giovedì 22 aprile 2010


Numero quattro
I contributi


“Riforma della scuola” non sfugge al difficile impegno per la laicità, oggi senza una adeguata rappresentanza nella sede politica.
Osvaldo Roman scrive del tema della parità nelle possibilità di essere giudicati di tutti gli alunni, che si avvalgano o meno dell’Insegnamento della Religione Cattolica.
Siamo pronti su questi argomenti, già affrontati da Rosanna Facchini nei numeri precedenti, ad aprire un dibattito che abbia la finalità di superare i conflitti, ma nella chiarezza della problematica e la salvaguardia attenta dei diritti al pluralismo di fronte al tema religioso. Attendiamo contributi.

Marco Mazzoli affronta le controriforme in atto nell’ottica di un economista. Così Giancarlo Sacchi scrive del rapporto fra la crisi economica e la “corsa” alla formazione.
Infine Rossella D’Ugo e Mauria Bergonzini, fra la storia della propria esperienza e riflessioni sulla condizione della scuola e della formazione, scrivono due “lettere aperte” al maggior partito dell’opposizione. Il testo è quello dei loro interventi alla recente presentazione della candidatura a Segretario del PD di Bologna di Raffaele Donini.


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IRC. ALTERNATIVE

UNA SENTENZA CONTRADDITTORIA, MA CHE IMPEGNA IL GOVERNO A GARANTIRE LE ATTIVITÀ ALTERNATIVE

Osvaldo Roman

Con la sentenza n. 7076 del 17 luglio 2009 il Tar del Lazio aveva accolto due ricorsi proposti per l'annullamento delle Ordinanze ministeriali per gli esami di Stato del 2007 e 2008 che prevedevano la valutazione della frequenza dell'insegnamento della religione cattolica (IRC) ai fini della determinazione del credito scolastico.
La recente sentenza del Consiglio di Stato del 7 maggio 2010 ribalta quello scenario e accoglie i ricorsi contro le decisioni del TAR.
Si deve innanzitutto rilevare che tale sentenza attualizza quelle pronunciate nel 1989 e nel 1991 dalla Corte Costituzionale sull'insegnamento della religione cattolica. In esse è chiaramente espresso che:
∙ “i principi supremi dell’ordinamento costituzionale hanno una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi”;
∙ la laicità dello Stato è un principio supremo, che definisce la forma di Stato delineata nella nostra Carta Costituzionale;
∙ la scelta di non avvalersi dell'IRC non produce alcun obbligo: “La previsione di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione”.
Ne consegue pertanto che:
1) l’IRC non concorre a definire la media dei voti che, secondo la Tabella allegata al DPR 323 del 23/07/1998, concorre alla definizione dei punteggi per i crediti scolastici;
2) il punteggio per il credito scolastico viene quindi determinato sulla base della media dei voti conseguiti (quindi nelle materie che danno luogo a voti), con un oscillazione aggiuntiva che viene determinata in considerazione dell'assiduità della frequenza scolastica, dell'interesse e dell'impegno nella partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari ed integrative, nonché degli eventuali crediti formativi;
3) l’IRC non concorre ai crediti formativi acquisiti esternamente alla scuola e non rientra neppure, per il proprio statuto, tra le materie complementari ed integrative.
La Sentenza del Consiglio di Stato, che minuziosamente ripercorre i punti precedentemente descritti, non ritiene però discriminatorio, per i ragazzi che non frequentano materie alternative o hanno scelto di non svolgere alcuna attività, che l’IRC venga valutato ai fini del credito scolastico sia pur per la quota di punteggio aggiuntivo che viene attribuito dal Collegio dei docenti nell’ambito della banda di oscillazione: si tratta, in genere, di un punto ogni anno. Il Consiglio di Stato peraltro, nel confermare quanto stabilito dal Concordato circa la valutazione dell'IRC mediante un giudizio, sbarra la strada a qualsiasi ipotesi di "voto in religione" e al suo concorso alla media dei voti. Purtroppo di media hanno parlato quasi tutti i giornali che in genere non leggono le Sentenze.
Inoltre, il Consiglio di Stato si sforza, a nostro parere invano, di dimostrare che tale punteggio aggiuntivo potrebbe essere conseguito anche da parte di chi non si avvale dell’IRC. E’ per questa ragione che esprime un severo monito contro le inadempienze ministeriali che diffusamente in tutte le scuole del nostro paese ignorano le richieste di attivazione delle materie alternative in violazione del Concordato.
E’ un argomento questo su cui la Gelmini, anche in risposta a specifiche interrogazioni parlamentari, dovrà pronunciarsi al più presto.
Un’analisi puntuale del testo della Sentenza è necessaria per comprendere con precisione il tipo di valutazioni che hanno portato la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ad assumere tale decisione.
Le parti in causa erano:
-per l’annullamento della decisione del TAR Lazio : il Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca, Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato e, mediante la presentazione di un ricorso incidentale, la Conferenza Episcopale Italiana.

-a sostegno della medesima un vasto e articolato schieramento di associazioni, Chiese e centri di ricerca, singole personalità.

Il Governo e la CEI avevano dedotto nei loro ricorsi le seguenti motivazioni:
a) l’inammissibilità del ricorso di primo grado per difetto di legittimazione e per difetto di interesse degli originari ricorrenti (associazioni e studenti);
b) l’inammissibilità del ricorso per omessa notifica ai controinteressati (da individuarsi negli studenti che abbiano optato per l’insegnamento della religione cattolica o per gli insegnamenti alternativi, oltre che negli insegnanti di religioni)
c) l’erroneità nel merito della sentenza, rilevando che in base alle disposizioni vigenti l’insegnamento della religione cattolica non può che essere valutato ai fini dell’attribuzione del credito scolastico, specie alla luce del disposto dell’art. 11, comma 2, d.P.R. n. 323/1998;
l’assenza di qualsiasi violazione ai principi costituzionali della libertà religiosa e di laicità dello Stato.
Il Consiglio di Stato ha respinto tutte queste eccezioni di ammissibilità e si è pronunciato nel merito
Al riguardo, ha preso le mosse, dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che si è occupata dell’insegnamento della religione cattolica e dalle norme che lo prevedono.
Innanzitutto il Consiglio ha richiamato la norma fondante l’insegnamento della religione cattolica in Italia e cioé l’art. 9, numero 2, dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede (ratificato ed eseguito dall’Italia con la legge n. 121 del 1985).
Tale disposizione normativa si compone di tre proposizioni.
La prima afferma che "la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”.
La seconda specifica che “nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento”.
La terza prevede che “all'atto dell'iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell'autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.
Fatta questa premessa il Consiglio ha ricordato come la Corte costituzionale, nella storica sentenza n. 203/1989, abbia confermato che con questa terza proposizione il principio di laicità è in ogni sua implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la scelta non dia luogo a forma alcuna di discriminazione.
Il Consiglio a questo proposito ricorda anche che “la Corte specifica che dal principio di non discriminazioni ivi consacrato deriva che “la previsione come obbligatoria di altra materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro danno, perché proposta in luogo dell'insegnamento di religione cattolica, quasi corresse tra l'una e l'altro lo schema logico dell'obbligazione alternativa, quando dinanzi all'insegnamento di religione cattolica si è chiamati ad esercitare un diritto di libertà costituzionale non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di coscienza, ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche. Lo Stato è obbligato, in forza dell'Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l'insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l'esercizio del diritto di avvalersene crea l'obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non avvalersene l'alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l'esercizio della libertà costituzionale di religione”.
Fatta questa premessa, molto importante perché essa appare spesso dimenticata nella recente produzione normativa del MIUR, là dove si cancella, per la scuola dell’obbligo, l’opzione per i non avvalentisi di poter non svolgere alcuna attività in alternativa e di poter non permanere nella scuola durante l’insegnamento concordatario, il Consiglio di Stato richiama anche la successiva sentenza n. 13 del 1991.
In essa la Corte aggiunge che “il valore finalistico dello <>, è di non rendere equivalenti e alternativi l'insegnamento di religione cattolica ed altro impegno scolastico, per non condizionare dall'esterno della coscienza individuale l'esercizio di una libertà costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l'interiorità della persona.
Non è pertanto da vedere nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi una causa di disincentivo per le future scelte degli avvalentisi, dato che le famiglie e gli studenti che scelgono l'insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall'offerta di opzioni diverse. Va anzi ribadito che dinanzi alla proposta dello Stato alla comunità dei cittadini di fare impartire nelle proprie scuole l'insegnamento di religione cattolica, l'alternativa è tra un si e un no, tra una scelta positiva ed una negativa: di avvalersene o di non avvalersene. A questo punto la libertà di religione e garantita: il suo esercizio si traduce, sotto il profilo considerato, in quella risposta affermativa o negativa. E le varie forme di impegno scolastico presentate alla libera scelta dei non avvalentisi non hanno più alcun rapporto con la libertà di religione. Lo <> vale dunque a separare il momento dell'interrogazione di coscienza sulla scelta di libertà di religione o dalla religione, da quello delle libere richieste individuali alla organizzazione scolastica”.
Partendo da tali preziosi insegnamenti del Giudice delle leggi, Il Consiglio di Stato, a mio parere erroneamente da una risposta negativa al quesito se le ordinanze ministeriali impugnate si pongano in contrasto con i principi costituzionali in materia di libertà religiosa, discriminando, coloro che non scelgono nessuna attività formativa alterativa, ed interferendo, quindi, sulla loro libertà di scelta in materia religiosa.
Per giungere a tale valutazione il Consiglio innanzitutto rileva che nessun passaggio delle motivazioni delle citate sentenze costituzionali consente di escludere che la condotta scolastica tenuta dall’alunno che decida di avvalersi dell’insegnamento della religione o di un insegnamento alternativo possa essere oggetto di valutazione e rilevare così ai fini del giudizio finale.
Anzi, sotto alcuni profili, le citate sentenze costituzionali contengono elementi a favore della legittimità della scelta ministeriale.
A questo proposito l’accurata ricostruzione operata dal Consiglio della dottrina Costituzionale presenta un buco abbastanza clamoroso che lo stesso Consiglio in sede di controllo sugli atti aveva già commesso esaminando il regolamento sulla valutazione.
Il Consiglio ritiene che le principali statuizioni della Corte possano essere così sintetizzate:
a) l’alternativa all’insegnamento della religione cattolica non può essere l’obbligo di seguire un corso alternativo (dato che altrimenti ricorrerebbe lo schema dell’obbligazione alternativa e la facoltatività dell’insegnamento religioso non sarebbe rispettata), ma non può che essere uno “stato di non obbligo”, che può avere tra i suoi contenuti anche quello di non presentarsi o allontanarsi da scuola;
b) nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi non può vedersi una causa di discriminazione indiretta nei confronti di quanto scelgano di avvalersi della religione o un fattore che può interferire nella loro scelta (un cattolico potrebbe scegliere di non seguire l’ora di religione pur di avere un minore impegno scolastico), perché le famiglie e gli studenti che scelgono l'insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall'offerta di opzioni diverse;
c) assicurata la scelta tra avvalimento e non avvalimento, la libertà di religione è assicurata e le varie opzioni presentate ai non avvalentisti non hanno alcun rapporto con la libertà di religione;
d) l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo, ma, precisa la Corte costituzionale con la sentenza n. 203/1989, l'esercizio del diritto di avvalersene crea l'obbligo scolastico di frequentarlo.
Il Consiglio valuta che da queste sentenze non si può dedurre l’illegittimità dell’ordinanza ministeriale che consente la partecipazione agli scrutini degli insegnanti di religione o dei corsi alternativi frequentati dai non avvalentisi.
Ciò in quanto “non si può dire che tale partecipazione andrebbe ad interferire con lo “stato di non obbligo”, condizionando la libertà di scelta di coloro che non decidono di non seguire alcuna attività alternativa, o discriminandoli in sede di giudizio scolastico.”
Per il Consiglio non esiste infatti alcun condizionamento, né alcuna discriminazione.
Ed è interessante esaminare il parallelo che questo organismo pone tra gli effetti che potrebbero reciprocamente intercorrere tra le scelte dei non avvalentesi e quelle di coloro che di avvalgono dell’IRC.
Al riguardo il ragionamento raggiunge livelli di capziosità non tollerabili.
Infatti si sostiene in sostanza che come non sono discriminati gli avvalentisi per il minor impegno e addirittura per la non permanenza a scuola dei non avvalentisi così non possono essere considerati discriminati questi ultimi per il fatto che l’insegnante di religione (o l’insegnante di corsi alternativi) partecipi alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico.
Insomma il Consiglio di Stato mette sullo stesso piano, o meglio nei due piatti della bilancia, da una parte il beneficio del disimpegno dal sostenere l’onere di un insegnamento (l’IRC) e quello di ottenere un punteggio aggiuntivo nel conferimento dei crediti scolastici.
Quasi dimostrando la consapevolezza della precarietà di tale assunto il Consiglio prosegue nell’approfondimento della materia.
E lo fa innanzitutto escludendo “che una valutazione così importante e profonda possa dipendere dalla mera possibilità di avere un vantaggio in sede di attribuzione del credito scolastico. Vantaggio che, fra l’altro, è del tutto eventuale, sia perché, lo studente non avvalentesi che sia comunque meritevole in tutte le altre materie può raggiungere il massimo punteggio in sede di credito scolastico, sia perché il giudizio dell’insegnante di religione (o del corso complementare) potrebbe essere anche negativo (e quindi incidere negativamente credito scolastico).”
In realtà il vantaggio non è affatto eventuale ma certo se di considerano, come poi farà il Consiglio nella parte finale della motivazione della Sentenza, le condizioni che vengono offerte ai non avvalentisi dell’IRC che volessero usufruire delle materie alternative.
Il Consiglio cerca di motivare questa sua conclusione, che esclude gli effetti discriminatori dalla valutazione dell’IRC ai fini della determinazione del punteggio per i crediti scolastici approfondendo due ordini di questioni.
Innanzitutto la circostanza, rilevata dalla Corte costituzionale,che l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo solo nel senso che di esso si ci può non avvalere, ma una volta esercitato il diritto di avvalersi diviene un insegnamento obbligatorio. Nasce cioè l’obbligo scolastico di seguirlo, ed è allora ragionevole che il titolare di quell’insegnamento (a quel punto divenuto obbligatorio) possa partecipare alla valutazione sull’adempimento dell’obbligo scolastico. Le stesse considerazioni valgono per gli insegnamenti alternativi che, una volta scelti, diventano insegnamenti obbligatori.
In questo modo di ragionare del Consiglio si possono rilevare due aspetti.
Uno totalmente innovativo, mai pronunciato prima, che considera obbligatori gli insegnamenti alternativi qualora richiesti. Si tratta di un principio che impegnerà il Consiglio in ulteriori interessanti approfondimenti.
Un altro che riguarda il diritto del docente di R.C di partecipare ad ogni valutazione di quello che è un obbligo scolastico.
A tale riguardo la Sentenza richiama l’art.309 del T.U. ma singolarmente omette di citare l’integrazione che questo articolo, derivante dalla prima formulazione dell’Intesa, ha avuto in sede di modifica della medesima. Infatti la modifica dell’Intesa M.P.I.-C.E.I. di cui al DPR 202/90 e la C.M. n. 9/1991 precisavano, dando attuazione alle previsioni di non discriminazione stabilite dalle allora recenti Sentenze dell’Alta Corte, che “nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’insegnante di RC, se determinante, diviene un giudizio motivato iscritto a verbale”.
Ciò significa che quel diritto del docente di RC di partecipazione alla valutazione non è assoluto ma ha dei limiti.
Voglio sottolineare il fatto che la medesima Sezione del Consiglio di Stato non si è accorta al riguardo che nel DPR n. 122 del 19 agosto 2009. é accaduto che la Gelmini ha “modificato” il Concordato con la Santa Sede. Si tratta di quanto previsto al comma 4, articolo 2, e al comma 3 dell’articolo 4 del suddetto Regolamento. Infatti, essi stabiliscono che :
”La valutazione dell’insegnamento della religione cattolica resta disciplinata dall’articolo 309 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, ed è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche all’intesa di cui al punto 5 del Protocollo addizionale alla legge 25 marzo 1985, n. 121.”
Si ignora in tal modo che il decreto del Presidente della Repubblica 16 dicembre 1985, n. 751 recante l’esecuzione dell'Intesa tra l'autorità scolastica italiana e la conferenza episcopale italiana per l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, ha subito una successiva revisione, il 13 giugno 1990, regolarmente concordata tra le parti contraenti del Concordato che apporta una modifica aggiuntiva al punto 2.7 della stessa Intesa.
In seguito a tale modifica aggiuntiva il punto 2.7 é divenuto il seguente:

