domenica 21 marzo 2010


Numero due.
Gelmini, il contrario di Guccini, secondo Frabboni. Genovesi scrive della Pedagogia, mentre ci dicono che non serve più, che distrae dalle disciplina, o "dalla" disciplina. Pinto Minerva assegna il ruolo centrale, che deve avere, alla multiculturalità. Sacchi riflette sulle Regioni, a pochi giorni dal voto elettorale del 28 di Marzo.


........................................................................

Guccini non fa rima con Gelmini.

Franco Frabboni

1. Proclami amari
“Da quando ho assunto la responsabilità di Ministro ho avanzato alcune proposte per cambiare uno stato di cose non più tollerabile. Voglio ricordarne alcune. Voto di condotta, divisa scolastica, ritorno al maestro unico. Autorevolezza, autorità gerarchia, insegnamento, studio, fatica, merito. Sono queste le parole chiave della scuola che vogliamo ricostruire, smantellando quella costruzione ideologica fatta di vuoto pedagogismo che dal 1968 ha infettato come un virus la scuola italiana /…/.Per troppi anni le innovazioni a scuola sono state nel segno dell’ideologia egualitaria del pedagogismo di sinistra. La scuola ha perso il senso della sua missione. Io sono totalmente contraria a che un clandestino possa iscrivere il proprio figlio a scuola. Se accade, la scuola deve denunciarlo ed espellere il figlio”.
Mariastella Gelmini, Quarant’anni da smantellare, Corriere della sera, 22 agosto 2008; Ecco le mie riforme, La Padania, 22 agosto 2008.

PRIMO DIKTAT. L’antipedagogia del Ministro. - Dalle prime frequentazioni in video e con la stampa - sono trascorsi venti lunghi mesi - il ministro Gelmini mai ha indicato la Persona quale ultima frontiera della sua Riforma del sistema di istruzione. Non battendo il suo cuore per il soggetto/Persona è plausibile che criminalizzi la Pedagogia: al punto da giudicarla colpevole dello sfascio della Scuola di casa nostra. Affermazione e valutazione volgarmente incolte. In quanto Scienza dell’educazione, la Pedagogia è immune da ermeneutiche di/parte. Il suo sguardo educativo è rivolto alla Persona - alla quale il Ministro volta le spalle, preferendole il soggetto/Massa - nei confronti della quale progetta una formazione multidimensionale e integrale .
SECONDO DIKTAT. L’antiscuola del Ministro. - La Gelmini si fa sentinella di una Scuola autoritaria e gerarchia al fine di screditare il sistema formativo pubblico. Con quali armi improprie? Queste. Incutendo sconcerto e paura in milioni di famiglie, inondandole - tramite un insistente martellamento mediatico - di voci e immagini di comunità scolastiche impietosamente delegittimate come terre di nessuno, praterie di brigantaggio giovanile: popolata di ragazzi “sregolati” con gli zaini stracolmi di rambismo, abusi, stupri. Quale diabolico disegno nasconde questa sua crociata anti/Scuola? Convincere l’opinione pubblica che i costi dell’istruzione potrebbero essere smagriti dando strada al mefistofelico progetto della morte della Scuola pubblica. Al suo posto, dovrebbe prendere luce una società (neoliberista) senza/Scuola: una rete di servizi di istruzione “privati” a domanda individuale (come il gas, la luce, la nettezza urbana!).
Un sistema di istruzione di tal fatta è perseguibile se si azzera - come caldeggia il Ministro - la sua nobile missione: la formazione di giovani dal pensiero plurale e dal cuore solidale.
La Gelmini ammaina dall’albero maestro della Scuola queste due gloriose bandiere pedagogiche. Al loro posto, dà vento a due vessilli/neri - cari alla Scuola privata - dove campeggiano i teschi della Meritocrazia e della Competitività.
1. La Meritocrazia fa rima con un pensiero unico. - Questo primo teschio gelminiano teorizza quanto sia un sacco/bello avere gli allievi inchiodati nel banco a memorizzare, in silenzio, la lezione dell’insegnante, le pagine del libro di testo e del Power-point. Come dire. Se si rinchiudono tutti i processi formativi dentro-la-Classe, allora si potrà proficuamente insegnare e meglio selezionare la sua utenza. In questa, potrà germogliare un pensiero/unico nutrito di saperi precettistici, mnemonici, enciclopedici.
Siamo alla faccia meno nota della Controriforma/Gelmini. Dal suo monitor antipedagogico scompaiono le dinamiche relazionali e cognitive più formative. Siamo all’ingresso nella Scuola della bassa/cucina cognitiva - vera e propria pseudocultura - che la Tv ci propina giorno dopo giorno, prima di cena, con le olimpiadi della memoria.
Ovviamente, una Scuola Tutta/quiz non solo costa meno allo Stato, ma mette le catene al pensiero autonomo e critico dell’allieva e dell’allievo. Costringendoli a darlo in affitto al Belzebù Mediatico.
2. La Competitività fa rima con un cuore arido. - Questo secondo teschio gelminiano trasforma la Classe in un ring sul quale gli allievi incrociano quotidianamente i guantoni. Una girandola di match che sancirà chi potrà sedere ancora nel proprio banco (il pappagallo: promosso) e chi non avrà più posto in un banco (l’usignolo: bocciato). Accogliere la Competitività - il Mercato - come metodo di istruzione significa cancellare l’amicizia e la solidarietà nella vita scolastica e intossicare i suoi luoghi formativi di dinamiche antagonistiche e conflittuali: sicure apripista per l’aggressività e la violenza.

2. Guccini ama il pianeta giovani
In punta di piedi, protetti dai versi delle sue canzoni, ci sembra di potere argomentare che il Pianeta/giovani narrato e musicato da Francesco Guccini - al quale la mia Facoltà petroniana di Scienze della Formazione ha attribuito, nel 2002, la Laurea honoris causa in Pedagogia - abita cieli molto lontani rispetto a quelli occupati quotidianamente da Mariastella Gelmini.
Le infanzie e le adolescenze cantate da Francesco - che festeggia in questi giorni settant’anni pieni di incanti - sono sconosciute al Ministro: proprio perché sono giovani generazioni che pensano con la propria testa e sognano con il proprio cuore. E’ un’umanità smarrita che soffre i totem del Mediatico e del Mercato (ai quali è devota la Gelmini): relegata e confinata - giorno dopo giorno - all’estraneazione (età senza cittadinanza) e alla defuturizzazione (età senza domani).

