Numero quattro
I contributi
“Riforma della scuola” non sfugge al difficile impegno per la laicità, oggi senza una adeguata rappresentanza nella sede politica.
Osvaldo Roman scrive del tema della parità nelle possibilità di essere giudicati di tutti gli alunni, che si avvalgano o meno dell’Insegnamento della Religione Cattolica.
Siamo pronti su questi argomenti, già affrontati da Rosanna Facchini nei numeri precedenti, ad aprire un dibattito che abbia la finalità di superare i conflitti, ma nella chiarezza della problematica e la salvaguardia attenta dei diritti al pluralismo di fronte al tema religioso. Attendiamo contributi.
Marco Mazzoli affronta le controriforme in atto nell’ottica di un economista. Così Giancarlo Sacchi scrive del rapporto fra la crisi economica e la “corsa” alla formazione.
Infine Rossella D’Ugo e Mauria Bergonzini, fra la storia della propria esperienza e riflessioni sulla condizione della scuola e della formazione, scrivono due “lettere aperte” al maggior partito dell’opposizione. Il testo è quello dei loro interventi alla recente presentazione della candidatura a Segretario del PD di Bologna di Raffaele Donini.
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IRC. ALTERNATIVE
UNA SENTENZA CONTRADDITTORIA, MA CHE IMPEGNA IL GOVERNO A GARANTIRE LE ATTIVITÀ ALTERNATIVE
Osvaldo Roman
Con la sentenza n. 7076 del 17 luglio 2009 il Tar del Lazio aveva accolto due ricorsi proposti per l'annullamento delle Ordinanze ministeriali per gli esami di Stato del 2007 e 2008 che prevedevano la valutazione della frequenza dell'insegnamento della religione cattolica (IRC) ai fini della determinazione del credito scolastico.
La recente sentenza del Consiglio di Stato del 7 maggio 2010 ribalta quello scenario e accoglie i ricorsi contro le decisioni del TAR.
Si deve innanzitutto rilevare che tale sentenza attualizza quelle pronunciate nel 1989 e nel 1991 dalla Corte Costituzionale sull'insegnamento della religione cattolica. In esse è chiaramente espresso che:
∙ “i principi supremi dell’ordinamento costituzionale hanno una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi”;
∙ la laicità dello Stato è un principio supremo, che definisce la forma di Stato delineata nella nostra Carta Costituzionale;
∙ la scelta di non avvalersi dell'IRC non produce alcun obbligo: “La previsione di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione”.
Ne consegue pertanto che:
1) l’IRC non concorre a definire la media dei voti che, secondo la Tabella allegata al DPR 323 del 23/07/1998, concorre alla definizione dei punteggi per i crediti scolastici;
2) il punteggio per il credito scolastico viene quindi determinato sulla base della media dei voti conseguiti (quindi nelle materie che danno luogo a voti), con un oscillazione aggiuntiva che viene determinata in considerazione dell'assiduità della frequenza scolastica, dell'interesse e dell'impegno nella partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari ed integrative, nonché degli eventuali crediti formativi;
3) l’IRC non concorre ai crediti formativi acquisiti esternamente alla scuola e non rientra neppure, per il proprio statuto, tra le materie complementari ed integrative.
La Sentenza del Consiglio di Stato, che minuziosamente ripercorre i punti precedentemente descritti, non ritiene però discriminatorio, per i ragazzi che non frequentano materie alternative o hanno scelto di non svolgere alcuna attività, che l’IRC venga valutato ai fini del credito scolastico sia pur per la quota di punteggio aggiuntivo che viene attribuito dal Collegio dei docenti nell’ambito della banda di oscillazione: si tratta, in genere, di un punto ogni anno. Il Consiglio di Stato peraltro, nel confermare quanto stabilito dal Concordato circa la valutazione dell'IRC mediante un giudizio, sbarra la strada a qualsiasi ipotesi di "voto in religione" e al suo concorso alla media dei voti. Purtroppo di media hanno parlato quasi tutti i giornali che in genere non leggono le Sentenze.