2.7 I docenti incaricati dell'insegnamento della religione cattolica fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti, ma partecipano alle valutazioni periodiche e finali solo per gli alunni che si sono avvalsi dell'insegnamento della religione cattolica.(art.309 T:U.)
Nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’IRC, se determinante, diviene giudizio motivato iscritto a verbale
La modifica dell’Intesa citata stabiliva che tale voto fino a quando non è determinante, poteva continuare ad essere espresso. Nei casi in cui fosse stato determinante “diviene” (si badi bene c’è scritto diviene!) giudizio motivato iscritto a verbale. Questa interpretazione riconosciuta ufficialmente dall’allora ministro Lombardi è contestata da settori della dirigenza ministeriale e scolastica, ma non è stata mai stata sconfessata ufficialmente dalla CEI.
E’ evidente che il richiamo di questa disposizione avrebbe messo in crisi l’interpretazione del Consiglio sul diritto d’illimitata partecipazione alla valutazione di un’attività divenuta obbligatoria dopo la scelta.
Il Consiglio sviluppa poi un secondo ordine di considerazioni per dimostrare in concreto l’assenza di quella che invece, a mio parere, è un’evidente discriminazione.

Sostiene infatti il Consiglio “che non vi sarebbe alcuna discriminazione a carico dei non avvalentisi che non optano per insegnamenti alternativi, in quanto questi hanno le stesse possibilità di raggiungere il massimo punteggio in sede di attribuzione del credito scolastico rispetto agli studenti che seguono l’ora di religione o gli insegnamenti alternativi.
Il credito scolastico, infatti, è il punteggio per l’andamento degli studi, e risente, in primo luogo, della media dei voti riportati dallo studente, e poi della condotta e delle attività svolte dallo studente durante il corso dell’anno. Pertanto, uno studente che, pur non avvalendosi dell’insegnamento della religione e non optando per insegnamenti alternativi, abbia comunque un alto rendimento scolastico riuscirà ugualmente a raggiungere il massimo in sede di attribuzione del credito scolastico, senza essere in alcun modo pregiudicato o discriminato in conseguenza della scelta fatta nell’esercizio della libertà religiosa.”
Quindi la tesi conclusiva del Consiglio è che “ di questo giudizio si debba tener conto deriva dal fatto che, per chi si avvale, l’insegnamento della religione diventa insegnamento obbligatorio. Ne discende la necessità di valutare in senso positivo o negativo, come quell’obbligo scolastico sia stato adempiuto.
Non farlo rischierebbe di dare luogo ad una sorta di discriminazione alla rovescio, perché lo stato di “non obbligo” andrebbe ad estendersi anche a coloro che invece hanno scelto di obbligarsi a seguire l’insegnamento della religione cattolica o altro insegnamento alternativo.
In altri termini, l’insegnamento non è obbligatorio per chi non se ne avvale, ma per chi se ne avvale è certamente insegnamento obbligatorio: la libertà religiosa dei non avvalentisi non può, quindi, arrivare a neutralizzare la scelta di chi, nell’esercizio della stessa libertà religiosa, ha scelto di seguire quell’insegnamento e che, dunque, ha il diritto-dovere di frequentarlo e di essere valutato per l’interesse e il profitto dimostrato.”
Inoltre il Consiglio segnala che non sarebbe corretto sostenere “che per effetto delle ordinanze in questione l’insegnamento della religione dia, per ciò solo, diritto ad un credito scolastico. Al contrario, le ordinanze ministeriali prevedono soltanto che nella valutazione dello studente, si tenga conto anche dell’interesse con cui ha seguito l’ora di religione (o di corso alternativo), sul presupposto, avallato dalla stessa giurisprudenza costituzionale, che, effettuata la scelta, nasca un obbligo scolastico il cui adempimento da parte dello studente deve essere oggetto di valutazione.
A favore di tale conclusione deporrebbe, a livello legislativo, la previsione dell’art. 309 d.lgs. n. 297/1994 che, come ricordato anche dalla Corte costituzionale (n. 390/1999), stabilisce che gli insegnanti di religione “fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti”.
Ma come si è visto si tratta di una citazione monca di tale articolo del testo Unico che di fatto è stata integrato dalla ricordata integrazione dell’Intesa.
Il Consiglio non ravvisa neanche un contrasto con l’art. 205, comma 4, d.lgs. n. 297/1994, ai sensi del quale “per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Gli originari ricorrenti hanno sostenuto che da questa norma deriverebbe il divieto per gli insegnanti di religione cattolica di dare voti, il che escluderebbe la possibilità di partecipare alle sedute del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico e di prendere in considerazione il loro giudizio.
Il Consiglio però non condivide tale tesi.
Ciò in quanto “le ordinanze in questione non prevedono, infatti, che l’insegnante di religione attribuisca un voto, ma solo che nell’attribuzione del punteggio, nell’ambito dalla banda di oscillazione, si tenga conto del giudizio (non del voto appunto) riguardante l’interesse con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ovvero l’attività alternativa e il profitto che ne ha tratto. In altri termini, quella “speciale nota” cui fa riferimento l’art. 205, comma 4, cit. pur non potendosi tradurre in un voto numerico contiene necessariamente un giudizio sull’attività svolta dall’alunno. Le ordinanze in questione si limitano a prevedere che tale giudizio diviene ora uno degli elementi valutabile ai fini dell’attribuzione del punteggio nell’ambito della sola banda di oscillazione prevista dalla tabella allegata al D.P.R. n. 323/1998 che, all’art. 11, disciplina il credito scolastico”.
L’attribuzione del credito scolastico è la media dei voti (in questa fase non rileva quindi il giudizio dell’insegnate di religione e di altre corsi alternativi che non esprimono propriamente un voto).E su questo quadro normativo che intervengono le ordinanze impugnate, le quali si limitano a prevedere che, ai fini dell’attribuzione del credito scolastico nell’ambito della banda di oscillazione, si tiene conto anche del giudizio formulato dai docenti di religione o di insegnamenti alternativi.”
E’ con questo argomento, che accoglie la tesi ministeriale che porta all’annullamento della Sentenza del TAR, che il Consiglio di Stato di fatto sbarra la strada alla pretesa più volte enunciata dalla Gelmini di introdurre una valutazione numerica nella valutazione dell’IRC. Infatti la norma di cui all’art 205. comma 4 del T.U., deriva dal Concordato e quindi non è modificabile con una legge ordinaria ma richiederebbe l’attivazione di una complessa procedura, di modifica appunto, concordata tra le parti e ratificata dal Parlamento.
Nella parte conclusiva della Sentenza il Consiglio è forse consapevole del carattere astratto che assumono le sue valutazioni sulla non discriminazione senza affrontare ”la constatazione che in molte scuole gli insegnamenti alternativi all’ora di religione non sono attivati, lasciando così agli studenti che non intendono avvalersi come unica alternativa quella di non svolgere alcuna attività didattica.”
Tale preoccupazione, manifestata dal giudice di primo grado, secondo il Consiglio va tenuta nella massima considerazione.
Questa è la significativa conclusione della Sentenza su cui la Gelmini già da tempo è stata chiamata a riferire in Parlamento:
“Non vi è dubbio, infatti, che la mancata attivazione dei corsi alternativi rischi di mettere in crisi uno dei presupposti su cui si fondano le ordinanze impugnate, che, nel mettere sullo stesso piano, ai fini della valutazione come credito scolastico nell’ambito della c.d. banda di oscillazione, l’insegnamento della religione e l’insegnamento dei corsi alternativi per i non avvalentisi, danno quasi per scontato che i corsi alternativi esistano ovunque.
Al contrario, è circostanza nota che in molte scuole i corsi alternativi non sono attivati e questo rischia di pregiudicare la libertà religiosa dei non avvalentisi e di compromettere la logica delle ordinanze in esame.
Infatti, nelle scuole in cui il corso alternativo non è attivato, lo studente che per motivi religiosi non intenda avvalersi dell’insegnamento della religione, ha come sola alternativa quella di di non fare nulla (a parte eventuali iniziative individuali o di c.d. studio assistito).
La mancata attivazione dell’insegnamento alternativo può incidere sulla libertà religiosa dello studente o delle famiglia: la scelta di seguire l’ora di religione potrebbe essere pesantemente condizionata dall’assenza di alternative formative, perché tale assenza va, sia pure indirettamente ad incidere su un altro valore costituzionale, che è il diritto all’istruzione sancito dall’art. 34 Cost.
Ciò evidentemente non contraddice il carattere facoltativo dell’insegnamento alternativo: tale insegnamento è, e deve restare, facoltativo per lo studente, che può certamente non sceglierlo senza essere discriminato, ma la sua istituzione deve considerarsi obbligatoria per la scuola, specie alla luce della scelta compiuta nelle ordinanze della cui legittimità ora si discute.
Di questo aspetto il Ministero appellante dovrà necessariamente farsi carico, perché altrimenti si alimenterebbe una situazione non coerente con quanto le stesse ordinanze impugnate sembrano invece presupporre. “
Questa argomentazione del Consiglio di Stato rappresenta una chiara denuncia della violazione del Concordato da tempo in atto nelle nostre scuole. Perché la CEI, che è intervenuta in questo giudizio non vi si associa?
Ne avrebbe tutti i requisiti e anche il dovere per farlo in quanto contraente principale di un Patto bilaterale.
Invece l’O.M. n.44 del 5 maggio 2010 caccia quei pochi docenti di materie alternative, che ancora sopravvivono ai micidiali tagli degli organici, dai consigli di classe in sede di valutazione dei crediti scolastici.

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CAMMNINO EDUCATIVO E MERCIFICAZIONE DELLA CULTURA
LA “GELMINI” NELLA CRITICA DI UN ECONOMISTA


Marco Mazzoli*


Il primo pensiero, da profano, che ho avuto alla lettura del bel libro di Baldacci e Frabboni** è stato il forte legame che emerge tra filosofia dell’educazione e pedagogia. Le parti iniziali del libro contengono infatti interessanti riflessioni e alcune linee guida su come caratterizzare lo studio del cammino educativo umano: “disegnare la complessa fenomenologia dell’esperienza educativa” per poi passare alla “scelta del modello pedagogico fedele all’orizzonte-limite”. La pedagogia si configura qui come la presa di coscienza dell’universalità, ossia l’organizzare la vita educativa come processo teleologico, dunque come progettazione esistenziale. Che c’è dunque di più vicino all’oggetto della filosofia? O meglio all’esperienza più quotidiana e più diretta che si può avere della filosofia? Non stiamo forse parlando del processo umano di apprendimento, di presa di coscienza della realtà, di come l’uomo apprende e riflette sul suo stesso processo di apprendimento? E l’angolatura offerta dal libro di Baldacci e Frabboni non è quella della speculazione teorica (pure importante) sull’apprendimento umano, ma un vero e proprio condensato di decenni di esperienza sociale nel campo: una sorta di sguardo retrospettivo agli importanti risultati che questa sorta di “filosofia applicata” ha avuto nella socialità dei ragazzi nella crescita di tanti ex ragazzi, oggi trentenni o quarantenni... Il sapere pedagogico emerge dall’interazione ripetuta di una molteplicità di soggetti (allievi, maestri, docenti, studiosi) che, nel corso dei decenni, hanno prodotto un modello educativo consolidato. Un economista teorico, utilizzando le categorie di analisi della teoria dei giochi (una branca della teoria delle decisioni) definirebbe tale interazione come un “gioco evoluzionistico”, ossia, nel linguaggio comune dell’uomo della strada, una configurazione sociale che emerge in modo stabile e consolidato come risposta ottimale di ogni individuo nell’interazione interpersonale ripetuta con gli altri individui.
Poi è arrivata la riforma Gelmini, già anticipata, per molti versi dalla Moratti, aprendo un conflitto che va ben oltre la questione dei tagli o della riduzione della spesa pubblica causata dalla crisi economica: alla cultura filosofica, alla stessa tradizione umanistica italiana si è contrapposta la mercificazione della cultura, secondo una sottocultura pseudo-aziendalistica, che tratta il bene “educazione”, privatizzandola e mettendola sul mercato, come si tratta una qualsiasi merce. Ebbene, è lo stesso pensiero liberale che, a partire dagli anni Trenta del Novecento osserva che i cosiddetti “public goods” (i beni per i quali esistono “esternalità”, ossia ricadute positive o negative anche per chi non li consuma direttamente e “non escludibilità dal consumo”, ossia la condizione secondo cui il consumo di un soggetto non esclude il consumo simultaneo di altri soggetti) non possono essere prodotti e venduti sul mercato perchè esiste un problema di incentivi e di free riders. Alla categoria dei “public goods” appartengono per l’appunto l’educazione, la cultura, la sicurezza, la difesa nazionale e altri beni e servizi di uso collettivo. L’educazione e la cultura, ad esempio, non avvantaggiano esclusivamente la persona che ne usufruisce, ma contribuiscono a migliorare le condizioni economiche e sociali e la qualità della vita di un’intera nazione... ma si tratta di concetti troppo sofisticati e troppo colti nell’epoca degli spot pubblicitari e in tempi di pregiudizi razziali. Viviamo indubbiamente tempi difficili. Mai prima d’ora una parte politica si era identificata non in una classe sociale, non in un gruppo di interesse, ma negli interessi individuali di un solo leader. Neanche nelle dittature si era mai verificato nulla di simile... Forse però sarebbe auspicabile che almeno il gruppo dirigente dei partiti progressisti avesse lo spessore culturale e la determinazione di difendere con forza e lucidità i valori e le idee guida di quella che fu, un tempo, la sinistra.