CANTA IL PENSIERO PLURALE. - La poesia e il messaggio musicale di Guccini denunciano come l’Educazione sia oggi un’emergenza epocale. Questo perché l’Educazione costituisce il solo baluardo a difesa del soggetto/Persona (irriducibile e inviolabile) contro l’incubo del soggetto/Massa (manipolabile e omologabile) titolare di un encefalogramma piatto. Siamo al monopensiero (accarezzato dal Ministro) che genera un’umanità modellata e standardizzata. Siamo all’uomo “utile” e di serie: mai plurale.
Al contrario, i testi e le note di Francesco Guccini danno voce ad una umanità di segno plurale: popolata di giovani equipaggiati di voglia di conoscere, di partecipare e di trasformare il proprio mondo di cose e di valori.
Testimoniano questo sentiero esistenziale molte sue canzoni. In queste righe, diamo voce ai versi di Black out che alludono ai valori della libertà, della mente plurale e dell’utopia.
BLACK OUT
La luce è andata ancora via,
ma la stufa è accesa e così sia
a casa mia tu dormirai ma quali sogni
sognerai
con questa luna che spaccherà in due
le mie risate e le ombre tue
i miei cavalli e i miei fanti
il tuo esser sordo ed i tuoi canti
tutti i ghiaccioli appesi ai fili
tutti i miei giochi e i miei monili
i campanili i pazzi i santi e l’allegria.
E non andrà il televisore,
cosa faremo in queste ore?
Rumore attorno non si sente,
corriamo a immaginar la gente
giochiamo a fare gli incubi indiscreti,
curiosi d’ozi e di segreti,
di quei pensieri quotidiani
che a notte il sonno fa lontani
o che nel sogno sopra a un viso,
diventan urlo o un sorriso
il paradiso, inferno, mani,
l’odio e l’amore…
Su sveglia e guardati d’attorno,
sta già arrivando il nuovo giorno
lo storno e il merlo son già in giro,
non vorrai fare come il ghiro
non c’è black-out e tutto è ormai finito,
e il vecchio frigo è ripartito
con i suoi toni rochi e tristi
scatarra versi futuristi.
Lo so siam svegli ormai da allora,
ma qualche cosa manca ancora
finiamo in gloria amore mio,
e dopo, a giorno fatto,
dormo anch’io.

ASCOLTA IL CUORE DEI GIOVANI. - La poesia e il messaggio musicale di Guccini cantano la condizione esistenziale delle giovani generazioni. In particolare, i loro specchi rubati: i loro bisogni, le loro speranze, i loro sogni. Questo perché la questione giovanile si presenta - oggi - come la cassa di risonanza più emblematica e squillante della fitta trama di ingiustizie-sfruttamenti-emarginazioni che indebolisce, fino a strapparlo, il tessuto civile e valoriale di una stagione storica che ha varcato da poco le frontiere del terzo Millennio.
A partire da questo scenario interpretativo, Francesco dà voce alla denuncia - tutta pedagogica - del duplice/disagio di cui soffre l’universo giovanile.
1. Primo disagio esistenziale: l’Estraneazione. - Essere/giovani significa avvertire sulla propria pelle il segno della marginalità e dell’incomunicabilità generate da un mondo avvolto nel silenzio, dove la parola è negata e il dialogo “strappato”: il che produce un acuto sentimento di sgomento esistenziale. Tenuti fuori dai cancelli della partecipazione/cittadinanza e respinti nella loro voglia di contare le ragazze e i ragazzi rispondono, in un primo momento, con la reazione a caldo della contestazione, della protesta, della ribellione, e, successivamente, con il linguaggio della rinuncia, del disimpegno e dell’indifferenza. Questo tracciato esistenziale di nome smarrimento trova in Francesco il cantastorie della protesta, della rabbia, dei disincanti, delle rinunce che danno identità poetica al Pianeta/giovani.
2. Secondo disagio esistenziale: la Defuturizzazione. - Essere/giovani significa avvertire sulla propria pelle il brivido generato da una società vuota di domani: spoglia di cifre etico-valoriali e miope quanto a sguardo prospettico sul futuro. Nei suoi paesaggi di decomposizione morale, il destino del mondo giovanile sembra irreversibilmente lo “smarrimento”.
Guccini dà risposta ai tanti interrogativi esistenziali del Pianeta/giovani.
Vuoi alla domanda di valori, che per il cantautore modenese vanno nutriti di miti: soltanto in questi c’è la condensazione della radicale ambiguità di ogni ideologia: perché con la sua prometeica pretesa di catturare la realtà spesso la distrugge.
Vuoi alla domanda di futuro, dove la sua poesia si fa ancora più alta: perché fa appello alla costruzione di un domani fatto di coscienze attente e sensibili alle nostre radici. A partire dai massacri di massa che hanno funestato la storia recente, ma anche dai valori civili e sociali costruiti da donne e da uomini senza volto pronti a dare sudore e fatica - spesso anche la vita - pur di potere sognare un mondo fatto di donne e uomini nuovi.
Testimoniano il sentiero esistenziale del mondo giovanile molte sue canzoni. In queste righe, diamo voce ai versi di Auschwitz che implorano di non rimuovere mai il passato: a partire dalla memoria delle sue barbare tragedie come quella dell’olocausto.
Solo così i giovani potranno essere i custodi naturali degli inalienabili valori universali della dignità, del rispetto, dell’inviolabilità della Persona umana.

AUSCHWITZ
Son morto ch’ero bambino
Son morto ch’ero bambino
Son morto con altri cento
passato per un cammino
e ora sono nel vento.
Ad Auschwitz c’era la neve
il fumo saliva lento
nei campi tante persone
che ora sono nel vento.
Nei campi tante persone
ma un solo grande silenzio
che strano non ho imparato
a sorridere qui nel vento.
Io chiedo come può un uomo
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento
Ancora tuona il cannone
ancora non è contenta
di sangue la bestia umana
ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà
che un uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà.
………………………………………………………………………………………………….

Scienza dell’educazione e Pedagogia:
riflessioni per una loro identità.


Giovanni Genovesi

“Riforma della scuola” è rinata. On line, ma è rinata ed io ne sono contentissimo. Tanto più che i direttori, mi hanno chiesto un pezzo sulla identità della Pedagogia e, di conseguenza – almeno per me – sulla Scienza dell’educazione.
In questi ultimi anni ho scritto molto su questo problema e, forse,continuerò ancora a farlo.
E questo perché non posso certo dire di aver terminato di dare le risposte a tutte le domande che mi ero poste e che continuamente si rinnovano.
Tuttavia sono convinto di aver imboccato la pista giusta.
E voglio batterla come si deve.
Qui ripropongo alcune riflessioni emerse lungo questa strada, quelle che, per la loro sinteticità, mi appaiono ancora le più incisive e, tutto sommato, le più chiare.
Io spero che le note che seguono diano una spiegazione chiara e distinta di cosa siano la Pedagogia e la Scienza dell’educazione e, ovviamente, quale sia la loro funzione.
Comunque, per un allargamento e un approfondimento del discorso in questa direzione, mi permetto di rimandare il lettore al mio saggio: “Pedagogia e oltre. Discorso sulla Pedagogia e sulla Scienza dell’educazione” (Roma, Editori Riuniti, 2008).