Inoltre, il Consiglio di Stato si sforza, a nostro parere invano, di dimostrare che tale punteggio aggiuntivo potrebbe essere conseguito anche da parte di chi non si avvale dell’IRC. E’ per questa ragione che esprime un severo monito contro le inadempienze ministeriali che diffusamente in tutte le scuole del nostro paese ignorano le richieste di attivazione delle materie alternative in violazione del Concordato.
E’ un argomento questo su cui la Gelmini, anche in risposta a specifiche interrogazioni parlamentari, dovrà pronunciarsi al più presto.
Un’analisi puntuale del testo della Sentenza è necessaria per comprendere con precisione il tipo di valutazioni che hanno portato la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ad assumere tale decisione.
Le parti in causa erano:
-per l’annullamento della decisione del TAR Lazio : il Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca, Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato e, mediante la presentazione di un ricorso incidentale, la Conferenza Episcopale Italiana.
-a sostegno della medesima un vasto e articolato schieramento di associazioni, Chiese e centri di ricerca, singole personalità.
Il Governo e la CEI avevano dedotto nei loro ricorsi le seguenti motivazioni:
a) l’inammissibilità del ricorso di primo grado per difetto di legittimazione e per difetto di interesse degli originari ricorrenti (associazioni e studenti);
b) l’inammissibilità del ricorso per omessa notifica ai controinteressati (da individuarsi negli studenti che abbiano optato per l’insegnamento della religione cattolica o per gli insegnamenti alternativi, oltre che negli insegnanti di religioni)
c) l’erroneità nel merito della sentenza, rilevando che in base alle disposizioni vigenti l’insegnamento della religione cattolica non può che essere valutato ai fini dell’attribuzione del credito scolastico, specie alla luce del disposto dell’art. 11, comma 2, d.P.R. n. 323/1998;
l’assenza di qualsiasi violazione ai principi costituzionali della libertà religiosa e di laicità dello Stato.
Il Consiglio di Stato ha respinto tutte queste eccezioni di ammissibilità e si è pronunciato nel merito
Al riguardo, ha preso le mosse, dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che si è occupata dell’insegnamento della religione cattolica e dalle norme che lo prevedono.
Innanzitutto il Consiglio ha richiamato la norma fondante l’insegnamento della religione cattolica in Italia e cioé l’art. 9, numero 2, dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede (ratificato ed eseguito dall’Italia con la legge n. 121 del 1985).
Tale disposizione normativa si compone di tre proposizioni.
La prima afferma che "la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”.
La seconda specifica che “nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento”.
La terza prevede che “all'atto dell'iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell'autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.
Fatta questa premessa il Consiglio ha ricordato come la Corte costituzionale, nella storica sentenza n. 203/1989, abbia confermato che con questa terza proposizione il principio di laicità è in ogni sua implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la scelta non dia luogo a forma alcuna di discriminazione.
Il Consiglio a questo proposito ricorda anche che “la Corte specifica che dal principio di non discriminazioni ivi consacrato deriva che “la previsione come obbligatoria di altra materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro danno, perché proposta in luogo dell'insegnamento di religione cattolica, quasi corresse tra l'una e l'altro lo schema logico dell'obbligazione alternativa, quando dinanzi all'insegnamento di religione cattolica si è chiamati ad esercitare un diritto di libertà costituzionale non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di coscienza, ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche. Lo Stato è obbligato, in forza dell'Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l'insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l'esercizio del diritto di avvalersene crea l'obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non avvalersene l'alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l'esercizio della libertà costituzionale di religione”.
Fatta questa premessa, molto importante perché essa appare spesso dimenticata nella recente produzione normativa del MIUR, là dove si cancella, per la scuola dell’obbligo, l’opzione per i non avvalentisi di poter non svolgere alcuna attività in alternativa e di poter non permanere nella scuola durante l’insegnamento concordatario, il Consiglio di Stato richiama anche la successiva sentenza n. 13 del 1991.