*Docente di Economia Monetaria e Internazionale all’Università Cattolica del S.Cuore. Sede di Piacenza.
**Il testo è la trascrizione dell’intervento pronunciato alla presentazione del libro “La controriforma della scuola” di Massimo Baldacci e Franco Frabboni. Casadeipensieri Bologna, 15. 03. 2010

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CRISI E CORSA ALLA FORMAZIONE. ITALIA FERMA


Gian Carlo Sacchi

Come affrontare la crisi ? La risposta sembra prendere due strade principali: per gli aspetti finanziari si deve intervenire sul piano etico, mentre sul versante del lavoro si può operare in chiave pedagogica. Sono i due fronti che oltre a valide politiche industriali preoccupano per una ripresa non soltanto economica, ma anche sociale e civile. La situazione della Grecia costituisce un severo ammonimento; l’Italia non è molto lontana, forse può contare su una maggiore capacità imprenditoriale. Corruzione, evasione fiscale, crisi della legalità; a volte si ha l’impressione di essere sopraffatti. Tagli a scuola e università, blocco delle risorse negli enti locali, ripiegamento su un apprendistato professionalmente debole che svilisce il mercato del lavoro e rinuncia allo sviluppo delle conoscenze ed all’investimento sui giovani e la loro formazione.
E’ questo lo spettacolo che di questi tempi è sotto i nostri occhi e non stupisce quindi che qualunque rapporto internazionale ci trovi sempre in posizione marginale.
Ma la crisi nel nostro Paese sembra essere nelle mani di chi da le notizie e dalle stesse fonti governative emergono soluzioni contraddittorie. Si dice infatti che per combattere la disoccupazione ci vuole più formazione e dall’altra parte si pensa di far assolvere l’obbligo di istruzione in percorsi che inseriscano precocemente i giovani in azienda, alimentando così la dispersione scolastica ed abbassando complessivamente il livello di competenze, sempre più importanti per le persone, i cittadini, i lavoratori e la qualità della vita.
In una situazione a dir poco depressiva un Paese non può essere competitivo, ed ecco una recente conferma nel rapporto del World Economic Forum, che prende in esame i progressi registrati in base ai criteri indicati dalla strategia di Lisbona dell’UE nel 2000. Il programma di riforme è già scritto anche per noi da quei Paesi che raggiungono i livelli più alti nella graduatoria.
Innovazione, inclusione sociale, elevati livelli di apprendimento. L’Italia è in fondo un po’ su tutti i parametri, superata anche dai nuovi ingressi nell’UE, che pur tra notevoli difficoltà economiche stanno lavorando alacremente con grinta e motivazione. Il nostro si rivela un sistema vecchio, che dalla riforma appena varata ha ricevuto solo qualche lavagna multimediale, e che ha buttato via tutto quanto elaborato in più di vent’anni di sperimentazione, sulla quale si erano misurate le capacità di miglioramento didattico, di revisione istituzionale, anche attraverso un corretto rapporto tra pubblico e privato e di maggiore integrazione tra scuola e territorio.
Si pensa alla qualità a partire alla valutazione ed alla selezione e non piuttosto collegando l’esperienza con la ricerca e il miglioramento continuo nelle professionalità e nell’organizzazione.
I Paesi nordici sono sempre ai primi posti per gli investimenti in questo settore, che aiutano certamente i risultati scolastici, nei quali però il sistema formativo è parte di un processo di coesione sociale e di governo territoriale del servizio. In quest’ultimo aspetto non solo siamo fanalino di coda, ma contribuiamo ogni giorno a disgregare, dall’uso dei tempi scuola, agli indirizzi scolastici, ai rapporti tra scuola e realtà, tra sistemi formativi locali e centralismo burocratico.
In tutti i Paesi europei e non solo la crisi viene combattuta con significativi interventi finanziari, strutturali e dando alla scuola e alla formazione un ruolo primario nel campo appunto della coesione sociale, del recupero etico, della legalità, dello sviluppo; da noi ci si vuole convincere che meno è meglio ed anche “cittadinanza e costituzione” è già scomparsa nei meandri delle indicazioni di alcuni ambiti disciplinari.
Il governo territoriale, nato prima come decentramento, poi come autonomia, ora come federalismo, sembra la tela di Penelope. Ci sono certamente problemi di trasparenza dei conti, ma c’è anche la qualità e la quantità di servizi sui quali stato e regioni devono ancora trovare l’accordo, e che, a giudicare dallo scarso interesse dimostrato da entrambi, si ha l’impressione che lo si giochi al ribasso. E questo favorisce chi pensa ad un intervento pubblico minimale con ampi spazi di mercato nell’offerta per chi se lo potrà permettere, a livello economico e socio – culturale.
Si sa che l’eccellenza, tanto proclamata, non viene dal censo, soprattutto nel nord Europa viene da efficienti politiche pubbliche, sulle quali si misurerà il così detto “sviluppo sostenibile”.
E se dunque non si cambia rotta il “Centro Europeo Per lo Sviluppo della Formazione Professionale” ci dice che nel 2020 (data in cui andranno verificate le politiche di cui si è detto) l’Italia avrà una carenza fortissima di forza lavoro altamente qualificata, che non si ottiene ovviamente aumentando i percorsi al ribasso della qualità formativa, ma ritornando ai processi di integrazione tra il sistema educativo e produttivo, così come iniziato nel 1996 con gli accordi tra governo e parti sociali, che hanno poi dato origine ad una serie di provvedimenti legislativi che avevano cercato di innovare i profili, ma anche le organizzazioni e la governance, che oggi si vanno disperdendo, a fronte di una piuttosto effimera valorizzazione dell’istruzione tecnica e professionale, non fa trovare consenso nell’opinione pubblica e nell’iscrizione di nuovi allievi.
Abbassare la dispersione scolastica significa aumentare in prospettiva sia il numero dei diplomati, sia le competenze degli alunni; tutto questo però non è soltanto un problema di contenimento sociale e/o del disagio adolescenziale, ma di profondo rinnovamento didattico, organizzativo e di governo del sistema. Ancora i risultati nel nord Europa evidenziano che è più facile arrivare a raggiungere livelli alti nel successo formativo se si tiene su quelli medi, che più difficilmente potranno franare verso il basso.
Il mercato europeo sarà caratterizzato da lavori ad alta intensità di conoscenze tecniche, e non da garzoni di botteghe artigiane di fine novecento, e l’economia domanderà occupazioni con obiettivi di elevata qualificazione; crolleranno i posti di lavoro con basse competenze. Un particolare investimento andrà poi fatto sull’occupazione femminile, per evitare tra l’altro uno spreco di talenti, in quanto si stima che le donne europee con meno di 40 anni saranno più qualificate degli uomini.
Insomma si illumina un quadro internazionale che da noi tende ad oscurarsi, e se la crisi che non c’era aveva già fatto scempio delle risorse sul sistema formativo, adesso che si è scoperto esserci dovremo temere altri sacrifici, che certamente è più facile fare sui servizi pubblici. Non c’è dubbio che si possano ottimizzare i costi, e magari invece si dibattere solo sul fisco si potrebbe iniziare a calcolare i “costi unitari” nei “livelli essenziali delle prestazioni” dei servizi; non si tratta solo di un esercizio contabile, ma data la scarsa sensibilità che si vede in giro, anche di un programma pedagogico.

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LA SCUOLA CHIEDE ATTENZIONE E CURA
CHIEDE ATTENZIONE IL FUTURO DELLA RICERCA E DEI GIOVANI RICERCATORI

Rossella D’Ugo

Sono stata invitata qui, questa sera, per riflettere brevemente con voi in merito ai temi della ricerca universitaria. Confesso subito, però, che la lettura del Memorandum di impegno del Partito Democratico presentato da Raffaele Donini, pone in me l’esigenza di parlare non solo della ricerca in generale, quella messa a repentaglio quotidianamente dalle scelte (e dai tagli) del nostro governo, ma anche di una esperienza che ha caratterizzato, nello specifico, il mio impegno in questi anni.
Dico questo perchè mi sembra di ritrovare – in molte suoi temi –una stessa direzione.
Probabilmente perché anche noi pedagogisti siamo soliti, come lui, tenere sempre sullo sfondo un “pensare globale ed un agire locale”.
Cercherò, per questo, di intrecciare la sua “speranza e fiducia nel futuro”, alla mia esperienza che, allo stesso modo, da pedagogista , è costantemente alimentata da una tensione utopica che pretende di ripercuotersi in un agire concreto e locale.
La “Bologna metropolitana”, quella che Raffaele Donini riprende riaffermando l’urgenza di un nuovo sistema che si impegni, si legge nel documento, a “trasformare gli attuali quartieri in vere e proprie municipalità che indirizzino in modo cogente l’azione amministrativa in materia di servizi sociali” è la stessa città che avrei voluto attraversare durante le mie ricerche.
La mia avventura universitaria iniziò per caso quando al terzo anno (seguivo il corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria), fui coinvolta in una ricerca sul ruolo sociale dei nonni. Era il 2003 ed eravamo in un quartiere preciso, quello di Borgo Panigale. Sotto la guida del compianto Prof. Loperfido, tra questionari e osservazioni, trascorrendo mesi con i nonni del territorio, scoprimmo che quel rapporto – quello tra nonni e nipoti - era di nuovo una necessità della popolazione. I nonni sono una risorsa sociale in grado di contribuire a risolvere molti dei tanti problemi delle odierne famiglie: da quelli economici a quelli organizzativi. Quelli che una nuova Bologna dovrebbe impegnarsi a risolvere, riprendendo la via di una forte partecipazione, anche per selezionare l’uso delle risorse e integrare la forza delle famiglie ed i servizi.

Dal 2006 al 2009, il mio interesse di ricerca sulla città, mi ha portata ad indagare in un altro quartiere – San Donato – su quali fossero le offerte del territorio destinate alla qualità della vita degli anziani .
Oltre ad un ripensamento in generale delle attività promosse dai Centri anziani (che continuiamo erroneamente a chiamare così anche se oggi sono indicati, non a caso, come Centri Sociali Ricreativi Culturali) gli impegni pedagogici scaturiti da questa indagine sono numerosi. Tra i tanti mi preme sottolinearne due: in primo luogo l’esigenza della creazione, attraverso mirati progetti cittadini, di una rete intergenerazionale che abbia come suo centro, come suo luogo di ritrovo proprio queste associazioni. In secondo luogo, la possibilità di contemplare l’ingresso di nuovi cittadini, come i migranti di buon inserimento, in questi centri col fine di irrobustire un volontariato che si sta riducendo. Un passo avanti, in questo modo, anche verso una società che sia multiculturale non solo nei problemi ma anche nei luoghi del fare insieme, che sono stati la forza di Bologna..
Obiettivi impensabili, ancora una volta, senza un’azione politica coerente e chiara, di lungo periodo..

Ed è, infine, di questi mesi, una ricerca in collaborazione con il Comune di Bologna, con l’intento di rilevare la qualità di alcune scuole comunali dell’infanzia. Siamo sempre nel quartiere San Donato. Posso anticiparvi ciò che emerge: occorre investire sui servizi dedicati all’infanzia, oggi più che mai. Ci sono attività necessarie per lo sviluppo dei bambini che talvolta non possono essere svolte non certo per la mancanza di professionalità degli insegnati, quanto per problemi, magari, di abitabilità dei locali della scuola.

È in questo scenario cittadino che si è andato evolvendo il mio impegno da “futuro” ricercatore – e sottolineo “futuro” con una giusta dose di incertezza e speranza. Ed ecco i problemi, in generale, della ricerca universitaria: la mancanza di certezza nel nostro futuro e il rischio di una dispersione di quanto fatto sino a questo momento.
Il mio impegno di ricerca di questi anni, non porta a delineare certezze lavorative future. Anzi, paradossalmente, le certezze sembrano inversamente proporzionali al ritmo delle mie giornate che mi vedono attraversare l’Italia, dal Trentino Alto Adige alle Marche. Mentre come me tanti giovani si affannano , di contratto in contratto, di realtà in realtà, i tagli della Gelmini negano la possibilità di un futuro e già hanno ridotto drasticamente tutti gli istituti, dalla formazione al confronto delle esperienze e del modo di insegnare che fanno la qualità di una scuola, di qualsiasi grado.
E’ capitato a me, come a tanti, di vivere un contratto, e poi un altro e così va senza sapere più non solo se sarà rinnovato ma se l’istituzione presso la quale si lavora continuerà ad esistere. E’ la scuola, è l’Università, è il sistema formativo, e forse ancora più generalmente la galassia dei servizi pubblici per la crescita delle persone, che oggi sono precari, non solo tanti che ci lavorano.
Credo che a questo punto, ogni commento ulteriore risulti superfluo.
La speranza, anzi l’incitamento è che l’impegno politico, anche quello che rinnoviamo qui questa sera, sia rivolto alla salvaguardia anche dei giovani ricercatori molti – che nelle nostre università si sono formati, prima, e hanno, deciso, poi, di investire lo loro vita per lo sviluppo della qualità della vita della loro città.
Buon lavoro!

Bologna, 4 maggio 2010

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NON ARRENDERSI ALLA SCUOLA DELL’ESCLUSIONE

Mauria Bergonzini

Le sempre minori risorse disponibili per la scuola pubblica accentuano il rischio della separazione fra chi può e chi non può, o non può più.
Il rischio che ci troviamo davanti è quello di una scuola che esclude

L’esclusione evidente:
esclusi i bambini che – anche nei nostri comuni – si trovano senza posto alla materna. La manovra ha ridotto di 700 milioni la spesa per la scuola. A me dà più il senso dell’esclusione questo elenco apparso qualche giorno fa su Repubblica: 43 bambini ad Anzola, 44 a San Giovanni in Persiceto, 20 a Vergato, 59 a Casalecchio, 35 a Castelmaggiore, 41 a Budrio. I comuni cercano di trovare soluzioni, ma non ci sono i soldi per gli insegnanti.
Il tempo pieno è bersagliato già dai tempi della Moratti.
Alle scuole superiori ci aspettiamo classi più numerose e meno tempo, quasi azzerate le ore per chi ha bisogno di recuperare.
Ho trovato da qualche parte questa frase: Se pensi che l’educazione sia costosa, bene, prova quanto costa l’ignoranza !
Poi c’è l’altro tipo di esclusione, con i tentativi di lasciar fuori dalla scuola dell’infanzia i bambini di genitori irregolari, di imporre il tetto del 30% di bambini extracomunitari. Probabilmente non ci fermeremo qui, dobbiamo aspettarci ogni giorno qualche nuova invenzione. Purtroppo ogni nuova invenzione, anche se poi ripudiata o rimangiata, alza il livello delle cose - orribili - che si possono pensare e dire e poi anche fare nella scuola e in tante altre questioni.

Poi c’è l’esclusione sotterranea: a novembre uscì sui giornali - e ci rimase per qualche giorno - la notizia di un ragazzo di Rovereto, studente alle superiori, costretto a lasciare gli studi perché il padre aveva perso il lavoro. In qualche modo si trovò una soluzione caritatevole, intervenne la preside, così dissero i giornali. Poi non se ne è saputo più niente.