1. Considerazioni preliminari

Come sopra accennavo, vi sono problemi e argomenti che circolano
continua-mente nella mia testa cercando una risposta sempre più
precisa alla loro identità. Due, in particolare, girano e rigirano e
mi arrovellano non poco. Le ragioni ci sono di tale irrequietudine, e
non poche. Si tratta dei due problemi fondanti la Scienza
dell’educazione con tutto il seguito delle conseguenze che si
trascinano, comunque, dietro.
Il primo problema riguarda i passaggi che giustificano la messa a
punto della Scienza dell’educazione e cosa essa comporta.
Sostanzialmente, il parlare di questo problema equivale a dichiarare
gli scopi stessi della mia ricerca.
Il secondo problema riguarda un aspetto apparentemente secondario ma
invece di importanza determinante sulle modalità della creazione
dell’oggetto di scienza. Il quesito è questo: l’oggetto di scienza che
il soggetto pone esisteva già in qualche modo prima di tale rapporto
con il soggetto? Può sembrare un quesito platonico, e forse lo è,
tuttavia una risposta ad esso investe in pieno la possibilità di
conoscere le modalità con cui da una disciplina si possa passare ad
una scienza grazie al rapporto che un soggetto instaura con un’idea e
dà vita all’oggetto di quella scienza.
So benissimo che dare una risposta accettabile ai due problemi qui
impostati è non pretenzioso, quasi folle. Non voglio apparire
pretenzioso, essendo consapevole che ogni ricercatore è
sostanzialmente umile, ossia è ben consapevole dei limiti che deve
avere l’uomo. D’altronde, la scienza si nutre e si rafforza proprio in
funzione della consapevolezza di questi limiti, al punto che sa di
poter essere grande grazie al fatto che è imperfetta. Pertanto, io mi
limiterò qui, in tutta umiltà, a dichiarare le fi-nalità della mia
ricerca e i risultati – o, se vogliamo, i problemi ulteriori – che
essa ha fino ad oggi messo sul tappeto.
Affronterò il compito, dividendo il discorso in due parti. La prima,
più corposa benché esposta in sintesi, sarà dedicata all’iter che mi
ha portato alla Scienza dell’educazione. La seconda parte, molto più
breve, sarà dedicata ad una spiegazione dell’esistenza delle idee
senza che ciò infici la creazione dell’oggetto di scienza at-traverso
il porsi da parte del soggetto, ossia l’esserci dell’oggetto come
risultante della transazione tra soggetto e ciò che lo stesso soggetto
pone.

2. L’iter di ricerca verso la Scienza dell’educazione

Il mio lavoro di ricerca è sempre stato guidato dal problema della
conoscenza che, al tempo stesso, ne è stato l’oggetto principale.
Questa tensione si è articolata in due fondamentali direzioni,
distinte e contempo-raneamente strettamente intersecate e interagenti.
La prima direzione, quella più particolare, ha sempre indagato il
rapporto tra e-venti e conoscenza, tra senso comune e conoscenza
critica. Questo è l’aspetto più squisitamente epistemologico, quello
che cerca di dare un linguaggio preciso e signi-ficativo ai dati della
ricerca, nella consapevolezza che la descrittività non è la
carat-teristica della scienza e che gli eventi in sé non esistono
perché non hanno significato se non vengono interpretati. Essi restano
delle “voci casuali” cui solo il ricercatore può dare un orizzonte di
senso.
La seconda direzione è più generale e regge, quindi, la precedente: si
tratta della costante preoccupazione di mettere in forma chiara e
distinta – per dirla cartesiana-mente – ciò che è possibile dire di
sapere e, soprattutto, quale sia il grado di certezza (o, se si vuole,
di dubbio, che è la stessa cosa) con cui lo si può affermare.
Esemplificando, lo sforzo è teso a poter affermare con il minor grado
di dubbio possibile (e, viceversa, con il maggior grado di certezza
possibile) in relazione ad un determinato contesto storico, che cosa
siano entità come la Pedagogia e la Scienza dell’educazione, la
Didattica, l’Educazione e la Scuola, ecc., cercando di includere una
definizione funzionale e logicamente difendibile dei termini che
dobbiamo usare sull’universo della formazione.
Ho detto “funzionale” e “logicamente difendibile” perché una qualità
senza l’altra rischia di esprimere solo qualcosa di deprivato per la
conoscenza o, se vo-gliamo, una conoscenza deprivata.
In realtà, la sola funzionalità si rivolge soprattutto ad aspetti
operativi, a prescin-dere dalla logicità. Del resto, quest’ultima se
non si dimostrasse funzionale sarebbe del tutto inutile chiamarla in
gioco. Una ragnatela funziona non solo perché è fatta in modo solido e
regolare, ma anche perché afferra le mosche e altri insetti per
nutrire il ragno. La logicità va oltre, perché ad essa l’individuo
affida la consapevolezza della propria identità. Proprio questa
identità imposta funzionalmente le operazioni per il nutrimento ideale
dell’individuo, ossia le operazioni della conoscenza. In effetti,
l’individuo razionale quando imposta un’operazione in modo corretto è
sempre gui-dato da fini principalmente conoscitivi, da finalità di
conoscenza critica che non può fermarsi mai a capire gli aspetti
superficiali di quanto accade, ma deve andare oltre, al di là. Deve
andare a cercare di capire perché ciò che è accaduto è potuto
accadere. Non basta sapere quali risultati può raggiungere la
Pedagogia o la Scienza dell’educazione – premetto che sono due entità
diverse – ma che cosa esse siano.


