano i “limiti” del sapere fisico.
Inoltre, quando si richiede la conoscenza della termodinamica e della teoria cinetica dei gas, perché non accennare ai problemi di compatibilità fra queste due teorie e alle riflessioni sulla freccia del tempo e la reversibilità? E quando si introduce la nozione di forza di Newton, perché non invitare il discente a riflettere sul problema della realtà delle entità inosservabili utilizzate dalla fisica moderna? E quando si presenta l’elettromagnetismo di Maxwell, perché non impostare anche una riflessione sul problema della rappresentazione spazio-temporale, oltre che formale, di ciò che capita nel mondo fisico?
In definitiva queste indicazioni sono un’altra cocente delusione per chi aveva sperato in un cambiamento significativo nell’insegnamento della fisica nella Scuola, tanto più che, anche dal punto di vista del quadro orario, le cose, seppur migliorate, sono cambiate solo in parte: ad esempio, nel piano degli studi del Liceo scientifico, per tutti e cinque gli anni ci sono tre ore alla settimana di latino, mentre la fisica, al biennio, ha solo due ore alla settimana.

*Docente di Logica e Filosofia all’Università di Urbino

....................................................................................

LICEO ARTISTICO
L’ARTE COME MATERIA DI STUDIO E DI INSEGNAMENTO


Marco Dallari*



L’occasione offerta a un paese da una riforma della sua scuola, o di uno specifico ordine scolastico, dovrebbe comportare, prima di tutto il resto, la ricognizione e la ri-definizione storicamente aggiornata di ciò che si intende con i termini che indicano gli specifici ambiti epistemici, cognitivi, disciplinari, culturali, di cui si intende riformare l’insegnamento. Volendo dunque parlare della riforma-rivoluzione che si è abbattuta sull’universo delle scuole di indirizzo artistico è davvero curioso, e a mio avviso piuttosto malinconico, che non una sola riga del testo ministeriali sia dedicato a dirci cosa, per il legislatore, sia oggi l’arte. Problema di poco conto, probabilmente, per tutti coloro che, sia negli schieramenti governativi che in quelli dell’opposizione, ammantano di pragmatismo, di primato del ‘fare’ e della necessità di non perdere troppo tempo in chiacchiere la loro ormai leggendaria ignoranza, ma se devo pensare all’insegnamento di qualcosa, prima di parlare di orari, di classi di abilitazione, di requisiti, e di altri dettagli importanti ma conclusivi nel quadro del discorso complessivo sull’argomento, forse qualcuno dovrebbe dirmi cosa intende (e cosa propone che tutti dobbiamo intendere) con il nome che diamo a questa cosa.
Martin Heidegger, molti decenni orsono, aveva intuito che il modo di intendere l’arte, e dunque il modo di trattarla come materia di studio e di insegnamento, stava cambiando radicalmente e andava abbandonata l’idea che al centro del discorso sull’arte ci fosse l’opera, poiché essa, quando c’è, è un sintomo e un protesto per poter parlare di quel fenomeno sociale e culturale che include pubblico, committenti, fruitori, critici e artisti, tutti accomunati dalla possibilità di contribuire e negoziare alla costruzione del senso e del significato dell’evento artistico.
«L’arte non è perché esistono opere, bensì un’opera dev’essere se e nella misura in cui l’arte è» . Dino Formaggio, uno di più accreditati e autorevoli studiosi del fenomeno artistico della contemporaneità, afferma che arte è tutto ciò gli uomini chiamano arte, sottolineando la relatività storica e il valore contingente di ciò che può essere indicato con questo termine, tanto che potremmo dire paradossalmente che non è l’opera che fa l’arte, ma è il mondo dell’arte che sceglie ciò che può essere definito in questo modo: è dunque la comunità che occupa lo spazio culturale dell’arte che fa (riconosce, nomina…) l’opera.
Vero è che quando il testo ministeriale riferito alle caratteristiche del nuovo Liceo Artistico dice: “Il percorso del liceo artistico è indirizzato allo studio dei fenomeni estetici e alla pratica artistica. (…) Fornisce allo studente gli strumenti necessari per conoscere il patrimonio artistico nel suo contesto storico e culturale e per coglierne appieno la presenza e il valore nella società odierna” si pensa: accidenti, allora vanno proprio in questa direzione. Quindi troveremo nuove materie teoriche: Critica, Filosofia dell’arte, e indicazioni perché le ore e i materiali dei laboratori si aprano alle nuove strategie e ai nuovi linguaggi dell’arte che si rinnovano e si contaminano fra loro nella performance, nell’installazione, nei nuovi, infiniti modi in cui media, teatro, scenografia, pittura, perdono i loro contorni tradizionali e diventano, semplicemente, ricerca e sperimentazione, si elimineranno i vecchi indirizzi chiusi e si introdurrà un meccanismo tipo sistema dei crediti perché ciascun studente possa personalizzare creativamente il proprio percorso curricolare…
Niente di tutto questo, naturalmente. Dopo le paroline d’esordio tutto diventa malinconica organizzazione di orari e discipline ammucchiate con il solito criterio della somma di parte staccate, senza una visione d’insieme e nessun riferimento a un progetto politico e culturale sotteso.
Eppure è ormai quasi scontata la consapevolezza che con il termine arte non possiamo, oggi, intendere soltanto un’opera, una cosa; arte è processo, è il lavoro di soggetti che si realizzano come artisti attraverso un lavoro che nasce, diviene, si scopre e si svela, ma per svelarsi deve essere riconosciuto come tale da una comunità che, in quanto interlocutrice dell’artista, è in un certo senso co-autrice dell’opera. Allora la comunità degli ‘addetti ai lavori’ dell’arte non sono più solo i facitori dell’opera ma i committenti, i critici, gli addetti al marketing, e tutti coloro che partecipano al progetto e legittimano l’opera con il suo riconoscimento.
Edgar Morin, mentre affronta il problema di cosa si deva intendere per conoscenza e trasmissione della conoscenza, afferma che essa non si deve (perché non si può) trasmettere e insegnare, ma occorre invece mettere il soggetto in formazione nella condizione di essere co-costruttore di conoscenza. Questo principio vale anche per l’arte, che oltretutto, nella sua stessa definizione, ha termini ancora meno ‘oggettivi’ (più intersoggettivi) di quanto non possiedano contenuti di conoscenze umane, come le scienze naturali o la fisica, per i quali una riduzione argomentativi o tassonomica è, se non esaustiva, almeno in parte più legittima.
Un artista è tale anche quando non ha le sue opere in mostra, o quando non opera nel suo atelier. Arte è anche il suo pensiero, le sue emozioni, il suo modo di guardare il mondo. Tutte cose che gli permettono, poi, di produrre le opere, o formulare pensieri, che possiamo condividere con lui. Ma condividere significa appunto risalire a quei pensieri, riuscire a partecipare a quelle emozioni, scoprire che attraverso l’esperienza dell’arte il nostro stesso sguardo sul mondo è cambiato, è diventato più attento più critico, più sensibile, più attrezzato.
E c’è poi un altro aspetto che avrebbe meritato una riflessione e un dibattito che risultano invece assenti: esso riguarda il tema delle arti applicate e il secolare problema della distinzione (francamente ormai obsoleta ma in Italia ancora praticata) fra arte alta e arte bassa.
L’artigianato artistico costituisce un enorme patrimonio culturale ed economico, rappresenta l’emblema del gusto, della creatività, dell’unicità del prodotto Made in Italy nel mondo. È presente in tutti i settori produttivi, opera in stretto rapporto con l’ambiente, la storia, i costumi ed i movimenti culturali, tanto da caratterizzare stili di vita, epoche e aree diversi che rappresentano straordinari habitat o distretti artigiani. E l’Italia è il Paese che, più di ogni altro al mondo, presenta un numero elevatissimo di tradizioni locali e di centri territoriali specializzati, oltre 200, in cui operano più di 140.000 imprese con 240.000 addetti. Ma l’artigianato d’arte è anche tra i settori a maggiore rischio d’estinzione, non solo a causa degli alti costi d’avvio dell’impresa, delle difficoltà burocratiche e degli oneri nella trasmissione dell’attività e nella formazione dei giovani, dei problemi nella commercializzazione, ma anche e soprattutto per la dicotomia che la formazione italiana continua a praticare e a teorizzare tra sapere teorico e sapere pratico, tra chi pensa e chi fa.
La riforma del liceo artistico, unica scuola superiore in cui il teorico e il pratico, l’alto e il basso, convivono, almeno in teoria, senza pestarsi i piedi, avrebbe potuto essere l’occasione e per avviare un nuovo rapporto tra artigianato artistico, design e arte, al fine di rivalutare l’identità dell’artigiano che deve riappropriarsi di un ruolo unificante degli aspetti della progettazione creativa, della tecnica e del materiale. Deve, cioè, tornare ad essere protagonista di tutte le fasi della realizzazione del prodotto (intuizione artistica, progettazione, realizzazione dell’oggetto) essendo aiutato, nel processo di formazione, a superare le frammentazioni e i complessi di inferiorità in cui spesso finora è rimasto confinato. In questo senso, distingue il suo prodotto sia dall’arte che dal design, conferendo forma loquens al rapporto tra tecnica e materia, impiegando indifferentemente tipologie e tecniche tradizionali o innovative.
Allora, forse, pensare a un Liceo Artistico che dipende non solo dal Ministero dell’Istruzione ma anche dal Ministero dei Beni Culturali sarebbe stato davvero un segnale di innovazione. Che non c’è stato. Perché è evidente come sarebbe utile colmare molte delle carenze normative sui mestieri d’arte e recuperarli a un’attenzione politica, istituzionale e culturale che finora è stata episodica e frammentaria. Ad iniziare dal rapporto tra scuola e lavoro, tra teoria e pratica, tra istruzione e formazione professionale. Basti pensare che ancora oggi l’apprendistato è di fatto impedito ad un laureato. Ma occorre anche intensificare l’investimento formativo nella cosiddetta componente immateriale del prodotto: design, estetica e filosofia dell’oggetto, suoi significati culturali, innovazioni di processo e di prodotto, software e logistica, relazioni commerciali. Pochi mesi fa, a Torino, nell’ambito dell’inaugurazione delle Mostre celebrative del Centenario dell’Esposizione Internazionale d’Arte decorativa moderna del 1902, l’artefatto artigiano, che sembrava irrimediabilmente emarginato dalle produzioni di grande scala, trova possibilità espressiva proprio nella società globalizzata e nella sua controfaccia localistica, in cui nuovi modi di intendere l’arte aprono spazi impensati al rapporto tra espressione artistica, comunicazione, lavoro, mondo della quotidianità. L’artigianato è ancora realtà d’oggi, non attività del passato. Non a caso Richard Sennett , sociologo ormai promosso al ruolo di maitre à penser, sostiene che nella società globale gli unici giovani a basso rischio di inserimento sociale e di disoccupazione saranno quelli capaci di ‘fare cose con le mani’, dotati di capacità tecnico-creative e di un conoscenze e saperi adeguati. Dovranno cioè essere dotati (anche) di quei due tipi di intelligenza che, con Howard Gardner possiamo chiamare intelligenza spaziale, abilità nel percepire e rappresentare gli oggetti visivi, manipolandoli idealmente, anche in loro assenza, e intelligenza cinestetica, abilità che si rivela nel controllo e nel coordinamento dei movimenti del corpo e nella manipolazione degli oggetti per fini funzionali o espressivi.