Vorrei sapere - dobbiamo sapere - quanti casi così ci sono in giro: ho chiesto a diverse persone, più o meno dentro al mondo della scuola o comunque interessate, anche a politici di esperienza, ad un sindacalista, ma nessuno lo sa. Uno mi ha risposto “Non ci avevo pensato” !
La mia domanda è semplice: quanto la crisi inciderà sugli abbandoni dopo la scuola dell’obbligo ? In quanti in meno andranno alle superiori e all’università poi ? E quanti di questi saranno ragazze ?
Se i dati non ci sono, credo che l’unica soluzione sia chiederlo direttamente alle famiglie. Io credo che il PD debba farsi carico di questa conseguenza – ancora sommersa - della crisi sulla dispersione scolastica, per motivi ideali e per motivi concreti, per il progresso in giustizia del nostro Paese.
Nel documento di Donini, uno sforzo ampio di riflessione,si parla di merito, di talenti e di solidarietà.
Caro Donini, desidero rivolgerti un ragionamento.
Il merito, e i talenti: servono, e devono essere liberi di essere valutati, senza essere soffocati da promozioni indebite garantite a chi merito e talento non ha.
Ma la società che ci serve di più è una società in cui tanti siano preparati, capaci di fare, di fare insieme e ragionare sulle cose e sul futuro. Serve quantità insieme alla qualità. I talenti servono, ma i grandi risultati sono quasi sempre il frutto del pensiero e del lavoro di tanti, di una organizzazione dove nessuna parte resti indietro. E’ il problema anche nel mondo delle imprese. Nessuno da solo è più intelligente di tutti gli altri insieme. Non è un affermazione morale: ci sono, di questo, molte evidenze empiriche.
E la solidarietà?
La scuola che si profila è una scuola del meno e per meno ragazzi. Per questo la solidarietà è un valore da recuperare. Invece sembra prevalere la competizione.
Competere vuol dire andare insieme, convergere ad un medesimo punto: cum è insieme, pétere, andare verso.

Verso dove? Verso delle buone opportunità di lavoro, di vita, di affermazione personale e sociale?
Con chi? Da solo, spintonando e rubando spazio agli altri oppure anche andando insieme con gli altri?
Vedo in giro molta competizione: sono competitivi i bambini e i ragazzi - lo sono sempre stati - lo sono molto anche le famiglie.

All’ambizione naturale, quella verso i propri figli e le proprie figlie, si aggiunge ora - in questo contesto povero di opportunità “alte”, ma anche di sicurezze normali, di quel po’ di garanzie godute dalla mia generazione - una maggiore competizione delle famiglie, la tensione un po’ bulimica ad accumulare le occasioni per i loro figli, perché così saranno messi in grado di eccellere, di avere più occasioni, più scelte. Naturalmente le famiglie che possono, quelle bene-stanti e quelle che riescono a destinare risorse per i figli. Si riempie fin da piccoli il curriculum.
Cosa si possa fare per limitare questo fenomeno, non lo so. Chi ha il dovere di educare, gli insegnati, le famiglie però devono farlo in qualche modo. Ci serve ancora - e oggi ancora di più - un pezzetto di Lettera a un professoressa che dice così:
Il preferito.
La vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare. Però chi era senza basi, lento o svolgiato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finchè non aveva capito, gli altri non andavano avanti
”.


Bologna, 4 maggio 2010

martedì 20 aprile 2010


Numero tre.
"Riforma" cammina sul filo della democrazia e della scuola, da difendere e cambiare.
Una via per la qualità e insieme per il diritto di accesso, opposta alla riduzione in atto.
La bella immagine di Dacia Maraini è una foto di Mario Dondero, scattata negli inquieti anni sessanta, e con Maraini cominciamo le nostre interviste sulla scuola e il contesto culturale alle voci della società italiana.
Le strategie formative per la democrazia di Franco Cambi.
La "controriforma thriller" e le "10 domande" di Franco Frabboni.

Interventi, sul Nido e il suo futuro, di Franca Marchesi, e di Giancarlo Sacchi sul mutare dei livelli di apprendimento della Matematica e delle Scienze.
Con particolare soddisfazione e gratitudine pubblichiamo il discorso sulla Pedagogia di Luciano Corradini, pronunciato nella cerimonia di emeritazione a lui dedicata.

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Parla Dacia Maraini: "Dietro ai tagli un progetto grave ed elitario".

Dacia Maraini, la scuola pubblica a noi di “Riforma” appare sotto attacco, probabilmente come mai in passato. Una reazione alle scelte di Gelmini e Tremonti vi è stata, è tutt’ora vasta la critica ai tagli, forse però oltre ai tagli c’è di più…

Certamente, credo anzi che i tagli siano una conseguenza di un pensiero che si definisce riformatore ma che opera per un cambiamento peggiorativo.
Si vuole una scuola rivolta solo a raccogliere la frequenza delle parti della società che appartengono alle elite economiche e culturali.
Anche per questo motivo ai tagli alla scuola pubblica corrispondono più finanziamenti alla scuola privata. Non si tratta tanto di scelte dettate dalla “simpatia” per la Chiesa cattolica, o perlomeno non si tratta solo di questo. C’è una visione più strategica che scommette sulla esclusione di chi non ha mezzi e sul sostegno a chi può investire di più per l’apprendimento delle proprie giovani generazioni.
Per il Governo attuali essere poveri vuol dire anche essere naturalmente votati all’ignoranza.
Riemerge qui un’idea antica del pensiero reazionario, tradizionalmente estranea alle principali correnti culturali e politiche italiane, anche quelle più conservatrici, secondo la quale essere poveri è una colpa.
C’è dietro una idea della società, più vicina al tradizionalismo americano, ognuno può fare carriera purchè lo voglia non si sente alcun bisogno di una politica pubblica per l’eguaglianza e le pari opportunità.


A tuo parere dunque le politiche per la riduzione del sistema scolastico sono parte di una visione dove si annulla ogni responsabilità sociale delle istituzioni .

C’è al fondo una vecchie idea della destra, si è ricchi per merito ed in questo merito si riassume il valore delle persone.
E’ una idea non nuova, profondamente ingiusta socialmente.
Su queste basi poggiano le decisioni del Ministro: lo studio non deve più essere a disposizione di tutti ma di alcuni, i più ricchi.


Forse è per questo che , accanto ai tagli, procede una sorta di offensiva culturale. Oltre all’insistenza contro il’68 , visto come l’origine di ogni male, e sul necessario ripristino del valore dell’autorità, più sottilmente si richiama, da destra, un nuovo primato delle “discipline”, dei contenuti, contro la Pedagogia che avrebbe costruito scuole tutte di metodo, senza qualità del sapere alla fine acquisito dagli allievi. Ma, con la Pedagogia è attaccata, a nostro parere, tutta la ricerca per individualizzare la cura dei ragazzi, per dare a tutti una possibililità.

Certamente l’accesso di massa alla scolarizzazione ha portato ad un abbassamento qualitativo. Era inevitabile, qualsiasi sapere diffuso a tutti lo livella. Però è importante comunque fare accedere tutti, per il valore che ha l’acculturazione generale di una società, prima debolissima, e insieme bisogna trovare le strade per fare esprimere le possibilità dell’eccellenza.
Ma il talento non è legato alla classe sociale ma deriva da capacità personale
Ai tempi di Leopardi il 70 per cento della popolazione non sapeva ne leggere ne scrivere e quindi l’istruzione, impartita a pochissimi, era sofisticata, con la scuola di massa c’è il livellamento ma il problema è quello di mantenere la quantità e di garantire l’eccellenza, non di tornare indietro, a masse sterminate di senza cultura.
Bisogna riflettere. In altri paesi, America e Giappone si è curato il problema, talvolta anche troppo, da noi invece “manica larga”, un accesso libero unh po’ assistenziale, senza cura e riforme della struttura della scuola, e filiere professionali garantite a ben vedere non dal sapere acquisito a scuola ma dalla trasmissione corporativa, da padre in figlio.

Quindi si sono perse le sfide, allo stesso tempo, contro l’emarginazione e contro la dequalificazione, ma questo è avvenuto per colpa di Don Milani e della Pedagogia?

Non è così, anzi il punto è che non si è investito abbastanza quasi nulla nella scuola, che in fondo era invece la vera richiesta, quella originaria della contestazione degli anni ’60.
Io vado moltissimo nelle scuole ed è una disperazione trovarvi i tetti con l’acqua che cola, la mancanza dei materiali minimi, il continuo sostegno richiesto alle famiglie.
La scuola di San Giuliano, che nuova crollo’ per l’incuria e la speculazione con la quale era stata edificata, è un paradigma del rapporto fra lo Stato, la società e la scuola.
Conosco molte scuole italiane, ci sono moltissime esperienze positive, ma vanno avanti per merito degli insegnanti.
Ci sono insegnanti straordinari che fanno un lavoro costante, che richiede un impegno, un sacrificio quotidiano.
Dove gli insegnanti dimostrano interesse e , per esempio, passione per la lettura e la scrittura, la risposta c’è.
Non è vero che tra i ragazzi prevalga solo il bullismo, il problema è non abbandonare le scuole, non vivere l’insegnamento come un lavoro d’ufficio, dove c’è passione e coinvolgimento fa meraviglia il livello di partecipazione e di qualità. Le scuole italiane non sono come la stampa le descrive: tutta lontananza e bullismo.
Il merito è di insegnanti coraggiosi che, contro tutto, coinvolgono gli studenti e fanno “buona scuola”.

Ti chiediamo una tua opinione sul rapporto fra la cultura creativa e la scuola, fra i saperi della produzione culturale attuale e i saperi trasmessi dalla scuola.

Adesso c’è meno distanza. Ai miei tempi la scuola non si mescolava mai con il vissuto della cultura viva del paese. La scuola non è più un museo dove si trae il passato ma un luogo vivo dove si incontra la cultura attuale.
La scuola si è aperta, ai giornali, ai libri, alle personalità che vengono dal di fuori, e poi alle tecnologie comunicative più recenti. In fondo, se questo è avvenuto, è merito del 68.
Ho vissuto il prima ed il dopo, e la scuola è cambiata, molto ed in meglio,
Naturalmente qualche volta si è buttato via il bambino con l’acqua sporca, per alcuni momenti ha avuto corso l’idea che non ci fosse il problema di apprendere, che tutto doveva diventare sociale.
Ma le cose peggiori che oggi dobbiamo affrontare non nascono tanto da lì quanto dall’incuria, dallo scarso investimento, dalla mancanza di progetti e obiettivi da proporre all’intero sistema scolastica.
Quindi, se l’istituzione oggi è in situazione catastrofica, come si dice anche troppo spesso, è perché lì si è fatto pochissimo e male, nella struttura del sistema. Sono le persone che resistono e danno speranza e quindi non è vero che il problema principale consiste nelle ideologie che li guiderebbero.

Dacia Maraini, una battuta infine sulla scuola, sulle scuole che hai vissuto nell’infanzia e nell’adolescenza.

Sono stata a scuola in Giappone, in Sicilia, poi a Firenze. Ricordo il mio professore di italiano a Palermo. Una volta mise un tre ad un mio tema scrivendo “legge troppi libri”.
Forse avevo fatto troppe citazioni. Certo aveva intravisto una parte di me.

Di Davide Ferrari

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Strategie formative per la democrazia oggi: frontiere nella/della società civile

Franco Cambi

1. La democrazia oggi: crisi, trasformazione, sviluppo
La democrazia proprio nel tragico corso degli eventi politico-sociali del Novecento, animati da scontri ideologici e da logiche dittatoriali, da volontà di egemonia planetaria e da scontri frontali tra classi sociali nettamente distinte e antagoniste, si è rivelata un relativo “porto sicuro” della organizzazione delle società avanzate. Di quelle che hanno oltrepassato dittature e oligarchie di vario conio e si sono attestate su un tipo di società contrassegnato dal pluralismo, dalla partecipazione, dalle regole e dall’equilibrio dei poteri e della collaborazione dialettica tra i diversi ceti sociali, in vista di una convivenza equilibrata e aperta al tempo stesso. La democrazia così si è imposta sia come valore sia come principio. Come forma trainante dell’organizzazione socio-politica e, in se stessa, aperta a evoluzioni progressive, a ulteriori integrazioni, a interventi di consolidamento, correzione, sviluppo perfino in nuove congiunture storico-sociali.
Sì, tutto vero. Però al confine tra i due millenni la democrazia si è rivelata, al tempo stesso, in crisi. E in crisi plurale. Relativa all’esercizio del potere (oligarchico e personalizzato fino al “sultanato”). Relativa all’esercizio dei diritti (catturati dai media, filtrati dalla pubblicità, etc.). Relativa alla cittadinanza: rito senza troppa partecipazione; risolta nella delega; espropriata già nella coscienza dei soggetti. Una crisi fatta di molte crisi, ma che sottopone il modello-democrazia a restrizione e a revisioni. A reinterpretazioni anche. A difesa: e rispetto all’Oligarchia, al Mercato, ai Fondamentalismi, alle Derive di un Disincanto che si fa Disimpegno, etc. La democrazia in crisi di ripensamento e di riadattamento in primis reclama difesa del suo stemma e del suo ideale, per poi passare alla disamina congiunturale di debolezze, di integrazioni, di affinamenti. E va difesa per non perderla. Come si rischia oggi secondo segni assai efficaci. E va difesa e nella teoria e nella pratica. E tale lavoro è in corso anche in Italia. Politologi e costituzionalisti, storici del diritto e (perché no?) pedagogisti sono impegnati su questa frontiera. Da Galli a Sartori, a Zagreblesky a molti altri che anche dall’estero agiscono sul dibattito italiano. E si pensi a Crouch.
La congiuntura è delicata e decisiva. Particolarmente in Italia, dove la democrazia della Costituzione è rimasta per lungo tempo o non realizzata (e si pensi alla Corte Costituzionale, alle Regioni) o poco richiamata (nella scuola, ad esempio, se pur presente come “educazione civica”). Anche interpretata guardando ai suoi compromessi più che alle sue potenzialità. Non solo: oggi tale democrazia è rimessa brutalmente in discussione secondo principi non di funzionalità democratica ma di superamento del complesso regime di garanzie, invocando più concentrazione del potere, più decisionismo, più richiami al carisma che alle regole. Ma così frana l’idea stessa della democrazia: che è plurale o non è; che è dialettica o non è; che esige controllo e dissenso al proprio interno o non è. La deriva italiana postdemocratica è stata dichiarata esemplare di una deriva videocratica della democrazia, possibile in un paese senza anticorpi di opinione pubblica rispetto alla deregulation (e si pensi al principio-dovere del “pagare le tasse” e a come è vissuto qui da noi) ideologica e statuale. Qui è più urgente 1) interrogarsi sul perché della “crisi della democrazia”; 2) riflettere sulle sue forme, attuali e possibili; 3) affermare il principio-democratico autentico; 4) indicare le attuali difese e i necessari sviluppi; 5) interiorizzare nei cittadini tale principio-valore; 6) indicare strategie efficaci di intervento sì politico, ma anche educativo: di costruzione di una forma mentis democratica diffusa, di un’idea di cittadinanza attiva che, spesso su opposte frontiere e in forme democraticamente asimmetriche, sta prendendo corpo nella stessa deriva del sistema politico (con mezzi e con forme nuove di “prender parola” e di resistenza all’esercizio tradizionale del fare-politica: come la crescita del non-voto ben testimonia).