2.1. Filosofia e scienza

Le scienze non stanno in piedi per ragioni teleologiche, ma per
ragioni che ne colgono la struttura portante, a prescindere dai
problemi che si pensa possano risol-vere. Non è tanto importante
sapere a che cosa serva la Scienza dell’educazione – che, peraltro,
nell’immediato, come tutte le scienze, non serve proprio a niente –
bensì che cosa essa sia.
Se la spinta a conoscere questa identità è quello che si può chiamare
la dimensio-ne filosofica della ricerca, lo sforzo di illuminare al
meglio tale identità articolandola nei meccanismi particolari che la
compongono, è la dimensione propriamente scien-tifica e attinente
strettamente alla Scienza dell’educazione. Si tratta della dimensione
che non riguarda più gli aspetti generali, ma quelli particolari
dell’oggetto della Scienza dell’educazione.
Fino a quando c’è la fase dell’incertezza dei risultati, siamo
totalmente dentro la filosofia. Per esemplificare con il nostro
settore, è la fase in cui la filosofia sta ancora stimolando la
Pedagogia a creare il proprio oggetto. Una volta che la Pedagogia ha
creato il proprio oggetto, giungendo quindi a risultati definiti, se
non certamente de-finitivi, si entra nella fase della scienza. La
dimensione filosofica certamente non scompare, anche perché nulla mai
scompare nel gioco intellettuale della ricerca che è fatto di continui
rimandi tra figura e sfondo. Pertanto, la filosofia continua il suo
compito agendo direttamente sulla scienza appena formatasi, facendola
cauta nell’accettare come buone credenze e pseudoverità del senso
comune.
Ogni ricercatore mantiene e coltiva in sé il fuoco del dubbio e, al
tempo stesso, della conoscenza che è la testimonianza della presenza
della filosofia in ogni scienza.
La filosofia, che non è e non potrà mai essere scienza per la ragione
evidente che cesserebbe di essere filosofia, spinge ogni disciplina a
creare il proprio oggetto per divenire scienza. Di tale oggetto si
occuperà, quindi, la scienza e non la filosofia. Quest’ultima
continuerà ad occuparsi della scienza.
Il metodo, il rigore del linguaggio, la verifica attenta dei risultati
a prescindere da ciò che il ricercatore desidera, la costante presenza
del dubbio, la marcata sottolinea-tura della consapevolezza della
transazione soggetto-oggetto che allontana ogni illu-sione ontologica
e di disvelamento della struttura del reale, la critica costante dei
me-todi e delle illusioni oggettive, la necessità del collegamento tra
tutte le scienze nel principio dell’unità della scienza, la costante
volontà di ricominciare sempre da capo nella ricerca senza mai
illudersi di essere arrivati a ricultati definitivi sono tutti
aspet-ti che rivelano la presenza massiccia della filosofia in ogni
disciplina che voglia darsi come scienza.
Quindi, anche la Scienza dell’educazione è impregnata di filosofia
senza, peral-tro, che quest’ultima possa essere considerata filosofia
dell’educazione. Se facessimo un tale errore logico di chiamare con
più nomi una stessa entità non sarebbe possibi-le aumentare la
conoscenza sulla Scienza dell’educazione e sui settori di cui
pensia-mo che si occupi, ma solo la confusione su tutto ciò.


2.2. Scienza dell’educazione e Pedagogia

Questi punti, che ho enunciato, ho cercato di tenerli sempre presenti
nella mia ri-cerca tesa al chiarimento di che cosa sia la Scienza
dell’educazione e quali difficoltà tale chiarimento abbia trovato e
tuttora trovi e perché.
Certamente molti ostacoli si frappongono per proseguire su questa
strada di con-solidamento dell’identità della Scienza dell’educazione.
Il primo fra tutti credo che stia nella difficoltà ad accettare la
scomparsa della Pedagogia come sinonimo di Scienza dell’educazione.
Del resto, non è possibile, come ho già detto, mantenere due nomi per
significare una stessa entità.
La dizione Pedagogia, allora, indica tutte le vicende della disciplina
fino al suo divenire scienza. Si tratta di una definizione chiara e
distinta che evita di creare am-bigue sovrapposizioni.
Io stesso ho attraversato un periodo in cui ho pensato che fosse
dannoso non riu-scire a considerare la Pedagogia come scienza. Ma
questo succedeva proprio quando aveva cominciato a manifestarsi da noi
una corrente di negazione del discorso scien-tifico dell’educazione o,
comunque, di un suo necessario ripiegamento all’insegna dell’empiria,
considerata più salutare e più dimostrativa di efficacia di qualsiasi
illu-sorio impegno di scientificità per una disciplina pratica.
Il ribellarsi del mio essere ricercatore a questo modo che ritenevo e
ritengo gros-solano di porre la riflessione sull’educazione, mi aveva
portato al rifiuto della cosid-detta morte della Pedagogia,
rivendicandone in pieno la necessità che divenisse una scienza a tutto
tondo, senza la ingiustificabile riduzione – per una scienza – ad
empi-ria.
Una volta, però perseguito l’itinerario sopra tracciato e impiantata
la Scienza dell’educazione quale sbocco necessario della stessa
Pedagogia, il problema ha cam-biato fisionomia e lo scoglio mi è parso
superato. D’altronde, oltre a quanto già det-to, fare finta di nulla,
ossia come se la storia ricostruita al riguardo della Pedagogia fosse
passata come l’acqua passa sui vetri, e lasciare il nome “Pedagogia”
per desi-gnare la Scienza dell’educazione, sarebbe stata solo
testimonianza di una rigidità nominalistica senza basi né storiche né
logiche.
In effetti, qualora intendiamo che la Pedagogia significa la Scienza
dell’ educa-zione – identificazione, ripeto, scorretta – tanto vale
chiamare la Pedagogia Scienza dell’educazione. Si arriva, quindi, al
risultato che ho proposto, risultato che è logico e funzionale al
tempo stesso, evitando dei fraintendimenti. Non bisogna dimenticare
che il primo assunto di una scienza è la chiarezza del linguaggio. Un
linguaggio scorretto perché ambiguo uccide la scienza o, meglio, le
impedisce di nascere.
Sono state queste, in larga sintesi, le preoccupazioni di fondo che
hanno guidato e che guidano la mia ricerca.


3. Il problema dell’esistenza delle idee

Nella speranza non tanto di essere stato persuasivo, quanto di essere
stato soprat-tutto chiaro, passo alla seconda parte di queste note,
come premesso.
Invero si tratta più che altro di una appendice che riguarda un
aspetto generale del modo di pensare le tappe della conoscenza: il
ruolo delle idee.