In essa la Corte aggiunge che “il valore finalistico dello <
Non è pertanto da vedere nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi una causa di disincentivo per le future scelte degli avvalentisi, dato che le famiglie e gli studenti che scelgono l'insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall'offerta di opzioni diverse. Va anzi ribadito che dinanzi alla proposta dello Stato alla comunità dei cittadini di fare impartire nelle proprie scuole l'insegnamento di religione cattolica, l'alternativa è tra un si e un no, tra una scelta positiva ed una negativa: di avvalersene o di non avvalersene. A questo punto la libertà di religione e garantita: il suo esercizio si traduce, sotto il profilo considerato, in quella risposta affermativa o negativa. E le varie forme di impegno scolastico presentate alla libera scelta dei non avvalentisi non hanno più alcun rapporto con la libertà di religione. Lo <
Partendo da tali preziosi insegnamenti del Giudice delle leggi, Il Consiglio di Stato, a mio parere erroneamente da una risposta negativa al quesito se le ordinanze ministeriali impugnate si pongano in contrasto con i principi costituzionali in materia di libertà religiosa, discriminando, coloro che non scelgono nessuna attività formativa alterativa, ed interferendo, quindi, sulla loro libertà di scelta in materia religiosa.
Per giungere a tale valutazione il Consiglio innanzitutto rileva che nessun passaggio delle motivazioni delle citate sentenze costituzionali consente di escludere che la condotta scolastica tenuta dall’alunno che decida di avvalersi dell’insegnamento della religione o di un insegnamento alternativo possa essere oggetto di valutazione e rilevare così ai fini del giudizio finale.
Anzi, sotto alcuni profili, le citate sentenze costituzionali contengono elementi a favore della legittimità della scelta ministeriale.
A questo proposito l’accurata ricostruzione operata dal Consiglio della dottrina Costituzionale presenta un buco abbastanza clamoroso che lo stesso Consiglio in sede di controllo sugli atti aveva già commesso esaminando il regolamento sulla valutazione.
Il Consiglio ritiene che le principali statuizioni della Corte possano essere così sintetizzate:
a) l’alternativa all’insegnamento della religione cattolica non può essere l’obbligo di seguire un corso alternativo (dato che altrimenti ricorrerebbe lo schema dell’obbligazione alternativa e la facoltatività dell’insegnamento religioso non sarebbe rispettata), ma non può che essere uno “stato di non obbligo”, che può avere tra i suoi contenuti anche quello di non presentarsi o allontanarsi da scuola;
b) nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi non può vedersi una causa di discriminazione indiretta nei confronti di quanto scelgano di avvalersi della religione o un fattore che può interferire nella loro scelta (un cattolico potrebbe scegliere di non seguire l’ora di religione pur di avere un minore impegno scolastico), perché le famiglie e gli studenti che scelgono l'insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall'offerta di opzioni diverse;
c) assicurata la scelta tra avvalimento e non avvalimento, la libertà di religione è assicurata e le varie opzioni presentate ai non avvalentisti non hanno alcun rapporto con la libertà di religione;
d) l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo, ma, precisa la Corte costituzionale con la sentenza n. 203/1989, l'esercizio del diritto di avvalersene crea l'obbligo scolastico di frequentarlo.
Il Consiglio valuta che da queste sentenze non si può dedurre l’illegittimità dell’ordinanza ministeriale che consente la partecipazione agli scrutini degli insegnanti di religione o dei corsi alternativi frequentati dai non avvalentisi.
Ciò in quanto “non si può dire che tale partecipazione andrebbe ad interferire con lo “stato di non obbligo”, condizionando la libertà di scelta di coloro che non decidono di non seguire alcuna attività alternativa, o discriminandoli in sede di giudizio scolastico.”
Per il Consiglio non esiste infatti alcun condizionamento, né alcuna discriminazione.
Ed è interessante esaminare il parallelo che questo organismo pone tra gli effetti che potrebbero reciprocamente intercorrere tra le scelte dei non avvalentesi e quelle di coloro che di avvalgono dell’IRC.
Al riguardo il ragionamento raggiunge livelli di capziosità non tollerabili.
Infatti si sostiene in sostanza che come non sono discriminati gli avvalentisi per il minor impegno e addirittura per la non permanenza a scuola dei non avvalentisi così non possono essere considerati discriminati questi ultimi per il fatto che l’insegnante di religione (o l’insegnante di corsi alternativi) partecipi alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico.