Sarebbe stato bello che il testo di riforma del liceo avesse accennato a queste esigenze e avesse almeno provato a tracciare un profilo idoneo dell’istituzione, ma di considerazioni di questo genere non si trova traccia significativa.
Ma torniamo all’idea di arte in generale, che è tale sia quando si manifesta nelle sue forme considerate più nobili che in quelle capaci di rendere più bella, significativa e intensa la vita quotidiana.
Umberto Galimberti ci ricorda come «abitando il mondo l’uomo lo segna e lo di-segna per dargli un senso in cui sia possibile leggere l’alto e il basso, il fuori e il dentro, la destra e la sinistra. Senza segnaletica queste distinzioni non si danno, senza distinzioni non si dà ordine, senza ordine non si dà mondo-in-comune» A questa esigenza rispondevano gli antichi linguaggi simbolici, le narrazioni religiose, ma rispondono anche, soprattutto oggi, il mondo delle arti, e non solo quella visiva. E allora dobbiamo ammettere che non ha senso, a scuola, presentare l’arte come una materia autosufficiente e autoreferenziale: l’arte ci offre simboli e modelli concettuali che ci mettono in un particolare rapporto col mondo, con noi stessi e con il rimanente campo della conoscenza, e che a sua volta possiede perché esiste fuori dal suo ambito un universo simbolico e concettuale da cui ‘pesca’ e a cui si collega.
D’altra parte non solo dobbiamo riconoscere all’arte, tutta l’arte, l’importanza della dimensione concettuale, ma occorre prendere atto del fatto che, non certo a caso, esiste addirittura una tendenza (corrente) artistica che si definisce esplicitamente arte concettuale. E’ questa una corrente artistica internazionale che appare e si afferma nella seconda metà del ‘900, in particolare negli “anni ‘60”: un decennio, questo, caratterizzato in ogni ambito culturale e artistico da grande tensione sperimentale. Appare per la prima volta riferito alla ricerca del gruppo anglo-americano Art&Language, in particolare nell’opera del pittore Joseph Kosuth (Toledo, Ohio, 1945), il quale, anche nella sua veste di insegnante, riflette e ci invita a riflettere sulla natura eminentemente linguistica e concettuale dell’arte, proponendone una concezione radicalmente anti-idealista secondo la quale l’arte è una tautologia, ed è arte la stessa definizione dell’arte. Non è dunque l’opera, secondo Kosuth, ad essere artistica, ma è il discorso che si costruisce attorno ad essa a renderla tale. E’ questo il tema (e il senso) della sua prima serie di opere famose realizzate con tubi al neon, e la celeberrima installazione Una e tre sedie, costituita da una sedia, dalla foto in bianco e nero della stessa sedia a grandezza naturale e da un pannello sul quale è riprodotto il testo del lemma “sedia” tratto da un dizionario. Gli esponenti rigorosamente riconducibili a questa corrente, secondo gli storici, sono, oltre a Kosuth, Robert Barry, Lawrence Weiner, Douglas Huebler, Bruce Nauman, Joseph Beuys, gli italiani Emilio Prini, Vittorio Agnetti, Giulio Paolini, Alighiero Boetti, Piero Manzoni. Con l’arte concettuale si assiste ad una radicale diminuzione d’importanza (a volte alla sparizione) dell’oggetto, mentre si accentua il valore della dimensione “mentale” rispetto al manufatto. Non a caso molti artisti concettuali concepiscono il progetto dell’opera che (dagli arazzi di Boetti a molti lavori di Cattelan) vengono eseguiti da artigiani sotto la supervisione dell’artista. Il che non deve scandalizzare nessuno poiché questo succede normalmente ad architetti e musicisti senza che nessuno metta in discussione il loro valore artistico. L’arte, nella sua dimensione concettuale, è vista come idea, linguaggio, definizione degli strumenti, conoscenza attraverso il pensiero. E’ evidente come la scintilla di questa tendenza sia rintracciabile nelle operazioni dada di Man Ray e Duchamp (famosissima la provocazione rivoluzionaria della sua ruota di bicicletta del 1919), e come, ad ogni modo, la dimensione concettuale, anche se in maniera non esclusiva, sia presente in molta arte contemporanea, in particolare l’Arte Povera e la Land Art, la cui produzione simbolica è comunque riconducibile all’orizzonte di senso dell’universo artistico a partire dalla consapevolezza e dall’intenzione della comunità composta da artisti e osservatori di riconoscere a quegli oggetti-opera funzione simbolica e dignità artistica.
D’altra parte, essere convinti che l’arte si esaurisca in ciò che possiamo vedere in un museo o in una galleria equivale a sostenere che la matematica è fatta di numeri. In realtà è fatta di pensieri che, attraverso i numeri (ma non solo), possono esistere e trovare forma.
Questo modo di pensare l’arte e la sua didattica, che diviene poi, a sua volta, modo di pensare il mondo, è dunque in sintonia con il pensiero del filosofo e pedagogista americano John Dewey, che non identifica l’arte negli oggetti, nei testi, nelle opere, ma nel suo essere esperienza. Nel suo testo Art as experience (L’arte come esperienza) Dewey sottolinea come l’approccio all’arte non possa ridursi al solo tentativo di dare un ordine definitivo (filologico, storico, classificatorio) ad una materia che per sua natura è varia, mobile, complessa, né riferirsi ad un’arte “estatica”, capace di ricondurci, attraverso la contemplazione delle opere, in prossimità della dimensione ideale del Bello e del Sublime. L’arte di Dewey è all’opposto, poiché: «Attraverso l’arte, significati di oggetti che altrimenti sono muti, indeterminati, ristretti e contrastanti, si chiariscono e si concentrano; e non mediante un laborioso affaccendarsi del pensiero intorno ad essi, non mediante il rifugio in un mondo di mera sensazione, ma attraverso la creazione di una nuova esperienza» E non ha molto senso affermare che questa è caratteristica di un’arte contemporanea, spesso ostica ai più, ben differente da quella del passato, più canonica, storicizzata e rassicurante: ogni epoca ha il suo modo di leggere e intendere l’arte, e alla dimensione ‘concettuale’ di oggi va necessariamente ricondotta anche la visione e l’interpretazione dell’arte del passato. Erwin Panofsky ci ricorda, non a caso, che anche la prospettiva rinascimentale è una forma simbolica, in un certo senso un’ideologia, o comunque una precisa visione del mondo e dell’uomo, e lo storico e critico Arnold Hauser, parlando delle opere d’arte, diche che “…noi non le spieghiamo, ma ci misuriamo con esse. Le interpretiamo in conformità dei nostri fini e delle nostre aspirazioni, diamo loro un senso, la cui origine si trova nelle nostre forme di vita e nelle nostre abitudini di pensiero e, per dirla in breve, di ogni arte con la quale abbiamo un reale rapporto facciamo un’arte moderna» .
Un laboratorio, qualunque sia la sua specificità tecnica, è, o dovrebbe intenzionalmente essere, luogo di ricezione e produzione di saperi e di testi culturali. È, tuttavia, anche luogo di elaborazione-costruzione delle identità personali dei protagonisti. Nel momento stesso in cui diviene attivo il laboratorio parte sempre dalle storie soggettive e dai vissuti che precedono quell’inizio, cosicché la produzione-ricerca che vi si compie è sempre una ricerca autobiografica e ciascuno dei lavori prodotti, soggettivamente o in gruppo, diviene anche una testimonianza di identità, di scelte e di stili, mette conoscenze e competenze a disposizione delle biografie, e il lavoro svolto diviene funzione di queste. Per questo ogni ordine e grado di scuola, ma in particolare una scuola d’arte, dovrebbe scoprire e rinforzare il ‘valore delle differenze’, consentendo il più possibile la ‘personalizzazione’ del percorso formativo, superando la logica della ‘classe’ e rendendo le risorse formative occasioni di sperimentare autonomia e responsabilità, scoperta delle propensioni e dei talenti, in una logica di grande laboratorio di co-costruzione di bellezza e conoscenza. Un’esperienza, questa, che proprio la storia dell’arte potrebbe rivendicare ‘pedagogicamente propria’ pescando dalla propria memoria, e dal proprio DNA, qualche suggestione dello straordinario esperimento del Bauhaus di Walter Gropius.
Ma per perseguire un disegno di questo genere non bisognava fare tagli ma investimenti di tipo logistico-architettonico, di risorse necessarie a realizzare in autonomia progetti anche differenti in differenti situazioni, di qualificazione e riqualificazione professionale dei docenti. Soprattutto dei docenti curiosi e motivati. Che ci sono, capaci anche di uscire dello specifico della loro disciplina e vederla come funzionale ad una formazione che non sia solo fatta di frammenti di conoscenze e di quel cumulo di ‘infarinature’, che sembrano invece essere proprio il cuore, debole, della riforma dei licei artistici, visto che le materie artistiche nel primo biennio diventano quattro, con l’aggiunta di di un’ambigua multimedia, e che le materie insegnate fino ad ora per un minimo cinque ore settimanali e per un massimo di venti ore settimanali sono ridotte a tre ore settimanali. Il che potrebbe acquistare un senso nuovo in quella logica, elastica e connotata dall’atonomia del progetto scolastico e dell’autodeterminazione degli studenti, della scuola grande laboratorio, ma si rivelano invece semplicemente l’occasione per compiere drastici e drammatici tagli di spesa per un’istituzione che non era certo troppo costosa, visto che l’istruzione artistica assorbiva soltanto il 6% dell’impegno finanziario per l’istruzione secondaria.