3.1. Idee, scienza e pericolo dell’ontologismo

Io denomino le idee delle realtà o delle entità astratte. Mi è stato
fatto osservare che con tali dizioni postulo l’ontologismo. Sarebbe
meglio, pertanto, usare il termine “elemento”. Ma non mi convince,
dato che gli elementi sono pur sempre dei fram-menti, delle parti di
un tutto che pure si deve supporre che sia. Al momento preferi-sco
continuare ad usare il termine “entità” anche se sono consapevole che
il termine suggerisce direttamente l’essere. Potrei usare il termine
“quiddità”, ma può sembrare un mero éscamotage. Resta il fatto che ha
bisogno di designare l’idea.
In effetti, senza idee non è possibile fare ricerca. Di più: senza
idee non potrem-mo neppure trarre profitto dei risultati della ricerca
stessa, ammesso e non concesso che fossimo riusciti ad impostarla.
La scienza c’è perché ci sono le idee: il suo oggetto è un’idea, essa
comunica del-le idee e l’incrocio delle idee dà vita a continui
problemi che non sono altro, appun-to, che l’incontro-scontro di idee
come gli atomi di Democrito, che possono essere temporaneamente
risolti solo usufruendo di altre idee o delle stesse “attivate”
secon-do interessi e modalità diverse.
Impostato così il discorso, appare subito che le idee sono considerate
delle entità che hanno esistenza indipendente dai soggetti che le
pensano. Eppure, le idee ci sono se qualcuno le pensa. Altrimenti
dovremmo giocoforza ammettere l’ontologi¬smo. È il “peccato” che viene
attribuito al grande Platone allorché avanza l’ipotesi dell’esistenza
di un Iperuranio in cui circolano tutte le idee corrispondenti alle
entità reali che sono e che saranno nel mondo sensibile. Gli esegeti
di Platone hanno di-scusso a lungo se questa ipotesi fosse, secondo il
Maestro, da allargare a tutte le enti-tà possibili, anche a quelle
ritenute sozze e innominabili o a quelle artificiali, ossia costruite
dall’animale uomo, come il tavolo o la sedia, il vaso o la casa, ecc.
I plato-nici ortodossi rispondono di sì, i platonici critici dicono
appunto che così facendo si cade nell’ontologismo con tutti i problemi
sulla libertà e sul libero arbitrio, sulla cre-atività ed il valore
della scienza ed altri ancora che esso comporta.
Non sono in grado di seguire la diatriba che, tutto sommato, non
interessa più di tanto ai fini del discorso qui condotto. A me sembra
che il problema della preesi-stenza delle idee al soggetto che le
pensa stia nel considerare la loro esistenza a livel-lo di potenza che
passa a livello di attualità quando l’idea incontra il soggetto che la
pensa e che cerca di perseguire i contenuti che la caratterizzano.
È la stessa situazione ipotizzata da Dewey per la nascita dei
problemi. Essi sono tutti presenti in potenza, così come gli individui
che li percepiscono divenendo così da individui con mente delle menti
individuali. Essi hanno avvertito un intoppo nel procedere della loro
esistenza e, pertanto, hanno posto il problema, gli hanno dato vita
così come quest’ultimo ha dato vita a loro.
Credo che il pericolo dell’ontologismo sia così evitato. Il
transazionismo dewe-yano recupera l’imprescindibilità della presenza
del soggetto e dell’oggetto contem-poraneamente. Essi sono perché si
pongono l’uno l’altro, anche se il prius logico e cronologico è
imputabile al soggetto che, fornito di energia percettiva e dinamica,
pone l’oggetto e nel momento stesso che lo pone quest’ultimo comincia
a trasforma-re il soggetto. Insomma, il soggetto è colui che fa la
prima mossa, in quanto tra le sue potenzialità c’è quella del pensiero
e, pertanto, quella di manifestare un punto di vi-sta tramite il
linguaggio. Ma, fino a quando non fa la mossa il soggetto è in potenza
e non in atto. Proprio come l’oggetto. Quando il soggetto pensa-parla
crea se stesso e l’oggetto. Senza linguaggio niente oggetto e niente
soggetto. E senza soggetto e sen-za oggetto niente scienza.


3.2. Idee e storicità, paradigma e modello

Ciò comporta, dunque, che il soggetto crea l’oggetto e se stesso – in
questo caso anch’esso come oggetto oltreché come soggetto – grazie al
linguaggio. Pertanto, la creazione dell’oggetto – il passaggio
dell’oggetto dalla potenza all’atto – prende vita allorché un soggetto
ne avverte la necessità – proprio come quando, secondo Dewey, avverte
il problema – e la possibilità logica e storica insieme. Sarà proprio
quest’ultima a determinare la sopravvivenza e la funzionalità di
quell’oggetto e, in particolare, di quella scienza legata a quel
determinato oggetto.
Insomma, quell’oggetto avrebbe potuto mostrarsi in tutte le altre
epoche, anche se si mostra solo quando si rivelano e i soggetti le
percepiscono e le condizioni mate-riali perché si possa mostrare.
Ritornando alle idee, il soggetto acquista ben presto nei loro
confronti una certa esperienza, giacché più volte si troverà a passare
e a far passare dalla potenza all’atto pensando una o più idee tra i
miliardi di miliardi di miliardi che esistono in potenza e che
attendono di passare all’atto e di far passare all’atto un soggetto.
La scienza ha bisogno delle idee, come sopra rimarcavo, ma ha bisogno
anche di essere essa stessa a portarle all’atto secondo la tensione
che la muove e non secondo canoni prestabiliti. Le idee in atto sono
delle realtà astratte perché il soggetto, in questo caso il
ricercatore, le ha dato loro vita grazie a meccanismi che si
articolano secondo la coerenza con il fine e la tensione che lo stanno
sollecitando. In altri ter-mini, per esemplificare, c’è in potenza
l’idea di tavolo o di una determinata scienza, ma non di quel tavolo
determinato o di quella determinata scienza. Queste prendono
consistenza solo quando entrano in rapporto con il soggetto e si vanno
via via artico-lando grazie all’attività di questo rapporto.
Pertanto, l’idea di Scienza dell’educazione è esistita in potenza,
come possibilità, prima che sia stata pensata da qualcuno, da qualche
soggetto particolare. Ma essa è divenuta un’idea in atto con una sua
incisività e una forza regolativa solo quando un soggetto l’ha
pensata.
Così si può dire per ogni idea che ha preso consistenza e che, grazie
al soggetto pensante, è divenuta un paradigma, ossia una entità
astratta perseguibile e mai rag-giungibile.
Il paradigma ha in sé la potenzialità di agganciarsi al modello che è
una entità concreta, uno strumento messo a punto in un determinato
periodo storico per perse-guire il paradigma stesso. Il modello, come
entità concreta e, quindi, contingente può essere trasformato,
cambiato o sostituito perché, per esempio, non ritenuto più ido-neo e
coerente al perseguimento del paradigma. Quest’ultimo, invece, può
subire certo delle trasformazioni interne, nel senso che i meccanismi
che si pensano quali componenti della sua struttura possono essere più
articolati e più dettagliati, ma non può essere sostituito senza
cancellare anche la scienza che lo supporta.
Resta il fatto che paradigma e modello – qualsiasi modello che cerca
di perseguirlo – sono sempre in stretta interazione, al punto che il
paradigma postula di ne-cessità il modello, pena il restare
logicamente difendibile ma funzionalmente nullo.
Ossia, senza la costruzione di uno o più modelli, il paradigma
resterebbe privo di ogni funzionalità, sarebbe autoreferenziale. La
sua efficacia prende avvio nel mo-mento in cui si cercano i mezzi più
idonei e più coerenti con i fini che indica per po-terli perseguire.
L’attività scientifica si nutre imprescindibilmente di questa costante
osmosi tra paradigma e modelli, tra fini e mezzi.
Ritengo che quanto qui ho esposto sia di una sufficiente chiarezza e
difendibilità logica circa il problema della fondazione della Scienza
dell’educazione. E, proprio in forza di queste caratteristiche, credo
che sia suscettibile di continui approfondimenti.

………………………………………………………………………………………………….

Un progetto interculturale per sconfiggere le povertà.