Insomma il Consiglio di Stato mette sullo stesso piano, o meglio nei due piatti della bilancia, da una parte il beneficio del disimpegno dal sostenere l’onere di un insegnamento (l’IRC) e quello di ottenere un punteggio aggiuntivo nel conferimento dei crediti scolastici.
Quasi dimostrando la consapevolezza della precarietà di tale assunto il Consiglio prosegue nell’approfondimento della materia.
E lo fa innanzitutto escludendo “che una valutazione così importante e profonda possa dipendere dalla mera possibilità di avere un vantaggio in sede di attribuzione del credito scolastico. Vantaggio che, fra l’altro, è del tutto eventuale, sia perché, lo studente non avvalentesi che sia comunque meritevole in tutte le altre materie può raggiungere il massimo punteggio in sede di credito scolastico, sia perché il giudizio dell’insegnante di religione (o del corso complementare) potrebbe essere anche negativo (e quindi incidere negativamente credito scolastico).”
In realtà il vantaggio non è affatto eventuale ma certo se di considerano, come poi farà il Consiglio nella parte finale della motivazione della Sentenza, le condizioni che vengono offerte ai non avvalentisi dell’IRC che volessero usufruire delle materie alternative.
Il Consiglio cerca di motivare questa sua conclusione, che esclude gli effetti discriminatori dalla valutazione dell’IRC ai fini della determinazione del punteggio per i crediti scolastici approfondendo due ordini di questioni.
Innanzitutto la circostanza, rilevata dalla Corte costituzionale,che l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo solo nel senso che di esso si ci può non avvalere, ma una volta esercitato il diritto di avvalersi diviene un insegnamento obbligatorio. Nasce cioè l’obbligo scolastico di seguirlo, ed è allora ragionevole che il titolare di quell’insegnamento (a quel punto divenuto obbligatorio) possa partecipare alla valutazione sull’adempimento dell’obbligo scolastico. Le stesse considerazioni valgono per gli insegnamenti alternativi che, una volta scelti, diventano insegnamenti obbligatori.
In questo modo di ragionare del Consiglio si possono rilevare due aspetti.
Uno totalmente innovativo, mai pronunciato prima, che considera obbligatori gli insegnamenti alternativi qualora richiesti. Si tratta di un principio che impegnerà il Consiglio in ulteriori interessanti approfondimenti.
Un altro che riguarda il diritto del docente di R.C di partecipare ad ogni valutazione di quello che è un obbligo scolastico.
A tale riguardo la Sentenza richiama l’art.309 del T.U. ma singolarmente omette di citare l’integrazione che questo articolo, derivante dalla prima formulazione dell’Intesa, ha avuto in sede di modifica della medesima. Infatti la modifica dell’Intesa M.P.I.-C.E.I. di cui al DPR 202/90 e la C.M. n. 9/1991 precisavano, dando attuazione alle previsioni di non discriminazione stabilite dalle allora recenti Sentenze dell’Alta Corte, che “nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’insegnante di RC, se determinante, diviene un giudizio motivato iscritto a verbale”.
Ciò significa che quel diritto del docente di RC di partecipazione alla valutazione non è assoluto ma ha dei limiti.
Voglio sottolineare il fatto che la medesima Sezione del Consiglio di Stato non si è accorta al riguardo che nel DPR n. 122 del 19 agosto 2009. é accaduto che la Gelmini ha “modificato” il Concordato con la Santa Sede. Si tratta di quanto previsto al comma 4, articolo 2, e al comma 3 dell’articolo 4 del suddetto Regolamento. Infatti, essi stabiliscono che :
”La valutazione dell’insegnamento della religione cattolica resta disciplinata dall’articolo 309 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, ed è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche all’intesa di cui al punto 5 del Protocollo addizionale alla legge 25 marzo 1985, n. 121.”
Si ignora in tal modo che il decreto del Presidente della Repubblica 16 dicembre 1985, n. 751 recante l’esecuzione dell'Intesa tra l'autorità scolastica italiana e la conferenza episcopale italiana per l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, ha subito una successiva revisione, il 13 giugno 1990, regolarmente concordata tra le parti contraenti del Concordato che apporta una modifica aggiuntiva al punto 2.7 della stessa Intesa.