2. Ricostruire spazi educativi
In questa congiuntura la pedagogia/educazione sta immessa da protagonista. Per riflettere e per progettare. Sul valore/principio della democrazia. Sulle strategie di consolidamento e di sviluppo. Intorno al valore/principio la pedagogia italiana ha al sul attivo la tradizione azionistica, pur congelata che sia stata e in parte rimossa nell’esercizio del politico, dominato dalle Grandi Ideologie della Guerra Fredda e poi da uno stile di vita consumistico e disimpegnato. Ma non solo: anche la tradizione del pensiero americano, da Tocqueville a Dewey e su su fino a Kennedy e Obama; pensiero teorico e pratico, ma capace di rilanciarsi come sfida costante (e si rileggano le pagine politiche dell’ultimo Rorty). Come pure la tradizione del “bene comune” tipica del pensiero cattolico liberal-democratico (e si pensi all’ultimo richiamo di Scoppola) o quella della democrazia più socialismo cara a Gramsci (e a un Gramsci ormai sottratto alla logica del leninismo che non coincide affatto con la sua strategia politico-pedagogica, la quale si articola intorno a un’egemonia attuata attraverso il “blocco storico” e una profonda rivoluzione culturale di carattere liberal-democratico, con al centro i soggetti-persone e l’equazione governato-governante, la scuola e le accademie e il teatro etc.). Tale valore/principio va ripreso. Va aggiornato. Va integrato. Nella società dei Media e dei Consumi. Lì sta il valore politico del Moderno. E da lì – anche nel Postmoderno – bisogna ripartire. Complesso che sia. Difficile che sia.
Da qui la riflessione/progettazione di strategie anche nuove, anche nuovissime. Imposte dal mutamento della società e della cultura. Ma anche del soggetto. Imposta dalla scomparsa di fattori più tradizionali (le Ideologie, le Classi) e dall’avvento di una società nuova: multietnica, animata da differenze, manipolata dalla comunicazione di massa, omologata intorno al feticcio-Mercato e alle sue regole e ai suoi impulsi sociali. Una società “liquida” si è detto. Anche, ma non soltanto. Anche inquieta, dis-orientata, mobilissima e ossificata al tempo stesso. Una società che si fa costantemente problema a se stessa e pone al centro dell’interpretazione di sé la diagnosi sociologica che si fa specchio maturo del vivere sociale. Una società policentrica, polimorfa, alla costante ricerca di sé. Società nuovissima e difficile. A vivere e a interpretare. Dove la stessa cittadinanza si pluralizza, si problematizza, si dispone su molti fronti, attua molte voci diverse. Integrabili? Sì, e proprio – forse – come neo-modello di democrazia e come impegno pedagogico (o educativo/riflessivo) per dar corso a tale neo-democrazia in un tessuto sociale disperso e inquieto e alla deriva.
Non è che la pedagogia debba salvare la democrazia. Ciò spetta alla politica, e in molti sensi attuata. Le compete però tener vivo il modello-autentico di democrazia vissuta e realizzata come pure di indicare nuclei strategici da coordinare a tale principio-valore e sostenerli nel loro esercizio e di resistenza e di formazione. Di resistenza al post-democrazia fissato come regola e valore. Di formazione di nuovi percorsi per ridare corpo alla società democratica. Società che è il fondamento (e il supporto) stesso della democrazia politica. Come ci ha ricordato Dewey.

3. Le molteplici frontiere nella e per la società civile
Se, come ci hanno ricordato Dewey e Habermas, ma a suo modo anche Gramsci (nella sua analisi dell’intellettuale come cittadino et invicem) e altri ancora, (fino a Sartori, fino a Cacciari), la società civile è il sale stesso della democrazia, che da lì si dà regole di organizzazione e di rispetto delle medesime: da lì elabora Costituzioni, rende attiva (nei luoghi delle decisioni) la “volontà generale”, vive l’ethos del “bene comune” e della res publica, vive la cogenza e la libertà della legge, ovvero la sua ri-codificazione. Allora è dalla società civile posta sotto analisi e attivata da processi formativi che la democrazia si aggiorna e procede oltre e contro il suo “post”. La rianima. La riafferma. La rende attiva. E, ancora, è a questo che stiamo di fatto assistendo, proprio in Italia. C’è un risveglio polimorfo della società civile, che è parallelo rispetto al degrado dei Parlamenti (ormai gestiti da partiti ridotti a segreterie: e la presente legge elettorale è un esempio-principe), all’indebolimento dei partiti (invecchiati rispetto all’immagine di società che li ha sostenuti fin qui e degradati a oligarchie; tutti, se pure in dosi e forme diverse), all’occupazione – di partiti o di lobbies – delle Istituzioni. Un risveglio ancora fluido, ma presente e visibile. Che può annunciare una ripresa della democrazia, un suo rilancio secondo “lo spirito” soprattutto, una sua ridistribuzione nella stessa vita sociale.
Certo si tratta di saper leggere i “segni dei tempi”, di interpretarli e di ordinarli, sviluppando con essi e per essi una strategia, la cui democraticità sta nel riprendere la parola, nel vincolarsi alla legge fondante del paese (la Costituzione del ’48) e a renderla sempre più attiva e nel dibattito politico e nella coscienza: un vero architrave della cittadinanza, nel tener vivo il dibattito e l’azione dello scambio virtuoso tra società civile e ceto politico e politica istituzionalizzata. Ma quali sono i “segni dei tempi”? Sono segni che anche in un seminario tenuto a Palermo di recente sono emersi da una discussione collettiva e posti all’attenzione come via di affermazione della società civile, del suo impegno collettivo e delle sue forme plurali come autentici motori del politico-democratico oggi.
Sono segnali che emergono attraverso il “prender parola” (come è avvenuto per il femminismo, per il gaysmo, etc.); attraverso il richiamo all’autonomia come difesa di gruppi, etnie etc. e come declarazione attiva del pluralismo; attraverso la parresia: come dire-la-verità, provocare, discutere, scandalizzare, ma per smascherare il potere e far emergere i bisogni; attraverso la coltivazione-di-sé o cura sui di ciascuno, come uomo e come cittadino, ma come uomo che fa da leva al cittadino stesso; attraverso l’autoconvocazione di gruppi e formazione di comunità virtuali on line, fluide forse, ma potenti per il loro prender-parola, per la vocazione alla parresia, per il rendere viva la società civile che ormai sta oltre l’Ideologia e il Lavoro; attraverso il risveglio delle istituzioni intermedie (la scuola) o di base (la famiglia) della società civile, fissando meglio il loro ruolo, la loro identità socio-culturale, il loro volto politico (legato proprio alla polis come societas e come res publica); attraverso la condizione multiculturale che deve farsi interculturale e deve darsi i fronti e le regole di questo “incontro e dialogo” che rinnova il pluralismo e riaggiorna gli accordi, e pubblici e interiore nomine. Sono cenni che avrebbero bisogno di essere decantati fenomenologicamente e teoricamente, dentro una cultura del politico che si sta rinnovando e che esce dal suo schema di Potere-Governo-Legge, per estendersi nella società civile e lì poter vivere la politica come vocazione sì, ma al “servizio”, al “bene comune”, alla tutela della comunità nazionale, statuale, costituzionale Qui non lo possiamo fare. Né è opportuno. Qui vale un discorso di sintesi e di prospettiva: sul post che è però anche neo e su un neo che è forcipe e seme nella e per la società civile, fattore senza il quale la stessa democrazia deperisce. Certo: in una società che omologa, che distrae, che uniforma perfino l’immaginario sono possibilità di minoranze, ma che rese consapevoli e fatte agire possono cambiare il volto della società civile, oltrepassandone condizionamenti, egoismi, localismi che sono altrettanto in crescita, ma che minano lo stesso statuto della democrazia con separatismi, federalismi chiusi etc., il cui successo è, al tempo stesso, un sintomo di una malattia della democrazia.

4. Tra pratiche-teoriche e organizzazione reticolare
Che fare, allora? Dotare di coscienza e di strategia ogni nucleo strategico di risveglio della società civile sia esso strumento d’opinione, elaborazione culturale, gruppo d’azione legato a istituzioni o a idee e progetti, comunità virtuale in costruzione e in analisi, gruppi autoconvocati etc., e dotarli di una identità teorica, socio-politica, fornendo riflessione e modellizzazione, da animare con slogan, da rendere pubbliche, da far agire nei luoghi stessi della società civile ( scuola e famiglia e lavoro e associazionismo) e da porre all’attenzione dell’opinione pubblica, che è il centro-motore della stessa società civile. Tenendola viva e rendendola attiva nella societas/res publica. Questa è la prima mossa: dare identità; far emergere il pluralismo; attivare riconoscimenti e renderli saldi.
Poi c’è la seconda: fare rete, creare interazioni, stabilire modi di intesa, convergenze strategiche. Certo, si tratta di convergenze deboli, sottoposte a erosione, ma che ormai si attivano e si rinsaldano: strategicamente. E sono voci che anche nel fare-politica si fanno sentire: si pensi a Vendola o a Cacciari. E sono voci che intessono un nuovo modo di fare-politica e di far-vivere-la-democrazia, attivandone in se stessa le regole fondative e l’immagine autentica. Ma così restiamo al pre-politico? Al pre-organizzativo? Ad una strategia senza tattica? Può apparire, ma non è proprio così. La società, intanto, è mutata: è abitata da opinioni e pluralismi, che vogliono fare-strategia. E poi è un potere dal basso che si afferma rispetto a quello, già platonico, tutto pensato dall’alto, operando una rivoluzione radicale nel pensare/gestire il politico. Certamente sono strategie mobili, critiche, polimorfe, e sempre in divenire: ma questa è la conditio della “società liquida” e poi esse impediscono l’ossificarsi dei poteri e di chi li rappresenta. Tutto ciò erode il sistema politico moderno, come Stato, Apparati, Partiti, Organizzazione e Governo? Non proprio: li riporta dentro l’alveo-Costituzione e lì li rilegge nel loro stesso codificarsi (nella Costituzione del ’48 la parola “partito” è del tutto marginale: e ciò vorrà pur dir qualcosa), ma confermandoli come legittimi, opportuni, efficaci per riattivare la dialettica del potere nella democrazia. Che senza questa dialettica impoverisce e muore. Si delinea come “post”. E già Bobbio ce lo ha ricordato a più riprese.

5. La coscienza educativa e pedagogica
Ma, allora, qual è il compito della pedagogia? Intanto declinarsi sia come pedagogia (pensiero dell’educazione) sia come educazione (attività di educazione) e su i due livelli identificare il proprio ruolo. Che è di sostegno e di decantazione rispetto a questo modello e ai momenti/movimenti che lo incorporano. La pedagogia come riflessione e come strategia formativa-sociale si accorpa sì al politico (e lo fu già con Platone, che pensò proprio la non-disgiunzione tra i due fattori di pensiero e azione), ma anche lo anima, lo stimola, lo corregge, lo incalza e gli impone di guardare e al suo Modello (qui quello democratico) e alle Strategie (che lo interpretano e lo vivono, oggi). La pedagogia impone di far-sistema tra Modello e Strategie, evitando separazioni, derive, oblio e dell’uno e dell’altro fattore o di fattori del fattore. Si tratta di un operari teorico-pratico complesso, tensionale, che rivendica a sé autonomia, che mai si fa “consigliere del Principe” o “mosca cocchiera” del Politico, bensì rivendica il ruolo di coscienza inquieta, di voce che incalza, di richiamo che guida e ri-progetta, ascoltando le voci che emergono dalla stessa società civile, autenticandole criticamente e organizzativamente.
Qui, ovviamente, è attiva una pedagogia come categoria cognitiva e culturale (e non solo e non tanto come “disciplina”). Una pedagogia di pedagogisti, di filosofi, di storici, ma anche di politici, di maîtres à penser sul piano socio-politico: una pedagogia di tutti potenzialmente. Ma che spetta, soprattutto, ai pedagogisti di professione calibrare nel suo statuto dialettico di teoria per la pratica e di pratica per la teoria, sviluppandone insieme e il Modello e la Strategia. E farsi di questo gioco complesso interpreti e attuatori al tempo stesso. Senza alcuna velleità egemonica, è ovvio, ma con autentico spirito critico e spirito propositivo al tempo stesso. Come ci ha ricordato sempre Dewey da Democrazia e educazione a Comunità e potere, a Problemi di tutti.

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Una controriforma thriller.

Franco Frabboni

Nei tre anni di esordio sullo scranno più alto di viale Trastevere, Mariastella Gelmini mai è stata disponibile a confronti televisivi: se non a Porta-a-Porta. Dove, in uno studio surreale il maggiordomo Bruno Vespa si è ripetutamente genuflesso all’ascolto della sua voce impersonale e blindata che replicava in automatico lo stucchevole ritornello dell’arrivo dal cielo di una Scuola di un altro Pianeta: la Sua!
Crediamo che queste caricaturali sequenze/video in seconda serata siano state molto istruttive per gli studenti, per gli insegnanti, per i genitori e per i nonni che hanno avuto la forza, fisica e mentale, di resistere davanti al video.
Porta-a-Porta ha svelato al nostro Paese - incredibile questa ingenuità politica del Governo - qual é la deriva (il baratro) verso cui il Partito della Liberta sta portando la gloriosa Scuola di casa nostra, plurimedagliata nel 2000 in due autorevoli Documenti dell’Unione europea. A Lisbona (Report, La società della conoscenza) e a Bruxelles (Report, L’istruzione e la formazione permanente per il Ventunesimo secolo).
Questa, la nostra tesi. Il talkshow di Bruno Vespa ha condotto milioni di telespettatori dentro il Grande thriller - di cui la Scuola è la vittima sacrificale - messo in scena dal duemilaotto dal Governo di Destra. Il suo copione ha gli ingredienti di un giallo mozzafiato: al “centro” campeggia un delitto; alla “periferia”, seminascosti nel buio, si intravvedono gli assassini e i mandanti.
Il nostro Processo intende fare luce e risolvere un noir della Scuola ad alta densità emotiva: attraversato da intrighi, brividi, suspense. Un thriller dai colori foschi: una telenovela intrigante disseminata di spettacolari colpi di scena. La sceneggiatura é del tutto rituale: un “delitto” (il reato), gli “imputati” (i killer), i “mandanti” (i grandi burattinai).
Riflettori accesi, allora, sul palcoscenico e sugli attori di questo processo alla Controriforma scolastica del ministro Gelmini.