Franca Pinto Minerva


0. Premessa
Un dato drammatico, denunciato da ricorrenti ricerche oltre che da specifiche testimonianze fornite da numerosi organismi internazionali (come FAO, OCSE, ONG, UNICEF), è lo stato di insicurezza alimentare di larghe fasce di popolazione in numerosi paesi del mondo.
Sono i dati sulla fame e la malnutrizione di milioni di bambini che muoiono nel mondo prima di raggiungere i cinque anni di età, concentrati soprattutto nell'Africa sub-sahariana e nel Sud-Asia. A questi bambini si aggiungono i bambini delle favelas dell'America latina, delle periferie urbane delle grandi metropoli sparse nel mondo. Bambini costretti, già da piccoli, a cercare da soli o in piccoli gruppi di coetanei i primi generi di sopravvivenza e, spesso, a vivere fuori dal nucleo familiare di appartenenza, privi del sostegno di una qualsiasi figura adulta. Bambini, ancora, costretti al pesante sfruttamento del lavoro nero. Questi stessi studi testimoniano il forte e ricorsivo legame povertà-fame-istruzione e educazione.
Da una parte, povertà e malnutrizione ostacolano decisamente i processi di apprendimento e formazione. Le carenze, infatti, di alcuni elementi essenziali (ferro, vitamine, proteine) per lo sviluppo corporeo ma, più in particolare, cerebrale e mentale, danneggiano fortemente i meccanismi di apprendimento, di attenzione, di memorizzazione, di acquisizione delle conoscenze e di elaborazione del pensiero.
Dall'altra parte, la vulnerabilità fisica e cognitiva delle popolazioni, danneggiate dalla povertà e dalla malnutrizione, ostacola e rallenta in loro i processi di emancipazione, cioè di ricerca dell'indipendenza economica, sociale e culturale. Processi possibili, questi ultimi, solo se ancorati alla possibilità concreta di ridefinire rapporti di forza e modelli di sviluppo subalterni a interessi e scelte imposte dal mercato internazionale.
Si tratta, è evidente, di questioni complesse che chiamano in causa profondi mutamenti a livello di strategie economiche e sociali. Tuttavia, solo più alti gradi di istruzione e cultura sembrano essere in grado di sostenere, nelle popolazioni in difficoltà, quei processi di coscientizzazione politica e sociale che consentono loro di orientare e determinare le condizioni per contrastare i processi di dipendenza, di sfruttamento e di povertà. E, così facendo, consentire, in quelle stesse popolazioni, la progettazione del cambiamento auspicato.

1. Globalizzazione e commercializzazione della vita
Nell’analizzare l’ordine che caratterizza le moderne società dei consumi, Zygmunt Bauman ha chiaramente mostrato come i poveri e i ricchi della Terra – tanto quelli che abitano le contrade più lontane dalle geografie dell’Occidente industrializzato quanto quelli che convivono in ogni singola città del mondo – condividono una medesima cultura e come proprio da questa non si possa prescindere se si vuole aggredire seriamente la condizione di malessere in cui versano i poveri.
Ogni politica volta a fornire, a livello di interventi locali, un qualche genere di aiuto (economico, alimentare, sanitario, ecc.) a coloro che ne hanno bisogno è destinata al fallimento nella misura non ci si rende conto che le cause del malessere sono entità sociali globali.
“Il malessere non può essere spiegato – avverte Bauman – a partire dalle caratteristiche dei luoghi in cui si presenta, né da tratti particolari dei loro abitanti. Ogni tentativo di sconfiggere il malessere agendo su tali fattori interni (cioè agendo su ciò che le persone coinvolte dovrebbero o potrebbero fare) non può portare che a risultati transitori e scoraggianti. Il fenomeno verrà colpito nei suoi effetti, non nelle sue cause, e continuerà a riprodursi”
laddove invece i fattori su cui occorre soffermarsi sono i “fattori esterni”, ossia comuni all’intera popolazione del globo, che l’autore individua nella globalizzazione e nella commercializzazione della vita: “i giocatori sono tanti e diversi, ma il gioco è uno solo” .
Globalizzazione e commercializzazione della vita fanno sì che, per la prima volta nella storia, il riconoscimento sociale sia legato, non tanto, come in passato, alla capacità del soggetto di “produrre”, quanto alla sua capacità di “consumare”. In altre parole, sono considerati membri attivi della società solo coloro che possono consumare incessantemente, mantenendo in tal modo attivo il mercato e scongiurando la minaccia della recessione. I poveri, in questa prospettiva, sono innanzitutto “non-consumatori” o “consumatori inadeguati” e, come tali, “la loro colpa è quella di non partecipare pienamente alle attività di consumo di beni e servizi […]. I poveri sono un peso morto e una presenza totalmente improduttiva”.
Accade così che la disuguaglianza tra ricchi e poveri si identifichi sempre più nella distanza che passa tra coloro che sono indotti al consumo e che sono in grado di soddisfare i propri desideri e coloro che, pur desiderando consumare, non sono in grado di farlo. E accade anche che tale distanza, a dispetto di qualsiasi politica di welfare, vada vertiginosamente estendendosi. “I giocatori impotenti e indolenti devono essere tenuti lontani dal gioco. Essi sono gli scarti prodotti dal gioco, rifiuti che il gioco non smette mai di risputare fuori.”
L’emarginazione e l’esclusione dei poveri del mondo, la loro ghettizzazione e criminalizzazione all’interno della comune cultura dei consumi – o, meglio, dei “consumatori” – è evidente proprio nelle distanze che separano gli spazi vitali dei poveri da quelli dei ricchi. E tutto questo non solo allorché si considerino gli steccati che segnano i confini tra le popolazioni cosiddette “in via di sviluppo” e quelle cosiddette “sviluppate” ma anche, e in maniera forse ancora più eclatante, osservando l’assetto urbano delle nostre stesse città. Qui i residenti ricchi vivono in aree privilegiate e protette molto diverse, seppure talora confinanti, ai quartieri dove abitano i residenti poveri.