*Docente di Pedagogia all’Università di Trento
....................................................................................

LICEO MUSICALE COREUTICO
"ENTRA LA MUSICA, CON UNA SONORA STECCA"

Lorenzo Bianconi e Giuseppina La Face*

Con la riforma Gelmini la musica entra, infine, nel nostro sistema liceale. Entra con trombe e timpani. E con una sonora stecca.
La grande e positiva novità, annunciata da anni, è l’istituzione del Liceo musicale. Nel 2010/11 ne verranno aperte poco meno di quaranta sezioni sul territorio della Repubblica: sono pochine, ma c’è già una lista d’attesa per gli anni a venire. Tempo qualche anno, dovremmo avere più musicisti colti: un’istruzione musicale che, almeno sulla carta, punta alla qualità si intreccerà con una robusta formazione culturale di base, e ciò nell’età critica, dai 14 ai 19. Per la verità alcune sperimentazioni erano state attivate fin dagli anni ’70; ne rimanevano sei, tre licei interni ai Conservatori (Milano, Parma, e Trento) e tre sezioni musicali di altrettanti Licei classici o artistici (Arezzo, Cuneo, Lucca): ora sono incluse tra le sezioni che vanno a ordinamento.
Almeno nelle intenzioni, il Liceo musicale sana una lacuna curricolare che da dieci anni strideva. Nel 1999 il decreto ministeriale 201 ha ricondotto a ordinamento le Scuole medie a indirizzo musicale (SMIM); nello stesso anno, la legge 508 ha riformato l’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (AFAM), erigendola al grado universitario. Tra il segmento inferiore e quello universitario è però rimasto il vuoto. Di fatto, per tamponare la clamorosa falla, in questi dieci anni ai Conservatori è stato consentito di tenere in vita i corsi del vecchio ordinamento, à côté dei trienni e bienni di livello universitario: ma si è trattato di un ripiego temporaneo. Ora i Licei gettano il ponte tra SMIM e AFAM.
Proprio su questo punto la fisionomia dei nuovi Licei presenta tuttavia un forte elemento di ambiguità, potenzialmente perturbante. C’è infatti chi identifica l’attivazione dei Licei con quell’«entrata in vigore di specifiche norme di riordino del settore» che la legge indicava come limite estremo per mantenere, in via transitoria, «corsi di formazione musicale di base, disciplinati in modo da consentirne la frequenza agli alunni iscritti alla scuola media e alla scuola secondaria superiore». Secondo questa visione, fatto il Liceo musicale, il Conservatorio si dovrà in futuro limitare ai corsi di livello universitario: ai quali ci si iscriverebbe appunto con la “maturità” musicale. C’è chi invece argomenta che mai e poi mai il Liceo musicale potrà surrogare il Conservatorio come scuola di elevata professionalizzazione, a cominciare proprio dai corsi di base: i Licei favorirebbero piuttosto un dilettantismo musicale scelto, e lo sbocco nel Conservatorio, senz’altro possibile, non sarebbe però la regola; mentre solo il Conservatorio assicurerebbe (pregio ormai raro nel mondo) la continuità didattica di un rapporto docente/alunno che si estende dalla più tenera età fino al compimento degli studi.
Certo, per il momento la legge dei numeri esclude che le quaranta sezioni, con un totale di circa 1000 iscritti in tutt’Italia, sopperiscano a un fabbisogno stimato nell’ordine di svariate migliaia. Ma in futuro, quando i Licei musicali saranno 80 o 120? La partita, tutta da giocare tra governo, ministero, conservatori e sindacati, è aperta, e nessuno ne può prevedere gli esiti.
Intanto, la riforma obbliga gli istituti scolastici e i Conservatori a convenzionarsi per attivare i Licei musicali. Ma non definisce l’àmbito di tali convenzioni: riguarderanno la mera disponibilità di spazi, strumenti e biblioteche? assegneranno ai Conservatori un ruolo nella selezione dei docenti e nell’accertamento delle conoscenze, competenze e abilità musicali in uscita, per assicurare la buona continuità col livello conservatoriale? o prevederanno che anche i docenti dei Conservatori insegnino nei Licei? Ovvio che il fantasma della secondarizzazione venga visto come il fumo negli occhi, in un comparto che si è da poco universitarizzato. L’incertezza è aggravata dalla circostanza che finora nessun documento ministeriale ha chiarito se nei Conservatori il diploma triennale di primo livello debba corrispondere al sesto, settimo e ottavo anno dei vecchi corsi decennali, oppure agli ultimi tre anni: in quest’ultimo caso i futuri pianisti, violinisti, organisti e compositori dovrebbero avviare la loro formazione fin dalle SMIM, nelle quali però mancano molti strumenti e comunque non ci sono docenti di organo né di composizione; e il biennio dell’AFAM equivarrebbe a una specializzazione post lauream, diversamente dalle lauree magistrali dell’Università. Certe difficoltà sono oggettive ed intrinseche: è bene che l’approccio al violino, per dire, sia precocissimo, mentre l’approccio al canto presuppone già una certa qual maturità. Fatto sta che fin qui ciascun Conservatorio si è regolato ad libitum: regna dunque l’incertezza.
Non v’è maggior certezza sul reclutamento del personale docente. Le classi di concorso per i nuovi Licei non sono state emanate, e del tirocinio formativo attivo che dovrà sfornare i futuri docenti s’incomincia appena a parlare, senza prevederne i tempi. Nell’interim, il Ministero vuole attingere dalle sovrabbondanti graduatorie degli abilitati di 31A (Musica nella Secondaria di II grado), 32A (Musica nella Secondaria di I grado) e 77A (Strumento musicale): ma intende farlo con criteri di selezione che da soli non garantiscono il livello qualitativo. Dal canto loro le Indicazioni nazionali per il Liceo musicale stabiliscono risultati d’apprendimento piuttosto elevati: così elevati da smentire, sulla carta, il pregiudizio di chi nel Liceo vorrebbe vedere un mero surrogato del Conservatorio; ma perché possano venir davvero conseguiti ci vorrebbe appunto una forza docente agguerrita, non raccogliticcia. Non deve capitare che a insegnare Esecuzione e Interpretazione nel Liceo musicale finisca la seconda scelta dei docenti di 77A, i migliori essendo già arruolati nelle SMIM; né che a insegnare Storia della musica vadano docenti di Educazione musicale dalle fragili basi culturali o, viceversa, poco versati nell’analisi musicale. Anche su questo versante la partita è aperta.
La vera stonatura, per la musica nei nuovi Licei, sta però fuori dal recinto del Liceo musicale. Per come la si legge, la riforma ha coventrizzato la cultura musicale diffusa. La quale semplicemente scompare da tutti i Licei salvo il musicale: perfino dal primo biennio del Liceo delle Scienze umane, dove in un primo momento era stata relegata. È bensì vero che il «piano dell’offerta formativa» prevede tra gli insegnamenti attivabili anche Musica, Storia della musica, Strumento musicale e Tecnologie musicali. Ma come attivarli, all’atto pratico? Con qualche ora residua di questo o quel docente, là dove vi sia nelle prossimità un Liceo musicale. O con le scarsissime risorse economizzate altrove. Punto e basta.
Era facile prevedere che, contraendosi l’orario complessivo del Liceo, le discipline ‘marginali’ ne avrebbero fatte le spese. Ciò che appare sconfortante è appunto la condizione di scontata, pacifica, irredimibile ‘marginalità’ in cui la scuola italiana, da sempre, tiene la cultura musicale. Nella concezione dei pedagogisti consulenti del Ministero, la musica è un ameno, piacevole, benefico ma alla fin fine futile passatempo; per assicurare il quale è giusto che la società formi un certo numero di professionisti – musicisti, appunto – e dunque intrattenga un limitato numero di scuole ad hoc (Licei e Conservatori); mentre agli altri cittadini basterà ascoltare: e l’ascolto essendo considerato un’attività eminentemente passiva (ci si passi l’ossimoro), non mette conto coltivarlo a scuola. Accanto alla storia civile, alla storia della filosofia o della letteratura italiana o dell’arte, il nostro Liceo non ha posto per la Storia della musica.
Il guaio è che, di fronte a una domanda di alfabetizzazione musicale che nonostante tutto anche da noi si è fatta impellente, la cultura scolastica si limita a ricalcare un vetusto stereotipo. La musica, si sente dire, “la capisce solo chi la fa”; ma siccome solo in pochi la fanno, in pochi la capiscono; né importa granché che quei pochi crescano di numero: mica tutti possono diventar musicisti. Lo stereotipo conosce anche una variante fervorosa e zelante: se la musica è fatta per chi la fa, allora tutto ciò che giova propagare nelle nostre scuole è la cosiddetta ‘pratica musicale’. Quest’ultima linea è lastricata di buone intenzioni, ma rischia d’imboccare un vicolo cieco: si introduce un po’ di prassi musicale nei vari ordini e gradi scolastici – qualche laboratorio, qualche complessino, magari un coro (ed è di gran lunga la soluzione più propizia, sotto il profilo educativo, oltre che la più economica) – ma nel contempo si consolida nel corpo docente e tra gli studenti il preconcetto che la musica è un’abilità fatta di sole competenze operative, un sapere meramente prammatico, che non si lascia ricondurre al dialogo intellettuale con gli altri saperi, un insieme sui generis di tecniche che fanno corpo a sé rispetto alle altre discipline.
L’occasione perduta della musica nel Liceo riformato, la scommessa su cui non si è voluto puntare, sta tutta qui: la musica è entrata dalla porta principale in un ramo dedicato, nuovo nuovo (il Liceo musicale), e lì ipso facto è stata segregata. La tipica separatezza italica della musica dal contesto dei saperi risulta paradossalmente confermata. Una volta ancora, la sorte della cultura musicale diffusa nella nostra secondaria di II grado resta in mano alle donne e agli uomini di buona volontà che nei Licei senza musica, insegnando discipline extra-musicali, coltiveranno a margine – quasi di straforo – nei loro studenti il germe della passione per la buona musica.