IL DELITTO: OVVERO, LA STORIA DI UN REATO. - Il crimine pedagogico consumato ai danni della Scuola è stato denunciato - con forza, dal duemilaotto - nei tanti girotondi di protesta di coloro non condividono questa Controriforma. Il sistema di istruzione che ansima sotto gli occhi di tutti è disseminato di paradossi: divaricato a forbice tra Scuola/formale (la tartaruga: scritta dal Legislatore e guidata dal Centro) e Scuola/reale (la lepre: scritta dalle Autonomie del decentramento scolastico e guidata dalle Periferie).
Il reato della Destra al Governo sta nell’avere legalizzato questa identità anfibia del sistema scolastico. Una Scuola duale, centauro: metà formale e metà reale. Dove alla prima (la Scuola/formale) il Ministro assegna il compito di tirare il freno-a-mano, di mettere la “museruola” all’altra faccia della luna: la Scuola/reale, militante. Parliamo di quella che sperimenta e innova, che nutre di nuova cultura e di nuovi valori i sentieri formativi degli allievi. La Scuola dell’Autonomia, delle tante contrade di casa nostra, è denigrata e vilipesa dalla Gelmini ogniqualvolta le sventola sotto il naso fantasiose e a suo dire inconfutabili indagini di mercato.
Sono pagelle-in-rosso visibilmente truccate e infondate.
Facilmente smentibili dalle autorevoli ricerche internazionali che da tempo riempiono di medaglie pedagogiche il bavero della Scuola/reale italiana.
A partire, dalla medaglia d’oro che da anni brilla sul petto della Scuola dell’infanzia. E dalle medaglie d’argento assegnate alla Scuola primaria a tempo pieno, alla Scuola media a tempo prolungato e alla Scuola secondaria sperimentale.
Nel bocciare, come fallimentare, la nostra Scuola dell’obbligo e del postobbligo di fine Novecento - più volte plaudita per la sua qualità curricolare - il nostro Ministro dell’istruzione impugna un paio di forbici giganti per ritagliarle addosso un mantello molto attillato e a basso costo. Come dire, le cuce su misura un sistema di istruzione fotocopia di un’Azienda che mette sul Mercato “conoscenze” di qualità diversa: le più liquide, quanto a cifre culturali, a disposizione di molti; le più dense, quanto a cifre culturali, a disposizione di pochi.
Questo, l’abito-su-misura che la Gelmini impone alla cliente sempre più anoressica - la Scuola pubblica - della nostra luminosa penisola mediterranea. Fedele esecutrice degli ordini del Premier, il Ministro mette in pratica il suo Dna descolarizzatore e discriminatorio costringendo il sistema di istruzione ad una impietosa cura dimagrante. Come? Impugnando in modo scriteriato una scure affilata per tagliare quattro rami vitali dell’albero scolastico.
(a) Il personale docente e non docente. (b) I plessi scolastici minori, delle aree interne: con l’esito di sfiorare il raddoppio degli alunni per classe.
(c) Il monte orario settimanale: si può imparare anche a casa di fronte al computer. (d) I finanziamenti per l’edilizia, per i servizi di sostegno ai disabili e agli extracomunitari, per le apparecchiature didattiche.
Una mannaia che mozza la testa all’ideale pedagogico di un sistema pubblico di istruzione non discriminatorio (il diritto di tutti all’ingresso nella Scuola e all’uscita da uno dei suoi rami secondari), inclusivo (il diritto al banco dei disabili e degli extracomunitari in classi eterogenee) e solidale (il diritto a vivere sotto il tetto della Scuola i valori della cooperazione e della solidarietà, e non i disvalori della competitività e della meritocrazia).
A voce alta, diciamo/no a una silhouette antipedagogica della Scuola che prenda forma tramite un’illiberale e astorica cura dimagrante. Volta a decapitare questi suoi consolidati cinque punti/qualità tanto da snaturarla verso un declino senza ritorno.
Primo punto qualità. - L’identità di Scuola pubblica. Questo, il possibile declino. L’avvento di un sistema privato di istruzione a Domanda individuale e a Pagamento: come il gas, la luce, la nettezza urbana. Nel nostro Paese è in crescita costante l’istruzione fai-da-te. Per lo più a domicilio: l’homeschooling. Sono più di trecento i modelli registrati di istruzione parentale, dove le mamme e i babbi fanno lezione ai loro figli e ad altri bambini e adolescenti del Quartiere.
Secondo punto qualità. - L’identità di Scuola Autonoma. Questo, il possibile declino. La sua libertà di Governance dovrà lasciare via/libera all’ingresso di Logiche aziendali.
Terzo punto qualità. - L’identità di Scuola Democratica. Questo, il possibile declino. Il diritto di tutti all’istruzione dovrà lasciare via/libera all’ascensore antisociale della Selezione (Meritocrazia).
Quarto punto qualità. - L’identità di Scuola Progressista. Questo, il possibile declino. Non più una Scuola che forma giovani dalla testa ben fatta e dal cuore solidale, ma un sistema di istruzione Conservatore che genera - specchiandosi nel Mediatico - encefalogrammi piatti e cuori spenti.
Quinto punto qualità - L’identità di Scuola della Domenica. Questo, il possibile declino. Non più il giorno degli usignoli che dà voce alla creatività e alla voglia di futuro, ma la proliferazione di scolari del Sabato, tramutati in pappagalli che gracchiano senza sosta la loro mente/unica e l’aridità del loro cuore.

GLI IMPUTATI: OVVERO, I KILLER SONO TRE. - La domanda è un po’ questa. Chi sono i nemici della Scuola? Chi sono gli affossatori di una politica di Riforma (democratica: disponibile al plurale delle culture e delle idee), chi sono i frenatori a mano di una Scuola impegnata a modernizzare i suoi percorsi di socializzazione e di apprendimento?
Sul banco degli imputati chiamiamo i tre cospiratori. Da sempre congiurano al cospetto di una Scuola pubblica, democratica e interprete della complessità della cultura: sono il Liberismo, il Separatismo, il Nozionismo. Sono i tradizionali nemici della Scuola italiana pluridecorata in Europa.
Li chiamiamo a deporre per un duro faccia a faccia. Questi, i brani salienti della loro confessione.
Imputato numero uno: il Liberismo. - L’assioma teorizzato da questo primo Cospiratore - nascosto in agguato nell’ombra - si regge su una inaccettabile logica discriminatoria e classista: più Società, meno Stato. Il suo “falso” sta nel predicare libertà e parità culturali garantite a tutti nell’odierna società a capitalismo avanzato. Quindi, nel negare che queste si presentano tuttora attraversate da antiche e da nuove divisioni/sociali (di genere, di censo, di etnia) che generano profonde disuguaglianze: riconoscibili a occhio nudo osservando l’enorme differenza di beni materiali, sociali e culturali di cui godono le classi benestanti rispetto a quelle indigenti.
La mission ideologica delle politiche scolastiche “liberiste” - tendente a dare le ruote a un mercato sregolato della Formazione - porta inevitabilmente a imbavagliare l’intervento dello Stato: al quale si nega il compito di dirigere e di gestire le linee di sviluppo istituzionale e culturale del sistema di istruzione.
Imputato numero due: il Separatismo. - L’assioma teorizzato da questo secondo Cospiratore - nascosto in agguato nell’ombra - si regge su una
una divisione culturale e ideologica della popolazione scolastica che conduce a questa sentenza: no al pluralismo nell’istituzione scolastica pubblica, sì al pluralismo delle istituzioni scolastiche pubbliche e private.
Nel travestire lo Stato in notaio della domanda di istruzione espressa dalle singole collettività sociali, il Separatismo mette le ruote a più diligenze formative: lottizzate in tante Scuole “autonome” quanti sono i gruppi sociali e culturali disseminati nelle contrade del nostro Paese. Questa ideologia da separati-in-casa provoca lo smantellamento della Scuola pubblica. Cioè a dire, la messa in cassa-integrazione del sistema statale di istruzione: liberalizzato dentro una sorta di babele formativa priva di direzione istituzionale e di guida culturale.
Imputato numero tre: il Nozionismo. - L’assioma teorizzato da questo terzo Cospiratore - nascosto in agguato nell’ombra - si regge malfermo
sulle stampelle delle 3i al minuscolo care al Ministro Gelmini : impresa, inglese, internet.
La sua Scuola che viene da un altro Pianeta (forse un meteorite) si nutre di conoscenze enciclopediche (i Curricoli per l’obbligo e il postobbligo sono miniaturizzati in cataloghi di quiz) che spengono la luce alla Cultura che sta oltre la siepe della nozione da ripetere a memoria, pappagallescamente. Con il fallimentare risultato di cancellare dai Curricoli - nazionali e locali - l’apporto dei saperi trasversali: metacognitivi, interdisciplinari, inventivi, trasgressivi. Nell’odierna stagione delle conoscenze complesse, plurali e mutevoli i Programmi didattici del Ministro accusano già i capelli bianchi: sono alfabeti nostalgici di un tempo che fu, sordi e indifferenti ai richiami delle nuove frontiere della cultura. Questa, la loro caricatura. Sono i vagoni lenti di un convoglio culturale (la società) la cui locomotiva (il progresso scientifico e tecnologico) va in jet. Portano sulle spalle il mantello di una Scuola/lumaca che arranca in retrovia spacciando maldestramente una moneta culturale (l’istruzione) fuori-corso. Raramente spendibile al di là dei cancelli della Scuola, dove le frontiere culturali sono - quelle sì! - di un altro Pianeta: mille miglia più avanzate rispetto a quelle che la Gelmini vuole siano cucinate e date in pasto tra le pareti della Scuola.
Qualche tempo fa, Eugenio Scalfari con un appassionato urlo di Munch pose in gigantografia l’equazione Tv/commerciale uguale scomparsa della Cultura (al suo posto: un assioma urlato) e morte della Persona (al suo posto: il Soggetto/massa). La sua vibrante denuncia è dunque rivolta al Mediatico che devasta - in modo irreversibile - le coscienze, i modelli di vita e i modi di capire il mondo.
“Ha desertificato la morale, l’autonomia di giudizio, la sobrietà del costume, la privatezza dei sentimenti, il garbo, l’eleganza. Ha soppresso il silenzio. Ha confiscato il tempo libero. Ha imbarbarito il linguaggio. Le nuove invasioni barbariche hanno sede e forse addirittura origine nella Televisione. Ciascuno di noi denuncia questo stato di cose e nel contempo ne è servo. C’è dunque un barbaro in ciascuno di noi? Ecco una questione politica --sì politica - che andrà prima o poi posta senza reticenze perché riguarda, al fondo, la nostra libertà” (la Repubblica, 17 giugno 2008).

I MANDANTI: OVVERO, CHI SONO I BURATTINAI? - Questa politica scolastica ultraconservatrice ha un unico megafono: la Destra al Governo. Lo slogan ripetuto senza fantasia dalle sue trombe é un po’ questo: la Scuola ha il compito di selezionare senza alcun rammarico pedagogico, dal momento che il suo dovere istituzionale è la formazione della futura classe dirigente del Paese. Per questo, le attuali lobbies al potere flirtano scopertamente per un Scuola di basso costo (e conseguentemente di mediocre qualità) per i “molti” e per una Scuola di elevato investimento (e conseguentemente di alta qualità) per i “pochi”. Per edificare una Scuola discriminatoria e classista, la Destra di casa nostra punta scopertamente al cuore dello Stato. Al quale chiede di autodecapitarsi, di mozzare di netto la propria testa. Dando l’addio alla sua antica vocazione progettuale e programmatica, alla sua mai sopita voglia di utopia politica. Al quale chiede di rinunciare al ruolo di sentinella di democrazia sociale e di pluralismo culturale.
PENSIERINO DELLA SERA. - Esemplare ci sembra questa analisi di Curzio Maltese uscita nel secondo Venerdì di Repubblica del marzo scorso. La tesi, che condividiamo, è rinchiusa nel titolo del suo intervento: Colpire la scuola pubblica: una scelta non casuale.


Scrive, in proposito: “/L’Italia/ è l’unico Paese occidentale dove il Grande fratello continua a fare record d’ascolti, quello dove si legge di meno, dove ci si laurea di meno, dove l’intelligenza scappa all’estero, dove si continuano a fare tagli sull’istruzione e sulla ricerca. Decine di migliaia di maestri e di professori precari lasciati a casa, Facoltà universitarie cancellate dall’oggi al domani, miliardi sottratti alla formazione dei nostri ragazzi: ma non ai corrotti, al ladri,agli evasori.
Pare che l’unico sistema per contenere la spesa pubblica in Italia siano i tagli alla Scuola. /…/ Se si stratta di una scelta obbligata dalla crisi, come sostiene il ministro Giulio Tremonti, rimane da capire perché è obbligata soltanto da noi. Francia, Germania e Gran Bretagna non stanno togliendo fondi all’istruzione, anzi li aumentano. L’istruzione e la formazione costituiscono l’unica risposta seria della vecchia Europa alla sfida delle potenze asiatiche.
Il sospetto, ma possiamo dire la certezza, è che nell’attacco sistematico alla Scuola pubblica da parte del governo Berlusconi il vero movente sia ideologico. Per questa classe dirigente, volgare e ignorante, nata e pasciuta nell’analfabetismo televisivo /- che non legge e che non scrive -/ la Scuola è un territorio nemico: /un pericoloso contromedium/ da epurare e basta.

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AL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE MARIASTELLA GELMINI
DIECI DOMANDE DI "RIFORMA DELLA SCUOLA"


La nostra rivista, con le parole scelte da Franco Frabboni, vuole rivolgere 10 domande al Ministro.
Sono sui temi grandi e meno grandi sui quali l'azione del Ministero ha insistito e sta insistendo.
Chiediamo a chi le condivide di scriverci per sottoscriverle.
Ugualmente chiediamo cambiamenti e integrazioni.
Vorremmo che queste domande corressero nelle scuole per poi essere indirizzate a Gelmini con la massima forza.

Intanto, il nostro Decalogo denuncia subito gli obiettivi antipedagogici che hanno nel mirino la “normalizzazione” della cittadella scolastica: ultima trincea a difesa di una cultura critica e plurale per le future generazioni.