2. Soggetti poveri. Soggetti inessenziali e superflui.
In questa prospettiva, appare di sorprendente attualità quanto affermato da Hannah Arendt a proposito della società dei campi di concentramento:
“Il tentativo totalitario di rendere superflui gli uomini riflette l’esperienza delle masse moderne, costrette a constatare la loro superfluità su una terra sovrappopolata. La società dei morenti, in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza” .
Con la differenza che, mentre l’insensatezza e la superfluità vissuta dai reclusi nei campi di concentramento si collegava al loro totale sradicamento da luoghi e persone che segnavano il loro senso di appartenenza al mondo dei vivi, con Bauman possiamo dire, invece, che la superfluità e l’insensatezza dei poveri del mondo si colleghi, oggi, al loro totale radicamento – un vero e proprio confinamento – in comunità locali di “non-consumatori”, chiuse e incomunicabili rispetto al mondo delle popolazioni ricche.
In qualunque contrada geografica i poveri del mondo oggi vivano, la loro esistenza è percepita come inessenziale. Il che è come dire che l’80 per cento della popolazione mondiale è percepita come superflua rispetto al 20 per cento, ossia quella piccola fetta di umanità che detiene l’80 per cento della ricchezza mondiale e che, grazie alla sua possibilità di partecipare pienamente alle attività di consumo di beni e servizi, pilota il funzionamento del mondo dei consumi.
Tale percezione è diffusa nelle società ricche a dispetto di una ulteriore e paradossale evidenza. A ben vedere, infatti, l’attribuzione di superfluità comprende non solo le povertà estreme – le situazioni, cioè, di tale miseria, fame e malattia che impediscono agli individui di partecipare alle attività produttive – bensì la povertà tout court, ossia i milioni di individui che, in ogni parte del mondo, contribuiscono col proprio lavoro alla produzione mondiale ma non al processo dei consumi!
La fotografia dell’esistente, dunque, ci mostra una realtà duplicemente drammatica. Da una parte, ci mostra una realtà contrassegnata da forti ineguaglianze delle condizioni di vita che, tanto nei paesi opulenti quanto in quelli del terzo e quarto mondo, non solo non paiono avviate ad attenuarsi ma, al contrario, continuano ad approfondirsi. Dall’altra parte, ci mostra come, nelle nostre società opulente, si accentui la tendenza a sottacere la questione di tali ineguaglianze.
A fronte di tutto questo, emerge la radicale incapacità, da parte dell’Occidente opulento, a “pensare la povertà”, ossia a farsi carico delle ineguaglianze che accompagnano il “predominio dell’economia” come valore assoluto e dominante, e a pensarla quale fenomeno co-essenziale a quello dell’opulenza stessa. All’interno, cioè, dei quadri concettuali del neo-liberalismo imperante, non trova margini di problematizzazione il meccanismo per cui la crescita del benessere per certi segmenti della popolazione mondiale produce, per altri e ben più estesi segmenti, la crescita di malessere, miseria, malattia e morte.
È un deficit di pensiero che va a braccetto, probabilmente, con quel processo di riduzione alla condizione di superfluità, operato nei confronti dei poveri, di cui prima si è detto.

3. “Capacitazioni” e responsabilità della formazione
Un punto di vista che mi pare assai utile per poter affrontare pedagogicamente la complessità delle questioni connesse al misconoscimento delle ineguaglianze esistenti fra popolazioni ricche e popolazioni povere della Terra è quello per il quale l’ineguaglianza e la povertà sono “incapacitazioni”.
Si tratta di una posizione avanzata da Amartya Sen in contrasto con le tesi di gran parte della scienza economica che identifica la povertà con la sola scarsità di reddito. Con ciò sottovalutando l’importanza di privazioni legate ad altre importanti variabili, caratterizzanti la qualità della vita, quali la mancanza di istruzione, la cattiva salute, le occasioni sociali, le libertà politiche ecc.. La povertà economica, in altri termini, lungi dal dovere essere identificata come pura e semplice scarsità di reddito va considerata come mancanza di “capacitazioni” di base, ossia delle capacità (che la società dà o nega) di scegliersi una vita cui si dia, a buona ragione, valore.
“La ‘capacitazione’ di una persona – scrive Sen – non è che l’insieme delle combinazioni alternative di funzionamenti che essa è in grado di realizzare. È, dunque, una sorta di libertà: la libertà sostanziale di realizzare più combinazioni alternative di funzionamenti (o, detto in modo meno formale, di mettere in atto più stili di vita alternativi). Un benestante che digiuni, per esempio, può anche funzionare, sul piano dell’alimentazione, allo stesso modo di un indigente costretto a fare la fame, ma il primo ha un ‘insieme di capacitazioni’ diverso da quello del secondo (l’uno può decidere di mangiare bene e di nutrirsi adeguatamente, l’altro non può)” .
Pertanto, al di là da visioni anguste della povertà, una comprensione più profonda delle sue cause e della sua natura comporta il riconoscimento delle forti connessioni empiriche che tengono legati diversi fattori strumentali che influenzano lo sviluppo delle capacitazioni sostanziali degli individui:
“Le libertà politiche (diritto di parola, libere elezioni) contribuiscono a promuovere la sicurezza economica; le occasioni sociali (sotto forma di strutture scolastiche e sanitarie) agevolano la partecipazione economica; l’infrastruttura economica (sotto forma di possibilità di avviare un’attività commerciale o produttiva) può contribuire a produrre sia prosperità personale, sia risorse pubbliche da destinare ad attività sociali. Libertà di tipo diverso possono consolidarsi reciprocamente.”

4. Ruolo e responsabilità Di una educazione interculturale
Nel quadro appena brevemente delineato, la formazione può incidere sulla promozione per tutti di un pensiero interculturale in grado di riconoscere i dispositivi economici, politici, sociali e culturali che contribuiscono a determinare la ineguaglianza delle capacitazioni sostanziali degli individui e in grado anche di contrapporsi criticamente e costruttivamente a tali discriminazioni. Si tratta di un ruolo che va giocato su due piani diversi e integrati:
a. Il piano, che coinvolge oggi primariamente le popolazioni dei Paesi ricchi, attraverso cui promuovere la diffusione di un pensiero critico e problematico in grado di identificare i legami di dipendenza tra povertà e opulenza; riflettere sulle molteplici e interrelate articolazioni causali a cui il fenomeno della povertà si trova agganciato; individuare e combattere le radici profonde della disparità e dell’ingiustizia; conquistare la solidarietà nei termini del riconoscimento dell’altro in situazione di difficoltà e di rischio; riconoscere l’altro “superfluo” come essere umano.
b. Il piano che una consolidata tradizione pedagogica democratica assegna da sempre alla formazione, ossia quello di fornire a tutti i soggetti e, in particolare, ai soggetti svantaggiati della Terra, le strumentalità cognitive e conoscitive indispensabili per l’attivazione dei processi di autoemancipazione e autodeterminazione. Condizioni ineludibili, queste, per la liberazione dalle molteplici forme di dipendenza (economica, sociale e culturale). Si tratta di garantire ai poveri della terra gli strumenti linguistici di base per prendere coscienza di se stessi, del proprio mondo di vita, della propria storia di sfruttamento e subordinazione. È attraverso la conquista dei codici, degli alfabeti e dei saperi che è infatti possibile, seguendo le esperienze già realizzate da educatori come Freire e don Milani, accedere ai luoghi della partecipazione politica, economica e tecnologica e rivendicare, così, il senso della propria presenza.
…………………………………………………………………………………………………..

Una politica scolastica per le Regioni.