* Docenti di musicologia e storia della musica all’Università di Bologna

....................................................................................

ISTITUTI TECNICI E PROFESSIONALI
UNA CULTURA NON VALORIZZATA


Giovanni Sedioli

I settori Tecnico e Professionale, nel processo di riordino della istruzione superiore, hanno registrato un percorso specifico. Ricordiamo innanzitutto che le premesse erano quelle indicate dalla legge Moratti che prevedeva “tutti licei”; questo presupponeva, più o meno esplicitamente, che ciò che faceva riferimento ai Professionali sarebbe transitato su competenza regionale. Vi è stata poi la fase di riproposizione del tecnico-professionale e la non breve querelle (la questione del trattino) che ha portato (a mio modo di vedere positivamente) alla separazione dei due aspetti: nell’esame sia dei processi formativi che di quelli legati alle professionalità nel mondo del lavoro vi è la motivazione per la separazione. La costituzione della “Commissione De Toni” (Governo Prodi) e la conferma della sua operatività da parte del Ministro Gelmini sono stati un segno di attenzione al settore e lasciava intendere la possibilità di praticare logiche bipartisan.
Nel mandato alla Commissione non era compreso semplicemente lo studio del riordino del settore, ma quello più vasto della valorizzazione della cultura tecnica. Insomma si cercava di dare risposta ad interessi convergenti di riconsiderazione della cultura legata al lavoro, provenienti dal mondo della scuola e da quello imprenditoriale (che su questo punto intendeva esprimere un protagonismo che non aveva precedenti), per recuperare l’evidente carenza di analisi in questo ambito della scuola attestato anche dal decrescente interesse di studenti e famiglie misurabile non solo col progressivo e notevole calo delle iscrizioni, ma nel contemporaneo processo di “stratificazione sociale” delle iscrizioni. Sempre più i percorsi tecnici e professionali sono visti e praticati come desinati alla scolarità debole, normalmente corrispondente a debolezza sociale.
Le positive premesse di questo lavoro erano confermate nel documento “Persona, tecnologie professionalità” prodotto dalla commissione e presentato nel marzo del 2007. Certo erano presenti alcuni elementi che mostravano la difficoltà di giungere a conclusioni “sicure” a fronte della oggettiva complessità della problematica, di mediare fra posizioni diverse e di tenere conto di un esistente che comunque vincolava le possibilità del cambiamento, ma complessivamente il messaggio della forza “generalista” della cultura tecnica era affermato ed argomentato e poteva costituire uno strumento efficace per intervenire nel riordino del settore. E’ bene rimarcare che una delle difficoltà principali era legata al mandato assegnato: che si dovessero costituire due ordinamenti, tecnico e professionale, entrambi quinquennali e sostanzialmente analoghi nelle caratteristiche ordinamentali. La linea di demarcazione indicata nei documenti di accompagnamento (high tech-high touch) aveva una sua fondatezza e praticabilità.
Quanto risulta dal complesso normativo emanato dal Ministero (regolamenti, quadri orario …) corrisponde a quel lavoro o comunque propone una versione positiva della iniziativa per la scuola nel settore?
Credo che la risposta debba essere negativa e il fatto che nelle iscrizioni di questo anno (pur segnate dalla incertezza del quadro normativo e dalla difficoltà di comparazione dei dati) non si colga la ripresa delle richieste ne è prova indiretta: l’obiettivo di valorizzazione del settore nella consapevolezza sociale non è stato conseguito.
Gli aspetti positivi, quali ad esempio la riduzione degli indirizzi con l’individuazione dei comparti “trainanti”, l’allargamento della autonomia, la previsione di forme organizzative più dinamiche, l’organizzazione degli obiettivi secondo modelli europei (competenze, abilità, conoscenze) con il presupposto dello spostamento della attenzione dall’insegnamento all’apprendimento, non sono stati sufficienti ad affermare la forza identitaria della cultura tecnica perché altri importanti elementi sono stati trascurati e perché nel complesso normativo sono comprese contraddizioni che mettono in crisi la credibilità dell’obiettivo.
Innanzitutto complessivamente il riordino ripropone una caratterizzazione dei licei come primaria scuola della cultura; con questo si mette in crisi il principio che a risultati equivalenti si possa giungere per diversi percorsi: se continuiamo a far passare l’idea che, nella formazione della persona, la “pratica” dei libri vale di più della “pratica” del lavoro, confermiamo pregiudizi culturali che l’evoluzione scientifica e tecnologica ha chiaramente destituito di fondamento. Insomma una buona riforma del settore tecnico e professionale doveva vedere affermati in tutto il sistema scolastico alcuni principi che caratterizzano la cultura tecnica quali ad esempio il valore del laboratorio e della cultura del risultato.
Ma anche stando “all’interno” del settore sono riscontrabili gravi deficit di proposta.
E’ la verifica dei quadri orario che mostra con evidenza quanto abbiano pesato il limite di progettualità e la determinazione di tagliare gli organici. Non credo che il problema principale vada riscontrato nelle 32 ore settimanali, ma nella rigidità della impostazione. Nella iniziativa complessiva del Ministero è presente l’idea che la scuola si esaurisca nel tempo riservato alle lezioni. Per queste 32 ore possono bastare, ma alle scuole vanno date risorse per praticare con ampiezza iniziative al di fuori dell’orario curricolare: per gestire interventi a favore dei ragazzi più deboli, per avviare esperienze che premino le eccellenze, per permetter un vero e continuativo rapporto con le realtà territoriali. Senza questo l’autonomia è lettera morta e diventa vaga predicazione l’indicazione della necessità del rapporto col mondo del lavoro. La mancanza di risorse da gestire in autonomia da parte delle scuole non riduce semplicemente le attività, compromette l’anima della scuola restringendola al suo interno. Meno ore e meno finanziamenti sono una accoppiata davvero insopportabile, negano la necessità di una scuola dinamica e capace di interpretare il proprio mandato in modo dinamico. La possibilità di praticare iniziative “fuori orario” è fatto caratterizzante, non complementare di una riforma.