1. Lei non ritiene grave tagliare vitali risorse alla Scuola Pubblica e trasferire a occhi chiusi copiosi finanziamenti alla Privata, a prescindere dal controllo dalla sua qualità formativa?
2. Lei non ritiene grave bollare da spendacciona la Scuola (democratica) che assicura a tutti il diritto all’istruzione e dichiarare virtuosa la Scuola trasformata in un ascensore (selettivo) di discriminazione sociale?
3. Lei non ritiene grave demolire la Scuola italiana (insignita di molte medaglie al merito in Europa) tramite un impietoso uso della mannaia: sull’organico dei docenti, sulle sedi scolastiche, sul monte/orario, sui servizi bus/mensa e sulle apparecchiature didattiche?
4. Lei non ritiene grave auspicare una Scuola/Azienda che confeziona istruzione tramite le sue catene di montaggio? Questa, la sua inaccettabile idea formativa: le menti e i cuori degli allievi vanno posti su un nastro a corrente alla stessa stregua di una fabbrica che confeziona bulloni. Di più: i difettosi (i “diversi”, fuori/standard: come i disabili e gli extracomunitari) vanno bocciati e gettati nel cestino dei rifiuti.
5. Lei non ritiene grave l’abbandono dei valori dell’inclusione e dell’integrazione scolastica per plaudire invece la ghettizzazione degli allievi in classi/separate: per i disabili e per gli extracomunitari?
6. Lei non ritiene grave santificare una Meritocrazia che sfigura la classe in un ring dove gli allievi incrociano quotidianamente i guantoni? Una girandola di match che sancirà chi potrà sedere ancora nel proprio/banco (il vincitore) e chi non avrà più il posto/banco (il vinto).
7. Lei non ritiene grave imporre il Grembiule: la divisa/unica? Simbolo di conformismo (cancella le “diversità”) e di omologazione culturale (impone il pensiero “unico”, i saperi/verità: signorsì e coccodè).
8. Lei non ritiene grave introdurre il Voto-in-cifre per nascondere l’altra/faccia dell’apprendimento? La Scuola non va solo popolata di “risposte” (scritte e orali), ma anche di “domande” piene di dubbi, di curiosità, di incanti: irrintracciabili in una anonima scala decimale.
9. Lei non ritiene grave punire con un Cinque-in-condotta (con bocciatura) gli scolari divergenti, insofferenti dell’autorità e della gerarchia? E dissenzienti sui saperi/verità della lezione e della lavagna elettronica?
10. Lei non ritiene grave fare il controcanto a questa sentenza di Silvio Berlusconi:
“La meglio/Scuola? E’ Mediaset, la mia televisione!” Per compiacerlo, invita gli studenti a bivaccare nella vita claustrale di classe, tutta-nel-banco: dove l’intelligenza viene rottamata della sua potenziale tensione alla divergenza e alla creatività.

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Per il Nido. Una lunga esperienza, idee per andare più avanti.

Franca Marchesi

In Emilia-Romagna e a Bologna in particolare, a partire dalle prime esperienze di nido comunale (40 anni fa!) si è sviluppata una rete di servizi per la prima infanzia intorno a un'idea di bambino competente e soggetto attivo del proprio percorso di crescita, idea condivisa dalla città “educante” intesa come comunità che rispetta e valorizza i diritti dei bambini .
Perché a questa idea di bambino corrisponda un nido in grado di dare risposte di qualità, si è lavorato molto su due elementi, sui quali è importante continuare a puntare: il progetto pedagogico del nido e la professionalità del personale che del nido si “prende cura”, intesa come cura educativa.
Il progetto pedagogico comprende gli elementi che concorrono a far sì che il servizio non risponda solo ad un bisogno, ma a un vero e proprio diritto del bambino di avere stimoli e opportunità di socializzazione e di apprendimento; è nel progetto pedagogico che si esplicitano le idee forti del servizio e le sue finalità, volte a concorrere allo sviluppo della sua identità, definendo una forte alleanza educativa con la famiglia
Lo strumento perché questo obiettivo si possa realizzare è la professionalità delle educatrici: una professionalità che non si improvvisa, ma che sa coniugare una buona formazione di base con una robusta formazione permanente.
Mi soffermo in particolare su questo elemento in quanto spesso, nel discorso comune, anche nella comunicazione dei mass media, sembra che per chi lavora in tali servizi come educatrice possano essere sufficienti le normali competenze di una “buona mamma”. Invece il tema della professionalità e della formazione per chi si occupa della cura e dell’educazione dei piccoli è di grande rilevanza, non solo perché si tratta di professioni che necessitano di continua manutenzione e rivisitazione, ma anche perché i cambiamenti socioculturali che stanno investendo le nostre società e in particolare le famiglie, toccano da vicino i servizi, portando in primo piano diversi modi di vedere il bambino e la famiglia.
La “società liquida”, come la definisce Zygmut Barman, scorre continuamente e togliendo punti di riferimento saldi rischia di mettere in crisi anche l’organizzazione, l’approccio e lo stile dei servizi stessi. I cambiamenti in atto richiedono professionalità flessibili e competenze plurime, anche attraverso una formazione che riesca a coniugare competenze teoriche con la ricerca di strumenti per una operatività intenzionale e non casuale.
La professionalità di chi lavora nei servizi per la prima infanzia è infatti particolare, centrata sul benessere e sul rispetto del bambino, sulla conoscenza dei suoi bisogni evolutivi, sulla consapevolezza della funzione della rete relazionale in cui esso è collocato; si esprime nella disponibilità ad ascoltare, a connettere il proprio intervento con quello delle colleghe, ad accogliere situazioni impreviste modificando così percorsi prestabiliti, a riconoscere i bisogni degli altri (bambini, genitori, educatori) come importanti.
A partire da queste note sulla professionalità, possiamo dire che in quarant’anni di lavoro a Bologna si è costruita una rete educativa in cui il nido
• .....ha una identità forte, ma flessibile;
•è capace di rispettare l'unicità di ciascun bambino, ma nello stesso tempo è capace di facilitare e sostenere le relazioni tra pari;
• ha dei contenuti da proporre, è attento e rispettoso dell’azione di gioco di ogni bambino e ne prepara il contesto;
• utilizza il gruppo come risorsa;
• sa accogliere i bambini e gli adulti ed è in grado di interagire positivamente con le famiglie, offrendo loro una gamma di risposte possibili ai loro bisogni;
• è comunicativo e trasparente verso la famiglia e gli interlocutori sociali e istituzionali
• è attento alla promozione di una cultura delle differenze e all’integrazione delle diverse identità:
Anche l’attenzione ai genitori e la costruzione di un dialogo positivo, hanno portato a definire strumenti efficaci, capaci di dare vita a un contesto quotidiano più accogliente, e a momenti di incontro strutturati in modo flessibile. Pomeriggi di gioco, colloqui, laboratori per genitori e bambini hanno infatti arricchito la relazione quotidiana con le famiglie.
Inoltre la presenza sempre più diffusa dei bambini e delle famiglie straniere ha portato nei nidi linguaggi e culture diverse differenti che devono essere accolte e valorizzate.
Ed è a partire da questi elementi che possiamo delineare lo scenario che il nido si troverà di fronte nell’immediato futuro, nel quale, possiamo dire che è già inserito.
È uno scenario costituito non soltanto dalle tematiche specifiche che hanno orientato il lavoro fino ad oggi (e che fanno riferimento alle teorie della contemporaneità, alla ricerca/azione, al lavoro sul campo), ma anche, e sempre di più, da ciò che caratterizza il rapporto con una società complessa, con la famiglia, e con gli altri servizi che operano nel territorio, in particolare con quelli della AUSL
In questo scenario il nido deve riuscire a trovare linguaggi plurimi, puntando sulla qualità e sull’efficacia degli strumenti della comunicazione, per diventare un interlocutore credibile che sa stare in rete, ma anche raccontarsi all’esterno e non solo agli addetti ai lavori.

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L’apprendimento della matematica e delle scienze nel primo ciclo.
Riflessioni sui dati dell’ Emilia-Romagna


Gian Carlo Sacchi

Nell’anno scolastico 1990/91 un certo numero di studenti (volontari) di nove e tredici anni delle scuole emiliano – romagnole è stato sottoposto, unico in Italia, all’indagine IAEP (International Assessment of Educational Progress di Princeton) sulle abilità in matematica e scienze, ottenendo dei buoni piazzamenti in entrambe le discipline, nettamente superiori alla media dei Paesi partecipanti. Si trattava di dimostrare la comprensione delle caratteristiche e dei metodi dell’indagine scientifica e la capacità di applicare tali metodi alla soluzione di problemi. Si cercò così di valutare se sapevano osservare, classificare, interpretare i dati, formulare ipotesi, progettare esperimenti, realizzare una ricerca. Gli item furono inoltre suddivisi in conoscenze, applicazioni, integrazione di conoscenze per risolvere problemi più complessi. In quest’ultimo caso si richiedono processi mentali come generalizzare, formulare ipotesi, interpolare ed estrapolare, ragionare per analogie, procedere per induzione e deduzione, sintetizzare e costruire modelli.
Già allora però era diffusa un po’ ovunque l’idea che la scuola incide sulle capacità dei ragazzi molto meno dell’ambiente socio – familiare; essa non riesce infatti a correggere le inevitabili diversità dei “punti di partenza”, a dare, in vista della competizione che li attende quando usciranno dal sistema educativo, “pari opportunità” a tutti i ragazzi, così come la quantità di studio individuale non sembra essere decisiva per il miglioramento delle prestazioni, mentre non si rilevavano a quell’età differenze sostanziali di genere.
A distanza di un certo numero di anni, nel 2007, l’indagine TIMSS ( Trend in International Mathematics and Science Study), nel quarto e ottavo anno di scolarità, fa emergere complessivamente ancora un buono stato di salute nell’apprendimento scientifico; l’Emilia Romagna, compresa nella zona geografica del nord est, fa rilevare risultati superiori alla media internazionale, in continuo miglioramento, raggiungendo addirittura punte di eccellenza in scienze, mentre in matematica, anche se calano i peggiori, i punteggi tendono a diminuire, pur rimanendo la migliore area del Paese.
C’è tuttavia un dato nuovo, il calo in matematica, dalla primaria alla secondaria di primo grado, a fronte di un miglioramento almeno per quanto riguarda le specializzazioni dei docenti. Anche questa come altre ricerche nel settore hanno rilevato che l’inefficacia dell’insegnamento scientifico è causata dalla lontananza tra le conoscenze insegnate e le concezioni spontanee e le strutture cognitive degli studenti, tra una metodologia consigliata di tipo “costruttivista” ed una tradizione didattica di tipo trasmissivo. L’esperienza laboratoriale, che viene tanto auspicata, non lavora solo sui concetti, ma sugli strumenti, le procedure, i contesti, aiuta a superare gli errori di interpretazione della realtà.
TIMSS sottopone infatti gli allievi a problemi di applicazione delle scienze e della matematica al mondo reale; già dall’impostazione si può notare, come accade anche in un’altra indagine internazionale realizzata sui quindicenni (PISA), che l’imputata principale sia la didattica, ancora molto lontana dall’immergere gli alunni nell’esperienza, attraverso il problem solving e la manipolazione.
Nel 2008/2009 prende il via la rilevazione degli apprendimenti nella scuola primaria, in vista del completamento nell’intero ciclo, curata dal Sistema Nazionale di Valutazione/INVALSI. Le materie prese in considerazione sono l’italiano e la matematica ed i quesiti per quest’ultima hanno fatto riferimento alla predetta indagine internazionale: esecuzione di algoritmi, uso di linguaggi specifici, sensibilità numerica e geometrica. La partecipazione è stata per la prima volta volontaria, molto più elevata al sud che al nord, segno da un lato dell’assunzione della valutazione come un importante strumento di lavoro necessario al miglioramento del servizio, anche se non si escludono “comportamenti opportunistici”, ma dall’altro che la qualità non si misura tanto da competizione interne, quanto dallo sviluppo delle realtà sociali ed economiche. In Emilia Romagna hanno partecipato il 63,3% delle scuole, più bassa in Piemonte, Lombardia e Veneto.
Già dalla seconda classe elementare in matematica c’è una certa stabilità tra risultati attesi e raggiunti e poco significative ancora una volta sono le differenze di genere. Gli alunni italiani vanno meglio di quelli stranieri (al sud sono uguali), non è possibile tra gli stranieri distinguere chi è nato in Italia da chi è immigrato, da chi parla o meno la lingua italiana.
Chi è regolare nel percorso ottiene migliori risultati, rispetto sia ai ritardatari che agli anticipatari.
In quinta il punteggio del SNV si avvicina a quello TIMSS, non ci sono differenze di genere e lo scarto tra italiani e stranieri è più contenuto. Dato nuovo che gli anticipatari migliorano sostanzialmente.
Se arriviamo alla prova nazionale dell’esame di licenza media (2009), gli allievi del centro nord conseguono risultati significativi, le risposte corrette sono molto elevate. Qui non ci si limita a valutare l’apprendimento della matematica utile, ma devono cercare di farvi riferimento come strumento del pensiero e come disciplina con un proprio statuto epistemologico.
In Emilia Romagna c’è stato un modesto risultato positivo, con un lieve miglioramento nel corso dei due anni nei quali è stata somministrata la prova. Le maggiori carenze sono di natura logica.
Nella comparazione internazionale, e per quanto il nostro nuovo SNV vi si avvicini, si constatano molti aspetti della nostra prassi curricolare che devono essere rivisti per incontrare quelli che risultano comuni alle diverse culture, ma di più, il test là dove la cultura del paese lo considera un elemento strutturale del proprio sistema valutativo ha sempre avuto una forte influenza sul sistema interno della scuola e sugli obiettivi didattici.
Il sistema degli esami, scriveva Guasti nel 1997 (CLUEB), garantiva il livello nazionale, cioè una conoscenza sufficientemente oggettiva della qualità della scuola su tutto il territorio. Tale linea politica oggi sembra in difficoltà, l’esame, soprattutto se inteso come esame finale, non sembra più in grado di sostenere questa responsabilità. La nuova valutazione non è comunque più disponibile a lasciare che l’attuale sistema degli esami sia garante della qualità della formazione.
Si direbbe che i nostri governanti non se ne siano accorti, nonostante la pedagogia per competenze sia lì a ricordaglielo. Queste infatti sono il vero collegamento con la dimensione europea (competenze chiave per l’apprendimento permanente 2006) da cui deriva la richiesta che una persona dovrebbe disporre delle abilità per applicare i principi e processi matematici di base nel contesto quotidiano, nella sfera domestica e sul lavoro, dovrebbe essere in grado di svolgere un ragionamento matematico, di cogliere le prove matematiche e di comunicare in linguaggio matematico oltre a saper usare i sussidi appropriati. Per quanto concerne la scienza e tecnologia, la conoscenza essenziale comprende i principi di base del mondo naturale, i concetti, principi e metodi scientifici fondamentali, la tecnologia e i prodotti e processi tecnologici, nonché la comprensione dell'impatto della scienza e della tecnologia sull'ambiente naturale. Queste competenze dovrebbero consentire alle persone di comprendere meglio i progressi, i limiti e i rischi delle teorie e delle applicazioni scientifiche e della tecnologia nella società in senso lato (in relazione alla presa di decisioni, ai valori, alle questioni morali, alla cultura, ecc.).
In circa vent’anni si può registrare in Emilia Romagna un progressivo calo degli apprendimenti in matematica, dalla scuola primaria alla secondaria di primo grado, che si accentua nei quindicenni, anche se c’è una tenuta complessiva nei dati di fine ciclo e nella comparazione con altre parti del Paese e non solo. Per quanto riguarda invece i diversi rami della valutazione non si è ancora capito bene se si stiano organizzando azioni coerenti e valide per tutto il sistema o si ricerchino consensi su una maggiore severità, che fa sempre notizia, soprattutto se è applicata ai figli degli altri.