Gian Carlo Sacchi

Competizione e coesione sono senz’altro le caratteristiche della società emiliano-romagnola, che però possono essere ampliate ad altre regioni. Esse hanno indirizzato uno sviluppo attento non solo alla dimensione economica, ma anche all’equa distribuzione delle risorse e delle opportunità, consentendo il miglioramento della qualità della vita e la costituzione del “capitale sociale”. In tale ottica si va facendo sempre più largo una nuova cittadinanza che comprende persone provenienti da diverse parti del mondo.
Terminata la “guerra fredda” si credeva ad un momento di massimo godimento di tali valori, anche per il conseguito maggior benessere materiale, viceversa sembra di regredire, emerge un nuovo tipo di conflittualità dovuto all’individualismo ed alla tutela dei risultati raggiunti, sempre più difficili da condividere.
Chi ha amministrato in questa prospettiva ha considerato il bene comune non soltanto come un obiettivo etico, ma una concreta modalità di programmazione e gestione della cosa pubblica.
La rete dei servizi alla persona, ad esempio, e la funzione delle istituzioni territoriali hanno costituito la protezione per i lavoratori, per i più deboli, ma hanno anche sostenuto la ricerca e l’innovazione.
Per costoro l’investimento sulla formazione costituiva il motore principale dello sviluppo del territorio, oltre che un’opportunità di crescita per i cittadini.
Partiamo dall’Emilia-Romagna. Qui si può riscontrare una qualità diffusa del servizio nonostante la spesa statale sia inferiore ad altre Regioni: sarebbero quelle “Regioni virtuose” di cui si parla in tema di federalismo fiscale ?
Si tratta di rafforzare la governance territoriale, tra enti locali, istituzioni scolastiche, aggregazioni sociali, imprese, in un quadro di sussidiarietà, per evitare che il diritto dei soggetti all’educazione ed allo studio venga condizionato dalla loro realtà sociale: difficoltà economiche, immigrazione, ecc.
Si va consolidando anche un’azione di rete tra le scuole e tra queste ed altre agenzie educative del territorio, al fine di qualificare il servizio stesso attraverso attività di informazione, documentazione e sostegno alle professionalità del settore.
E’ un sistema formativo aperto, che si integra con il proprio tessuto sociale di riferimento e si confronta con i soggetti esterni, con il mondo del lavoro, attraverso sempre crescenti esperienze di alternanza; valorizza la diversità delle provenienze, ma nello stesso tempo rafforza la sua identità storica e culturale.
“Se si entra nelle nostre scuole – si dice nel rapporto regionale del 2008 sul sistema educativo – si respira un’atmosfera di continuo movimento, una didattica attiva, che coinvolge in primo luogo gli studenti, chiamati quotidianamente ad esperienze di vita , non strettamente legate all’apprendimento delle materie tradizionali, bensì più aperte a contesti reali…”
I servizi per l’infanzia raggiungono i parametri di Lisbona, c’è un notevole impegno per l’integrazione dei soggetti disabili, si insiste molto sulla formazione continua e permanente, viene registrata un’elevata presenza di tempi scolastici lunghi nel diversi gradi ed indirizzi.
L’investimento è notevole, come accade un po’ in tutte quelle regioni d’Italia e d’Europa nelle quali il sistema formativo è strettamente collegato a quello economico e dove la qualità della formazione interessa processi di partecipazione sociale, a partire dal livello locale.
Una forte azione di presidio non è però esente da criticità, non tanto per gli aspetti strutturali, quanto per quelli che sono più legati alle persone, alle condizioni di vita, alle motivazioni e relazioni.
Si tratta infatti:
- della demotivazione dei docenti per la mancanza di risposte istituzionali rispetto all’efficienza del sistema, alla considerazione sociale del loro lavoro, nonché per una delega pressoché totale da parte della famiglia, spesso assente o indifferente sul piano educativo;
- di un corto circuito tra condizione familiare, risultati scolastici nella scuola di base e scelta fortemente stratificata dell’indirizzo delle superiori. A ciò aggiungasi bassi livelli di apprendimento registrati dalle indagini internazionali e i risultati finali del percorso formale degli studi;
- di patti educativi territoriali che pongono più l’accento su ciò che è aggiuntivo che sul core – curriculum;
- della separazione tra i percorsi di istruzione e di formazione professionale, soprattutto in relazione all’elevazione dell’obbligo di istruzione ed all’equità dei curricoli;
- l’aumento dell’abbandono più che altro nel passaggio tra scuola secondaria di primo e secondo grado;
- della difficoltà a generalizzare un percorso verticale integrato 0 – 14 anni, con l’ampliamento degli istituti comprensivi;
- la tendenza al calo delle prestazioni in italiano e matematica nella scuola primaria;
- i risultati problematici negli apprendimenti dei quindicenni; grande distanza tra licei e istituti professionali;
- un’ancora troppo debole formazione degli adulti in relazione alle richieste europee;
- la mancanza di un progetto strategico di formazione superiore non accademica.

Basterebbe per costruire una politica scolastica regionale; non è venuto meno il quadro valoriale, la casa si presenta ancora bene, ma rischia di crollare, perché si indeboliscono le strutture portanti. Se poi si pensa al rapido progresso delle conoscenze, all’internazionalizzazione delle relazioni e che dalla crisi economica si potrà uscire con l’innovazione, allora occorre porre mano rapidamente a politiche pubbliche su base regionale di rilancio del sistema formativo territoriale che è quello che è più direttamente coinvolto dal cambiamento e dal disagio.
La diminuzione di risorse finanziarie del governo, sia direttamente alle scuole, sia sugli enti locali certamente non aiuta a ripartire, ma sono le elezioni regionali il momento per compiere una riflessione complessiva su come cambiare anche il modello di governo e di finanziamento del sistema.
Occorre infatti, come ha ben detto il documento del PD bolognese, un “piano regolatore” della rete educativa, che vada dagli edifici ai contenuti, pensato e realizzato insieme, a partire dalle proposte culturali che devono essere in capo alla ricerca autonoma delle scuole.
Le Regioni non possono nascondersi rispetto alla qualità di questi servizi: ognuno deve fare la sua parte; si potranno prevedere fondi compensativi, di fronte però a precise strutturazioni e impegni di costante miglioramento.
Bisognerà lavorare sugli standard (livelli essenziali delle prestazioni), vedere quanto costano (costi standard) e chi mette le risorse. Siamo troppo abituati a ricevere dall’alto queste cose già trasformate in adempimenti e contributi; ora la forbice si va allargando ed il centralismo nuocerà sia a chi si sente irretito ed a chi vuole continuare ad essere assistito.
Saranno in grado le nuove Regioni di dare una svolta all’ammodernamento del sistema ? Per ora i comportamenti sono disomogenei per territorio e parte politica. Ma quello che veramente rischia di mandare tutto all’aria è la gestione del personale. C’è una visione centralistica che ironizza sulla capacità delle Regioni di affrontare la questione, ce n’è una, regionalistica, che avanza a suon di intese con lo Stato, ma ci sono ancora troppi giudizi sospesi.