Ancora: nel biennio dell’indirizzo tecnologico ventiquattro ore su trentadue sono assegnate a discipline con carico orario settimanale inferiore alle quattro ore, nessuna disciplina ha più di quattro ore; uno spezzatino illogico (comune del resto a tutti i settori della superiore) che mette inevitabilmente in discussione la produttività della loro presenza e non consente di rendere “visibile” la vocazione specifica del tipo di scuola. Non serve richiamare la collegialità della programmazione per superare i particolarismi, così si deprime la professionalità dei docenti, non si incoraggiano il loro protagonismo e il loro desiderio di migliorare.
Emblematica la storia delle “Scienze integrate” nominalmente viste in termini unitari in realtà assegnate a tre competenze diverse: davvero ci si attende che con orari così bassi per ogni disciplina (Scienze della Terra e Biologia, Fisica, Chimica) si riesca a costruire quella competenza scientifica di cui si sente tanto la esigenza? Non si è saputo dare una lettura unitaria al tema delle scienze, ripiegando su una impostazione assolutamente incompatibile con la possibilità di una pratica efficace dell’apprendimento scientifico.
Ma l’elemento di maggior crisi logica e funzionale riguarda i laboratori. Si premette che la caratteristica identitaria del settore tecnico è nell’apprendimento laboratoriale, poi si tagliano pesantemente le ore di laboratori e compresenza di docenti. Il laboratorio non è solo un luogo attrezzato, in esso la didattica si sviluppa o individualmente o per piccoli gruppi che affrontano i problemi in modo autonomo, con procedure e tempi diversi e che per questo richiedono una assistenza da parte dei docenti non compatibile con una sola presenza. Con un solo docente il laboratorio rischia di essere solo “dimostrativo”: l’insegnante opera e lo studente osserva, di fatto come in una lezione alla lavagna. Non è questo il modo in cui si può creare quella saldatura fra il sapere e il saper fare caratteristico dei percorsi tecnici.
Un punto davvero critico è poi dovuto al fatto che l’orario del primo biennio del settore tecnologico marca una differenza fra il primo e il secondo anno (Tecnologie informatiche in prima, Scienze e tecnologie applicate in seconda); l’effetto è quello di aumentare la “dispersione disciplinare”, ma fatto ancor più grave, poiché la materia del secondo anno deve fare riferimento, da regolamento, alla specializzazione che lo studente frequenterà in seguito, di fatto la scelta di percorso deve essere anticipata, infatti, la norma sulle iscrizioni di quest’anno prevede che gli studenti indichino la specializzazione scelta già al primo anno. Una dannosa ed inutile forzatura in un periodo (quello dell’obbligo scolastico) in cui le scelte dovrebbero essere ritardate nella maggior misura possibile.
I quadri orario del triennio (da rimarcare il bizantinismo di un modello indicato in 2+2+1 nel quale “il secondo biennio e il quinto anno costituiscono articolazioni, all’interno di un complessivo triennio…”) presentano una area di specializzazione troppo sacrificata rispetto a quella “generale”, segno di un mancato riconoscimento del valore delle materie tecnico scientifiche nella formazione delle capacità linguistiche e di comunicazione.
Insomma un risultato assolutamente deludente rispetto alle premesse poste da un lavoro che aveva coinvolto ampie rappresentanze culturali.
Per il settore professionale si possono ripetere molte delle valutazioni precedenti (iter, intenzioni, debolezza dei quadri orario, carenze dei laboratori …) con ulteriori mancanze strutturali.
Evidenti ad esempio la sproporzione quantitativa di offerta fra il settore dei servizi e quello della produzione, alla cui base vi sono gli elementi di carenza e contraddizione legati alla finalizzazione e di cui parlo in seguito. Altro punto chiaramente di difficoltà è quello di un modello 2+2+1 con la previsione di una qualifica (in sussidiarietà con le competenze regionali) dopo tre anni.
La frequenza a questi istituti, che dovrebbero essere fondati e dedicati alla cultura del lavoro, ha rigidità inaccettabili rispetto al mandato stabilito, ad esempio già all’atto dell’iscrizione lo studente deve dichiarare se intenda o no conseguire la qualifica al terzo anno (e che ne sarà del rapporto col diploma del quarto anno?) e questo lascia intendere una conseguente organizzazione delle classi e dei curricoli. Insomma si introducono elementi di rigidità nel settore che per caratteristica fondante (la cultura del lavoro), per esigenze istituzionali/relazionali (le competenze regionali in tema di qualifiche e diplomi professionali e il rapporto col mondo del lavoro a livello territoriale), per tipologia e aspettative della utenza dovrebbe avere il massimo di flessibilità.
Non vi è dubbio che molto dipenda dal mancato scioglimento di nodi derivanti dal Titolo V e dalla volontà di scaricare sulle Regioni gli oneri delle qualifiche senza trasferire risorse corrispondenti; uno sforzo maggiore di correttezza di impianto doveva essere compiuto. Se lo Stato non consolida una propria presenza sul settore professionale, dando una forte personalità alle proprie scuole, con una vera “forza formativa e disponibilità contrattuale” verso le Regioni, si rischia che le politiche regionali, profondamente diverse a livello nazionale, finiscano per consolidare l’attuale percezione di “marginalità” dei percorsi; con buona pace della auspicata valorizzazione della cultura del lavoro. Particolarmente in questo ambito gli ordinamenti e i dati organizzativi devono tener conto della possibile relazione con tutte le articolazioni della Formazione Professionale.
Bisogna ora lavorare perché si attivino positive relazioni fra Stato e Regioni perché i relativi sistemi vadano in sinergia e non in contrapposizione.
Per Tecnici e Professionali almeno due sono gli elementi che vanno valutati, in fase di applicazione, affinché gli evidenti limiti della norma siano ridotti al minimo: il primo è che nei bienni iniziali di questi istituti si gioca la maggior parte della tematica del successo in ambito di obbligo scolastico e la sostanza del rapporto Scuola e Formazione Professionale, il secondo è che da queste scuole escono le professionalità che tradizionalmente hanno sorretto l’economia del nostro paese e che questa funzione, a detta anche delle forze imprenditoriali, è ben lungi dall’essere esaurita.
La qualità di questi segmenti di scuola è insomma buona parte dei diritti di cittadinanza dei giovani e della ricchezza del nostro paese.


..................................................................................