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Sulla dignità dell’Università e della Pedagogia e sul dovere di educare

Luciano Corradini


Il 12 gennaio nell’Aula del Rettorato dell’Università Roma Tre si è tenuta la cerimonia per la consegna a nove docenti di quell’Ateneo, appartenenti a diverse Facoltà, della medaglia con dedica e del decreto ministeriale con cui sono stati insigniti del titolo di professore emerito. Quattro di questi appartengono all’area pedagogica: Bruno Bellerate, Luciano Corradini, Ferdinando Montuschi, Fabrizio Ravaglioli. Al termine delle laudationes compiute dal preside Francesco Susi, gli emeriti hanno pronunciato un breve discorso. Quello che segue è il testo dell’intervento di Luciano Corradini, proposto in quella sede in forma più colloquiale e sintetica.
Ringraziamo molto il prof. Corradini per averci permesso di pubblicarlo.
Non è solo un modo per unirci alle congratulazioni per il suo lavoro, così importante per la scuola italiana, ma anche, considerati i temi da lui trattati, per proseguire autorevolmente il dibattito sulla Pedagogia e la difesa della sua ricerca, che Riforma considera uno dei suoi impegni prioritari.


Dopo l’elogio che mi hanno rivolto il rettore Fabiani e il preside Susi, mi pare giusto partecipare a questo giorno festoso con un elogio all’Università, alla Facoltà di Scienze della Formazione, alla Pedagogia, all’Educazione e infine all’Associazionismo.
L’Università
Ho iniziato il mio percorso universitario nel 1954, dopo il concorso per il posto gratuito che mi fu assegnato dall’Università Cattolica di Milano nel collegio Augustinianum, per il corso di laurea in filosofia. Sono stati anni molto impegnativi e molto belli: con alcuni maestri ho avuto l’occasione di collaborare, curando le dispense dei corsi. Ma ci ho incontrato anche amici che sono restati per tutta la vita, fra i quali sono lieto di salutare qui l’amico Leandro Polverini, ordinario di storia romana nel nostro Ateneo; e la signorina Bonomelli, che ora è la nonna dei miei dieci nipoti.
Quando il Rettore ha parlato di comunità universitaria, non ho inteso l’espressione come retorica, ma come espressiva della sua originaria potenzialità di valorizzazione di quel dialogo fra studenti e docenti che costituisce una forte motivazione non solo ad apprendere, ma a sviluppare, talora nell’amicizia, le dimensioni personali, civiche e professionali, oltre le dimensioni di natura strettamente scientifica. Mi sembra che questa festosa cerimonia sia un’occasione privilegiata per far incontrare diverse generazioni di docenti, di ricercatori e di studenti, e per alimentare, sia pure in una eccezionale mattinata, questo prezioso e delicato spirito comunitario.
Dopo la laurea e il perfezionamento, non sono rimasto in università come assistente, ma ho insegnato per anni nella scuola secondaria, dove avrei continuato volentieri, se Aldo Agazzi, Carlo Perucci e Mario Mencarelli, in occasione dei corsi di aggiornamento per insegnanti che organizzavo a Reggio Emilia, non mi avessero convinto a riprendere il cammino universitario, come addetto alle esercitazioni, per aiutare gli studenti a diventare insegnanti. Poiché non erano state ancora istituite le SSIS, mi trovai quasi costretto a seguire la strada della ricerca e dei concorsi universitari. Fu così che, dopo un incarico a Cosenza e uno nella sede bresciana della Cattolica (1975) sbarcai alla Statale di Milano, dove restai per 15 anni, nella Facoltà di Lettere e Filosofia, prima di venir chiamato al Magistero di Roma La Sapienza, a succedere a quel grande maestro e amico che è stato per me Mauro Laeng. Sono stati, quelli, dal ’90 al 2000, anni di grandi trasformazioni delle nostre strutture accademiche.
La Facoltà e la SSIS
Roma Tre è nata nel 1992; la sua Facoltà di Scienze della Formazione nel 1995. Nel ’98 e nel ’99 hanno iniziato la loro vita istituzionale i corsi di laurea in Scienze della formazione primaria e le Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario. Sono contento d’aver collaborato in qualche modo anch’io, anche dal CNPI e dal Governo Dini, alla loro nascita e al loro funzionamento. Sono stati percorsi molto faticosi, al limite della disperazione, ma alla fine credo che si possa dire che ne valeva la pena e che il senso di inadeguatezza personale e istituzionale che ho provato, è stato largamente compensato da quello che abbiamo costruito insieme, come soggetti capaci di intercettare in qualche modo i bisogni formativi delle nuove generazioni. E ora constatiamo che qualcosa di importante sopravvive alle nostre vicende personali. Non abbiamo solo subìto il cambiamento sociale: in buona misura lo abbiamo voluto e governato, anche maturandone le convinzioni e le condizioni, nell’ambito delle consulte e delle associazioni pedagogiche, anzitutto l’ASPeI e la SIPED. E così veniamo alla pedagogia.
La Pedagogia
Fare l’elogio della Pedagogia non è facile. A stare ad alcuni giudizi che si leggono sui giornali, chi professa la pedagogia non dovrebbe avere diritto di parola in questioni che riguardano l’educazione e la scuola. Accuse, ironie e silenzi nei riguardi di questa disciplina e di chi la rappresenta non sono una novità. Ma recentemente si è superata ogni immaginazione sociologica: un celebre collega ha scritto sul Corriere della Sera che “negli ultimi quarant’anni i pedagogisti hanno quasi distrutto le basi del pensiero razionale e i fondamenti della nostra civiltà”. Questa volta la colpa è, letteralmente, quella d’aver eliminato le date, “togliendo dalle scuole l’obbligo di mettere i fatti in ordine cronologico”. La conclusione del ragionamento è un invito al Ministro a cacciare tutti i pedagogisti dal Ministero. Voglio perciò ringraziare questo Ateneo e la mia Facoltà, che ne hanno addirittura onorati quattro, facendoli professori emeriti. E naturalmente ringrazio il Ministro Gelmini, che ha firmato i relativi decreti.
E’ un po’ come se la medicina e il diritto fossero incolpati genericamente delle malattie inguaribili e dell’ignoranza delle leggi o delle lungaggini dei processi, invece che considerati come risorse per la soluzione dei problemi di cui professionalmente si occupano medici e giuristi. Riconoscere i nostri limiti non significa accettare in silenzio critiche superficiali e ingiuste, che possono avere effetti pesanti sul destino degli studi pedagogici, sia nella scuola, sia nell’università.

La mia difesa della Pedagogia prende atto con preoccupazione che tutto un orizzonte di valori, di saperi e di mentalità da cui si alimenta (e che contribuisce a costruire) la pedagogia generale, intesa come luogo di ricerca e d’impegno attento alla teoresi e alla prassi, in una prospettiva di sintesi, tende lentamente a scomparire, come le lucciole pasoliniane, dai cieli dell’università e della scuola. Nelle facoltà sorelle di Lettere e Filosofia, di Sociologia e di Psicologia non c’è posto per noi, che pure accogliamo tutti nelle scienze dell’educazione. Nell’attuale clima sociale, le esigenze della produzione e del consumo tendono ad occupare tutti gli spazi disponibili di curricoli sempre più articolati, brevi, funzionali al lavoro da compiere. Posti fra loro in alternativa, ciò che è urgente viene quasi sempre prima di ciò che è importante. E poiché ciò che è importante non manifesta la sua potenza nei tempi brevi, si finisce per ritenerlo anche meno importante di ciò che è urgente.

Per dirla nei termini di un’annosa e mai sconfitta polemica, l’attenzione prevalente della cultura che ha accesso ai mass media è rivolta all’istruire piuttosto che all’educare, anche se si evoca l’emergenza educativa, di fronte al malessere diffuso, alla demotivazione al lavoro scolastico, alla mancanza di orientamento e alle devianze che crescono, nonostante la scuola.
Forse si avverte che la crisi scolastica è tale che non si può rinunciare a nessuna prospettiva, antica o recente, che possa dare un contributo a rendere la scuola più decente, più credibile e più gratificante. Il discorso vale anche, e prima di tutto, per la famiglia.

Quando è fondato, solido, illuminante, il sapere pedagogico, anche se non celebrato e remunerato, può dare un valido contributo a colmare il vuoto esistente fra il sempre più diffuso bisogno esistenziale di sapere, di saper fare e di saper essere, e le risposte che vengono, quando vengono, dall’apparato scientifico-tecnologico: quell’apparato che tutto sembra dominare e risolvere, ma che resta poi muto di fronte alle domande radicali circa il senso della vita, circa ciò che è bene e male, ciò che è meglio fare o non fare, e soprattutto circa ciò che è possibile far capire e far fare.

La pedagogia aspira ad essere, sul piano scientifico e sapienziale, un faro che illumina e orienta, non un sapere “duro”, di tipo incontrovertibile: ossia da un lato solo sperimentale e dall’altro rigidamente prescrittivo. Come ricordava Laeng, quello pedagogico è un sapere che assume come proprio oggetto/compito la comprensione critica dei soggetti, dei fini e dei metodi delle relazioni educative, così come queste si realizzano di fatto, cercando anche le vie più efficaci per rendere possibili interventi di tipo migliorativo, analogamente a quello che fa la medicina per la promozione della salute.
Università, Scienze della formazione e Pedagogia sarebbero, dal mio punto di vista, macchine che girano a vuoto, se non ci fosse alla base l’educazione.

L’educazione

Quando mi trovo nella tempesta del dubbio circa la legittimazione ad educare (si deve, ma si può? si domanda Giuseppe Angelini), mi torna in mente il Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani: vi si dice che questa è stata proclamata, "affinché ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo rispetto…"
Si tratta del messaggio e della consegna più autorevole e più importante di cui dispongano laicamente le società del terzo millennio, per salvare dalla catastrofe la nostra riverita specie e l’intero Pianeta. L'appello è rivolto anzitutto a ciascuno di noi ("ogni individuo e ogni organo della società"), non solo perché tenga "costantemente presente" la Dichiarazione, ma perché "si sforzi di promuovere il rispetto di questi diritti e di queste libertà", "con l'insegnamento e l'educazione". Prima del diritto all’educazione qui si afferma il dovere di educare: o meglio il dovere di sforzarsi di farlo.
Insegnamento ed educazione non sono dunque funzioni specifiche ed esclusive di organismi specializzati, ma attività generali e comuni, almeno potenzialmente, a tutti gli individui e a tutti gli organi della società, e non solo ai filosofi, ai politici e ai militari, nelle cui categorie sono cresciuti coloro che ci hanno regalato la guerra. E hanno un valore eminentemente politico, se è vero che compito principe della politica è promuovere la pace nella libertà e nella giustizia. Anche richiamare alla memoria quei princìpi che sono insieme diritti e doveri, e lottare per attuarli e per farli attuare nella pratica, ha valore educativo e quindi politico.
Purtroppo, come la politica, intesa in senso specifico, così anche l'educazione, da quella familiare a quella scolastica a quella diffusa, non ha mantenuto nel tempo le sue promesse: in altri termini si sono rivelate insufficienti a produrre una "vita buona", sia le "forze forti", che si esprimono attraverso leggi, intese diplomatiche, denari, eserciti e polizie, sia le "forze deboli" che si esprimono attraverso l'esempio, la parola, la relazione intenzionalmente volta a creare convinzioni e dubbi, facendo leva sulla conoscenza, sui valori e sull'esercizio autonomo e responsabile della libertà.
Nelle questioni di morale, di politica e di educazione non vale però la legge del tutto o nulla. Se non c'è limite al peggio, neppure allo sforzo di fare meglio ha senso porre un limite, dando a priori per persa la partita, quando ancora ci sono alcune carte da giocare.
Le carte di cui la maggior parte delle persone dispone non sono immediatamente utilizzabili per i grandi giochi della politica, dell'economia, dei circuiti della cultura di massa, sicché molti si ritengono semplicemente fuori gioco, liberi solo di lamentarsi o di divertirsi.
Bisogna resistere a questa deriva rinunciataria, pensando che, in ultima analisi, anche le grandi decisioni sono frutto di scelte di persone singole, capaci di influenzarsi a vicenda e di pesare in qualche modo sugli esiti finali dei processi. Con internet la cosa è più a portata di mano, come dimostra per esempio l’elezione di Obama alla presidenza degli USA.
Il nesso educazione-pedagogia
L’educazione ha a che fare col futuro, con un desiderio o con una volontà di anticipare i fatti con la ragione, di fasciare questo misterioso fenomeno della vita, che erompe e sparisce come un evento sottratto al nostro controllo, con un pensiero ed una voce che lo accolgano e possibilmente restino nell'aria anche dopo l'ultimo definitivo silenzio. Tutta la cultura è sforzo per rischiarare il buio dell'origine e quello della fine, e per riempire, col canto della poesia, col sapere della filosofia e della scienza, o con l'invocazione della preghiera, quello che Foscolo chiamava "di mille secoli il silenzio". In questo senso tutte le discipline educano, se coltivate e insegnate con intelletto d’amore.

La pedagogia, sollecita di questa capacità dell'uomo di articolare pensieri, di emettere suoni, di scrivere e di capire messaggi, e di proiettarsi, con la memoria, l'intelligenza e l'immaginazione, più indietro e più avanti che può, si affatica in particolare là dove non sorge ancora o si spegne la voglia di parlare, di capire, di comunicare, di trascendersi, là dove i fatti sembrano privi di ragioni e dove tutta la vita sembra priva di senso.

La prospettiva pedagogica consiste nel non restar prigionieri dell'io, del qui e dell'ora, ma nel tener ferma la possibilità di far diverse tutte le cose, attraverso un dialogo impegnativo e sincero, perché nessuno si riduce a quello che è stato, perché nessuno è tutta la verità o tutto l'errore, perché qualcosa consente sempre di riaprire i giochi, fin che la vita e la ragione ci assistono.

Questo qualcosa è il punto di vista che ci motiva a continuare a lavorare anche quando non si vedono risultati, a credere anche quando si è rimasti delusi, a lottare anche quando si è perduto. E' forse anche la capacità di ripetere, con Tagore, che "ogni bambino che viene sulla terra viene a dirci che Dio non è ancora stanco degli uomini".

Sta di fatto che non si darebbe pedagogia senza quel continuo protendersi verso l'altro e verso il meglio che si chiama educazione; e non si darebbe educazione se non si nutrissero la speranza e la fiducia che la comunicazione autentica e testimoniale dispone di qualche efficacia, anche se, in ultima analisi, non sappiamo quanto né come.

L’associazionismo.

Mi resta un ultimo elogio: quello dell’associazionismo, del quale ho fatto nel mezzo secolo scorso un’esperienza plurale, in particolare nell’UCIIM (insegnanti medi), nell’AIDU (docenti universitari), nell’ARDeP (associazione per la riduzione del debito pubblico). Mi limito ad utilizzare in proposito un pensiero di Italo Calvino, che ho sentito citare da Antonio Ruberti, già rettore della Sapienza, ministro dell’università e commissario europeo:

Le associazioni rendono l’uomo più forte, mettono in risalto le doti migliori delle singole persone e danno la gioia che raramente s’ha, restando per conto proprio, di veder quanta gente c’è, onesta e buona e capace, e per cui vale la pena di volere cose buone.”