SCUOLA SECONDARIA E DIDATTICA DELLA RICERCA: L’ALTA FORMAZIONE E LA SSIS

Alessandro Mariani*



1. Il nesso tra università e scuola, a partire dal Dottorato di Ricerca
Il presente contributo intende mostrare come la ricerca universitaria, tradizionalmente legata all’alta formazione, possa diventare – attraverso preziose figure intermedie, ma non marginali – un momento di riflessione, di analisi, di stimolo e di presentazione di modelli operativi per la scuola. Ecco perché potremmo/dovremmo pensare a un luogo di elaborazione teorica come il Dottorato di Ricerca, in grado di introdurre e attivare all’interno della futura formazione degli insegnanti un percorso coordinato dal Dottorato stesso, allo scopo di progettare e fissare nell’ambito della professione insegnante temi e metodi, problemi e materiali, questioni e strumenti, guardando prioritariamente ai dottori di ricerca come a figure di mediazione tra l’alta formazione e la didattica, tra la concettualizzazione teorica e l’operatività scolastica. Un po’ com’è avvenuto con le figure dei ricercatori degli ex IRRE, che avevano il compito nevralgico di mediare – in maniera sistematica – tra le frontiere più avanzate della ricerca attuale (elaborate prevalentemente all’interno del sistema universitario), l’organizzazione curricolare e la prospettiva interdisciplinare (entrambe centrali, quest’ultime, nel mondo della scuola contemporanea). Così, la funzione dell’alta formazione rappresentata dal Dottorato di Ricerca può sviluppare l’indagine scientifica, veicolarla nel mondo di una professione educativa/istruttiva/formativa e confrontarla “in presa diretta” con esperienze concrete come quelle scolastiche.
Da qui la proposta di un collegamento tra alta formazione e scuola, poiché quest’ultima (specialmente quella secondaria) ha sempre più bisogno di essere spinta verso l’alto, sul piano dei saperi, soprattutto per mettersi in sintonia con la loro attuale condizione (postmoderna, complessa, transdisciplinare, trasversale, multiculturale, etc.) e leggerli all’interno di una frontiera “viva” e “aperta” come quella scolastica. Qui pensiamo ad un settore importante dell’alta formazione, ovvero al Dottorato di Ricerca non come un’esperienza meramente accademica e autoreferenziale, ma come uno strumento utile per affinare una professionalità educativa, istruttiva e formativa come quella sintetizzata dall’insegnante, che se ben formato e sostenuto in itinere può dare inputs significativi nella scuola.
Siamo chiamati, in altri termini, ad aggiornare l’insegnamento sul livello della ricerca e a progettare un rinnovamento dei “modi dell’insegnare” (per dirla con Bruno Ciari): si pensi alle pratiche modulari, alla trasformazione dei manuali, al coinvolgimento dei consulenti di tirocinio, alle esperienze laboratoriali, ai percorsi di ricerca-azione, etc. Ormai in tutti i campi disciplinari vengono organizzati dei momenti alti di approfondimento, in grado di esprimere forme di ripensamento rivolte anche alla scuola, come dimostrano i vari “festival dei saperi” (da quello della matematica a quello della filosofia, da quello della scienza a quello della letteratura, etc.), cioè vere e proprie occasioni di rilettura – aperta e rinnovata – dei saperi stessi. Occasioni, peraltro, largamente frequentate non solo dai cittadini comuni e dagli studiosi, ma anche dai docenti che in quelle occasioni vedono una significativa opportunità di aggiornamento.

2. Il ruolo svolto dall’ex IRRE-Toscana
A partire da questa esigenza/urgenza, vorrei evidenziare i risultati di un’analisi che ho condotto su una parte considerevole del ricchissimo patrimonio dell’ex Istituto Regionale per la Ricerca Educativa (IRRE), che già come Istituto Regionale di Ricerca, Sperimentazione e Aggiornamento Educativi (IRRSAE) ha attivato – in Toscana, sotto la presidenza di Franco Cambi e la direzione prima di Giuseppe Italiano e poi di Sandra Landi – un articolato progetto di innovazione dei saperi scolastici, al fine di favorire una lettura più critica e più sofisticata e, quindi, di assegnare ad essi una più netta “qualità formativa” in direzione di quella “scuola della conoscenza” e di quella “cittadinanza partecipata e responsabile” che sono – ormai – un po’ i macrovettori dell’operari educativo. Su questo la scuola può fare la sua parte, procedendo verso frontiere più avanzate dei saperi e portandole nella pratica curricolare.
Già con l’esperienza de L’arcipelago dei saperi, nei sei volumi coordinati da Franco Cambi e usciti tra il 2000 e il 2001, è stato delineato con decisione questo traguardo innovativo, qui applicato al curricolo verticale, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria, offrendo rilevanti spunti di riflessione alla ricerca dei paradigmi e dei modelli di attuazione per la stessa prassi didattica delle varie aree disciplinari secondo proficui percorsi interdisciplinari e itinerari di sperimentazione in classe. Un’operazione rivolta a corroborare un mutamento radicale nella professionalità docente e nella prassi d’insegnamento sollecitato dall’allora Ministro Luigi Berlinguer con l’autonomia, la riorganizzazione dei cicli, la progettazione curricolare e l’innovazione didattica.
In quegli anni e in quelli immediatamente successivi l’ex IRRE-Toscana si è concentrato su un’innovazione metodologica e didattica anche dell’insegnamento della storia, mettendo al centro le discontinuità, le rotture, le fratture, i confini e gli scambi, aprendola (come ha indicato Fernand Braudel) a prospettive attuali come quelle della mondialità, della storia planetaria e della lunga durata, che vengono a declinarsi trasversalmente e con una scansione “totale” che ha illuminato le varie zone del mondo sfuggendo alla prospettiva ingannevole del primato del “tempo breve” e dell’“azione circoscritta”, come viene evidenziato nel volume (pubblicato nel 2004, a cura di Franco Cambi, Francesco Paolo Firrao e Gaetana Rossi) dedicato alle Discontinuità storiche.
Anche l’insegnamento della filosofia è stato ripensato oltre il modello gentiliano, colto come un “ponte tra i saperi”, attivato durante l’adolescenza, che è notoriamente l’età delle domande filosofiche, letto come esperienza formativa, progettato come “esercizio del pensiero”, legato ad un habitus di riflessività su vari temi dell’esperienza personale, storica, culturale. E su questo – sempre nel 2004 – è stato pubblicato, a cura di Franco Cambi e Francesco Paolo Firrao, Filosofia per i nuovi licei, che presenta alcuni modelli formativi e altrettanti moduli didattici rivolti addirittura al biennio, considerando anche quell’idea originale della philosophy for children, oggi così à la page.
Poi sono state affrontate le trasversalità dei e tra saperi, capaci di costruire un’unificazione metacognitiva e un loro raccordo interdisciplinare, presentato attraverso le categorie attualissime della “complessità” (che oggi campeggia nella ricerca epistemologica e argina la dispersione metodologica) e della “narrazione” (uno stile che è in uso anche nelle scienze, come ormai mostrano la divulgazione e l’immaginazione scientifiche). E qui diventa paradigmatico Complessità e narrazione, il libro curato da Franco Cambi e Maria Piscitelli nel 2005.
Infine, come si evince da Formare alla scienza nella scuola secondaria superiore (uscito nel 2007, a cura di Franco Cambi, Leonardo Barsantini e Daniela Polverini) l’Istituto si è impegnato molto per rinnovare/sofisticare l’insegnamento delle varie scienze, per comprendere la loro identità e il loro ruolo, per dare una corretta e attuale immagine della scienza, come pure dei suoi metodi, delle sue articolazioni e delle sue procedure. Per gestirle in modo consapevole e organico e per consegnare alle giovani generazioni uno strumento-chiave per abitare il loro tempo, che è sempre più il tempo della scienza e della tecnica e nel quale vanno i fatti i conti collocandosi possibilmente alla quota più alta.

3. La formazione dei docenti nella SSIS
Con la riforma degli ordinamenti didattici universitari, tracciata dalla Legge n. 341 del 19 novembre 1990, fu prevista l’istituzione – presso le Università – della Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (SSIS). Più tardi, il D.P.R. n. 470 del 31 luglio 1996 ne regolò le norme e l’ordinamento didattico: un corso biennale, dopo il conseguimento della Laurea “vecchio ordinamento” o Specialistica/Magistrale (con accesso a numero chiuso mediante superamento di una selezione suddivisa per classe disciplinare di abilitazione), il cui diploma finale avrebbe avuto valore di abilitazione all’insegnamento sulla classe disciplinare e aperto l’accesso ai ruoli ordinari. Nel corso della sua storia, la SSIS ha curato in particolare: a) gli insegnamenti di didattica disciplinare e quelli di area socio-psico-pedagogica, provvedendo a completare – in un’ottica metodologica – il percorso di formazione iniziale in base al curriculum seguito dagli specializzandi; b) le attività di tirocinio e le attività laboratoriali in raccordo con le istituzioni scolastiche, avvalendosi del ruolo dei docenti supervisori e dei docenti tutors. Queste due aree intendevano garantire – insieme – quelle conoscenze/capacità/abilità necessarie per trasmettere – oggi, nella scuola secondaria di primo e di secondo grado – “saperi e competenze” in un modo autenticamente formativo.
Con la nascita della SSIS, la formazione degli insegnanti ha subito un deciso rinnovamento che ha mutato radicalmente il modello tradizionale di tipo idealistico (che, con l’egemonia gentiliana, è arrivato fino a noi e ha impedito la formazione più specificamente professionale degli insegnanti) e un adeguamento rispetto ai modelli europei, soprattutto attraverso l’articolazione di tre ambiti: disciplinare (di perfezionamento dei saperi e delle competenze relative ai nodi tematici, all’aggiornamento scientifico, alla storia e all’epistemologia delle materie/tematiche abilitanti); didattico (di formazione alle teorie didattiche, ai “modi dell’insegnare” e ai “congegni” didattici, ignorati nella tradizionale formazione degli insegnanti); psico-socio-pedagogico (di coinvolgimento degli aspetti didattici, comunicativi e relazionali, collegati ai processi di insegnamento-apprendimento-formazione relativi alla pre-adolescenza e all’adolescenza). Tale impianto doveva essere sinergico, integrato e dialettico, e resta condivisibile ancora oggi. Un modello maturo che potrà essere risolto anche nelle lauree Specialistiche/Magistrali, purché siano mantenute e coltivate le prospettive “trasversali” e ad esse venga assegnato un numero di crediti significativo.
Sul piano, però, dell’organizzazione e dei risultati si sono manifestati anche alcuni limiti della/nella Scuola. Qui si sono mostrate alcune “imperfezioni”. Prima e fondamentale quella della didattica disciplinare, che è stata spesso delegata ai supervisori del tirocinio o agli accademici iperspecialisti, spesso lontani dai problemi reali del “fare scuola”. Secondo aspetto problematico è stato quello di aver dilatato l’insegnamento in presenza per specializzandi già occupati, contribuendo a creare un clima difficile (talvolta carico di tensione) tra gli specializzandi e gli insegnanti. La terza debolezza riguarda i risultati, che avrebbero avuto bisogno di un monitoraggio in itinere e in uscita, con l’auspicabile passaggio in ruolo, insieme ad una verifica dell’effetto che c’è stato negli specializzandi a proposito dell’apprendimento integrato di conoscenze, competenze e riflessività, dove per riflessività si deve intendere la capacità di rinnovare la didattica applicata in classe in rapporto ai temi dell’insegnamento e della formazione, come pure un risultato per una professionalità riflessiva (= coscienza e cura di sé, visione della cultura, sviluppo del pensiero critico, competenze metacognitive, etc.).
Quindi, nell’ambito della formazione dei docenti restano alcuni compiti significativi: 1) considerare le didattiche specialistiche a livello universitario secondo una maggiore caratura interdisciplinare (in modo da far dialogare, il più efficacemente possibile, i quadri disciplinari, gli statuti epistemologici e gli ambiti della ricerca); 2) ripensare l’insegnamento in presenza e organizzarlo in maniera più flessibile (con lezioni frontali, ma anche con studio personalizzato, stages in Italia e all’estero che agiscano secondo la logica del brainstorming); 3) mettere in rilievo la sinergia (soprattutto nelle attività laboratoriali) tra discipline “frontali” ed esperienza didattica, con un ruolo nevralgico del supervisore del tirocinio; 4) fissare un monitoraggio organico poiché ogni istituzione ha bisogno di una autovalutazione e di una valutazione per orientare le proprie prassi verso una “qualità totale”.
Dopo una lunga e complessa fase di sperimentazione il modello avrebbe avuto bisogno di una sua collocazione definitiva e istituzionalizzata seguendo alcuni “piani di miglioramento” a livello nazionale, interpretando criticamente il nuovo modello di formazione degli insegnanti e ripensando radicalmente la SSIS, che invece – con l’Articolo n. 64 della Legge n. 133 del 6 agosto 2008 – è stata formalmente sospesa e, di fatto, chiusa. Tuttavia, probabilmente, l’attuale congiuntura – legata al Gruppo di Lavoro Ministeriale (coordinato da Giorgio Israel) sulla Formazione dei Docenti “con il compito di definire i requisiti e le modalità della formazione iniziale e della attività procedurale per il reclutamento del personale docente delle istituzioni scolastiche e di definire gli ordinamenti didattici universitari per la formazione del predetto personale” – può essere un’importante occasione per svolgere una riflessione approfondita sulla prospettiva della specializzazione in chiave didattica della formazione degli insegnanti, a cui anche la ricerca pedagogica guarda con vivo interesse scientifico e autentica speranza di miglioramento.

Bibliografia
A.D.I., Il regolamento dimezzato, in http://ospitiweb.indire.it/adi/FormazioneIniziale2009/fi9_frame.htm, ultima consultazione avvenuta il 28 giugno 2009, alle ore 10.50.
Agazzi E., La formazione culturale degli insegnanti, in “Nuova Secondaria”, 1, 2003.
Baldacci M., Michelini C., Una carta in più per la formazione iniziale dell’insegnante, in “Rivista dell’Istruzione”, 3, 2003.
Bertagna G., Lezioni, laboratori, tirocini nel curricolo della SIS, in “Pedagogia e Vita”, 5, 1999.
Cambi F. (a cura di), L’arcipelago dei saperi. I-II, Firenze, Le Monnier, 2000-2001.
Cambi F., Barsantini L., Polverini D. (a cura di), Formare alla scienza nella scuola secondaria superiore, Roma, Armando, 2007.
Cambi F., Catarsi E., Colicchi E., Fratini C., Muzi M., Le professionalità educative, Roma, Carocci, 2003.
Cambi F., Firrao F. P. (a cura di), Filosofia per i nuovi licei, Roma, Armando, 2004.
Cambi F., Firrao F. P., Rossi G. (a cura di), Discontinuità storiche, Roma, Armando, 2004.
Cambi F., Piscitelli M. (a cura di), Complessità e narrazione, Roma, Armando, 2005.
Cambi F., Saperi e competenze, Roma-Bari, Laterza, 2004.
Cavalli A. (a cura di), Gli insegnanti nella scuola che cambia, Bologna, il Mulino, 2000.
Ciari B., I modi dell’insegnare, Roma, Editori Riuniti, 1972.
Crivellari C., Professori nella scuola di massa, Roma, Armando, 2004.
Desinan C., La specializzazione per gli insegnanti della scuola secondaria, “Nuova Secondaria”, 4, 1992.
Frabboni F., Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario, Bologna, CLUEB, 1994.
Frabboni F., Sognando una scuola normale, Palermo, Sellerio, 2009.
Franceschini G. (a cura di), La formazione consapevole, Pisa, ETS, 2006.
Genovese L., La formazione dell’insegnante secondario tra teoria e pratica, Roma, Armando, 2005.
Grion V., Insegnanti e formazione, Roma, Carocci, 2008.
Israel G., Chi sono i nemici della scienza?, Torino, Lindau, 2008.
Jori M. L., Migliore A., Imparare a insegnare, Milano, Franco Angeli, 2001.
Luzzatto G. (a cura di) Università e formazione degli insegnanti, Udine, Forum, 2002.
Margiotta U., Insegnare nella società della conoscenza, Lecce,Pensa MultiMedia, 2007.
Nigris E. (a cura di), La formazione degli insegnanti, Roma, Carocci, 2004.
Santelli Beccegato L. (a cura di), La formazione dell’insegnante di scuola secondaria tra progetti ed esperienze, Bari, Adriatica, 1999.
Santoni Rugiu A., La lunga storia della scuola secondaria, Roma, Carocci, 2007.
Schön D. A., Formare il professionista riflessivo, Milano, Franco Angeli, 2006.
Ulivieri S., Giudizi G., Gavazzi S. (a cura di), Dal banco alla cattedra, Pisa, ETS, 2002.
Ulivieri S., Franceschini G., Macinai E. (a cura di), La scuola secondaria oggi, Pisa, ETS.

*Docente di Pedagogia all’Università di Firenze

...................................................................................


“SE SI FA COSÌ IL DEPAUPERAMENTO CULTURALE DELLE GIOVANI GENERAZIONI È INEVITABILE”

Intervista a Beniamino Brocca

Responsabile Scuola e Università della UDC


Domanda
NELL’ATTUALE RIFORMA DELLA SCUOLA QUALI SONO GLI ASPETTI INNOVATIVI E QUELLI TRADIZIONALI?

Risposta
Nei cambiamenti del sistema educativo, recentemente introdotti, si percepisce la presenza di alcuni presupposti teorici che furono oggetto di annosi dibattiti sin dalle «Proposte di Frascati» (4-8 maggio 1970), condensate nei noti «10 punti»; si intravede, parzialmente, la struttura ordinamentale di un assetto immaginato dalla Conferenza nazionale sulla scuola (30 gennaio - 3 febbraio 1990), voluta dalla Camera dei Deputati e organizzata dal Governo dove - alla presenza delle più alte cariche dello Stato (compreso il Presidente della Repubblica) - fu definito, con il contributo dei massimi studiosi italiani del sapere pedagogico e amministrativo (S. Lombardini, A. Visalberghi, M. Laeng, G. De Rita, S. Cassese) un «pensiero forte», punto di partenza per un processo riformatore; si scorge, infine, qualche venatura programmatica presa dalle ipotesi elaborate in sede ministeriale da parte di apposite Commissioni costituite, negli anni ‘80 e ’90 del secolo scorso, da personalità di spicco, di vario orientamento politico.
Si può, pertanto, convenire su due assunti: innanzitutto, che la maggior parte delle modifiche apportate sono state ideate, progettate e formulate molti anni addietro e, inoltre, che la restante parte delle stesse annovera “pezzi” di un vecchio impianto, recuperati con deboli giustificazioni. Le scelte probanti di tutto ciò, sono sotto gli occhi di tutti.
Perciò non «c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole» e nemmeno qualcosa d’antico, appartenente a una nobile tradizione da salvaguardare.
Tuttavia, detta mutazione non è, adesso, suscettibile di un giudizio favorevole o contrario in quanto è passato tanto tempo dalla sua invenzione e l’inserimento nell’attualità deve ancora essere valutato sotto il profilo della congruità; in quanto non sembra rientri in una prospettiva chiara e coerente di sviluppo del sistema educativo; in quanto non è stata sottoposta a monitoraggi e verifiche, serie, presso un campione significativo di istituti.


Domanda
LA RIFORMA, SECONDO LEI, HA PRESO IN CONSIDERAZIONE I RISULTATI POSITIVI DELLE SPERIMENTAZIONI?
Risposta
Si evita, per ragioni di garbo, una risposta tranciante e puntuta e si constata che le sperimentazioni “mini” e “maxi”, proposte e assistite dalle Direzioni Generali del Ministero della P. I., negli anni Ottanta del secolo scorso, non sono state destinatarie di una vagliatura scientifica che ne accertasse la validità (salvo poche indagini approssimate, basate su osservazioni personali di alcuni dirigenti), per cui non è possibile individuare gli aspetti positivi da applicare, oggi, e quelli negativi da eliminare.
Altra è, invece, la estimazione relativa alle sperimentazioni del Progetto concepito e apprestato dalla Commissione ministeriale (composta, secondo, un criterio pluralistico e bipartisan, da autorevoli rappresentanti e testimoni della cultura nelle sue diverse branche; della scuola nei suoi diversi ordini; dell’università nelle sue diverse facoltà) che operò dal 1988 al 1992, elaborando una ipotesi di ammodernamento del sistema educativo, secondario, di II grado, in sintonia con i disegni di legge in discussione in Parlamento; con le “buone pratiche” di molti istituti; con le più aggiornate tendenze in campo europeo. Il Progetto, apprezzato da numerose unità scolastiche che lo hanno voluto e adottato, fu oggetto di una indagine rigorosa da parte del CEDE (attuale INVALSI) il quale, con classi di controllo e con batterie di test iniziali e finali, dimostrò la solidità dell’impianto e la pregevolezza degli esiti, peraltro ammirati dai docenti e graditi dai genitori.
Gli elementi vantaggiosi del Progetto non sono stati presi in considerazione dai governanti dell’ultimo decennio e il tutto è stato gettato nella discarica delle immondizie con il pretesto della discontinuità politica, a prescindere dal contenuto.

Domanda
QUALE È IL RAPPORTO, IN QUESTA RIFORMA, TRA I PRINCÌPI PEDAGOGICI-DIDATTICI E LA LOGICA ECONOMICA?

Risposta
E’ necessario ricordare che il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, agli esordi di questa legislatura, dettò, con un articolo sul quotidiano La Padania, le linee guida della politica scolastica italiana e, soprattutto, prefigurò e, poi, attuò una consistente riduzione delle risorse finanziarie per l’istruzione e la formazione con la conseguente decurtazione dell’orario settimanale, del numero degli insegnamenti e della quantità degli organici del personale docente e non docente. Questa scelta conferma alcuni convincimenti: che l’istruzione e la formazione non sono una priorità politica di questo governo; che il depauperamento culturale delle giovani generazioni è inevitabile; che la esaltazione del merito, senza incentivi, accentua la sua fattezza negativa (prescrizioni, punizioni ed emarginazioni che sono l’esatto contrario del sostegno e dello sviluppo dei talenti). In particolare, il sapere pedagogico-didattico circola «povero e nudo» in quanto la sua relazione - intesa come l’«essere consistente nel comportamento in un certo modo» (Aristotele) - verso i parametri economici disvela una subalternità nei confronti di questi ultimi.
In questo rapporto, la finalità del servizio scolastico non è più primariamente quella di «favorire la crescita e la valorizzazione della persona umana» (L. n. 53/2003), a cui tendono la pedagogia e la didattica, e, secondariamente quella di contenere la spesa pubblica, ma purtroppo è l’inverso. A nessuno sfugge l’urgenza di cancellare gli sprechi (i quali sono ancora intonsi) attraverso una operazione di moralizzazione, a condizione, però, che tale azione, detta di “razionalizzazione”, non penalizzi la missione educativa dell’istituzione.

Domanda
RITIENE CHE I PIANI DI STUDIO DELLA RIFORMA SIANO IN SINTONIA CON L’ATTUALE REALTÀ CULTURALE, SCIENTIFICA, ECONOMICA, LAVORATIVA?
Risposta
La ricetta di Claude Thélot - uno dei maggiori esperti di riforme scolastiche -, volta a sconfiggere l’insuccesso di troppi ragazzi, si fonda sul seguente postulato: «occuparsi meno di trasmettere sapere e occuparsi di più di crescere la personalità degli alunni, poiché le discipline sono un mezzo, non un fine».
Si è di fronte, innanzitutto, a una questione di strategia che fa riferimento a una scala di prelazioni così composta: uomo, cittadino, lavoratore; a uno scopo costituito dall’incremento del potere mentale (dominio di un campo di conoscenze) e del potere morale (autonomia responsabile nelle decisioni) che si solidificano nelle competenze; a una mediazione tra valori ideali e realtà feriali; a una prevalenza dell’istruzione e della formazione generalistiche rispetto a quelle specialistiche, da riservarsi a una fase successiva; a una metodologia didattica programmata per obiettivi generali e specifici, intesi come prestazioni verificabili; a un recepimento dei bisogni e delle attese dell’universo della natura, della scienza, della tecnologia, del lavoro per preparare manodopera (meglio mentedopera) con intelligenza aperta e professionalità flessibile.
Si è di fronte, inoltre, a un problema di metodo che si risolve capovolgendo la procedura innovatrice, sinora seguita, e, cioè, definendo prima i curricoli dell’insegnamento- apprendimento con riguardo all’humanitas della persona e alla perizia tecnica e costruendo, poi, il “container” (organizzazione sistemica e funzionale) adatto a comprenderli, senza ristrettezza e senza eccessi.
Questo ragionamento non è estraneo al quesito, anzi è in forte consonanza con lo stesso perché consente, alla luce della strategia e del metodo, di determinare se la enucleazione dei recenti “piani di studio” sono qualitativamente attenti alla «società liquida» nella quale viviamo (rischiando di affogare), non per contemplarla, ma per cambiarla. Qualche perplessità è più che mai giustificata.

Domanda
RITIENE FONDAMENTALE IL COINVOLGIMENTO DELLE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI SIA NELLE MISURE DI ACCOMPAGNAMENTO SIA NELLE PROPOSTE DI LEGGE RELATIVE ALLA SCUOLA?
Risposta
In una pagina splendida de Il barone rampante, Italo Calvino, descrivendo l’incendio del bosco in cui dimora Cosimo e la sollecitazione del medesimo per prevenirlo nel futuro, rappresenta le “virtù” della «specie di milizia» reclutata e di «ogni associazione». E aggiunge «che le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone».
Privarsi degli studi, delle esperienze, degli apporti che le associazioni professionali possono fornire è un atto inconsulto della politica. Peraltro solo l’impazzimento di quest’ultima, ridottasi a essere, miseramente, spettacolo, ipocrisia e affare può indurla a ignorare la possibilità di larghe e preziose intese dotate di reciproci prestiti (motivazioni, sostegni, ricerche …), di vicendevoli aiuti (morali, conoscitivi, informativi …), di scambievoli collaborazioni sia nelle misure di accompagnamento delle riforme sia nella redazione delle proposte di legge. Occorre ripristinare un tavolo di confronto permanente e proficuo tra governo e associazionismo, senza forme più o meno larvate di collateralismo e senza invasioni di campo.

(Il testo, già pubblicato da Il Messaggero è gentilmente fornito dall’intervistato.)

..................................................................................