In seguito a tale modifica aggiuntiva il punto 2.7 é divenuto il seguente:
2.7 I docenti incaricati dell'insegnamento della religione cattolica fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti, ma partecipano alle valutazioni periodiche e finali solo per gli alunni che si sono avvalsi dell'insegnamento della religione cattolica.(art.309 T:U.)
Nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’IRC, se determinante, diviene giudizio motivato iscritto a verbale
La modifica dell’Intesa citata stabiliva che tale voto fino a quando non è determinante, poteva continuare ad essere espresso. Nei casi in cui fosse stato determinante “diviene” (si badi bene c’è scritto diviene!) giudizio motivato iscritto a verbale. Questa interpretazione riconosciuta ufficialmente dall’allora ministro Lombardi è contestata da settori della dirigenza ministeriale e scolastica, ma non è stata mai stata sconfessata ufficialmente dalla CEI.
E’ evidente che il richiamo di questa disposizione avrebbe messo in crisi l’interpretazione del Consiglio sul diritto d’illimitata partecipazione alla valutazione di un’attività divenuta obbligatoria dopo la scelta.
Il Consiglio sviluppa poi un secondo ordine di considerazioni per dimostrare in concreto l’assenza di quella che invece, a mio parere, è un’evidente discriminazione.
Sostiene infatti il Consiglio “che non vi sarebbe alcuna discriminazione a carico dei non avvalentisi che non optano per insegnamenti alternativi, in quanto questi hanno le stesse possibilità di raggiungere il massimo punteggio in sede di attribuzione del credito scolastico rispetto agli studenti che seguono l’ora di religione o gli insegnamenti alternativi.
Il credito scolastico, infatti, è il punteggio per l’andamento degli studi, e risente, in primo luogo, della media dei voti riportati dallo studente, e poi della condotta e delle attività svolte dallo studente durante il corso dell’anno. Pertanto, uno studente che, pur non avvalendosi dell’insegnamento della religione e non optando per insegnamenti alternativi, abbia comunque un alto rendimento scolastico riuscirà ugualmente a raggiungere il massimo in sede di attribuzione del credito scolastico, senza essere in alcun modo pregiudicato o discriminato in conseguenza della scelta fatta nell’esercizio della libertà religiosa.”
Quindi la tesi conclusiva del Consiglio è che “ di questo giudizio si debba tener conto deriva dal fatto che, per chi si avvale, l’insegnamento della religione diventa insegnamento obbligatorio. Ne discende la necessità di valutare in senso positivo o negativo, come quell’obbligo scolastico sia stato adempiuto.
Non farlo rischierebbe di dare luogo ad una sorta di discriminazione alla rovescio, perché lo stato di “non obbligo” andrebbe ad estendersi anche a coloro che invece hanno scelto di obbligarsi a seguire l’insegnamento della religione cattolica o altro insegnamento alternativo.
In altri termini, l’insegnamento non è obbligatorio per chi non se ne avvale, ma per chi se ne avvale è certamente insegnamento obbligatorio: la libertà religiosa dei non avvalentisi non può, quindi, arrivare a neutralizzare la scelta di chi, nell’esercizio della stessa libertà religiosa, ha scelto di seguire quell’insegnamento e che, dunque, ha il diritto-dovere di frequentarlo e di essere valutato per l’interesse e il profitto dimostrato.”
Inoltre il Consiglio segnala che non sarebbe corretto sostenere “che per effetto delle ordinanze in questione l’insegnamento della religione dia, per ciò solo, diritto ad un credito scolastico. Al contrario, le ordinanze ministeriali prevedono soltanto che nella valutazione dello studente, si tenga conto anche dell’interesse con cui ha seguito l’ora di religione (o di corso alternativo), sul presupposto, avallato dalla stessa giurisprudenza costituzionale, che, effettuata la scelta, nasca un obbligo scolastico il cui adempimento da parte dello studente deve essere oggetto di valutazione.
A favore di tale conclusione deporrebbe, a livello legislativo, la previsione dell’art. 309 d.lgs. n. 297/1994 che, come ricordato anche dalla Corte costituzionale (n. 390/1999), stabilisce che gli insegnanti di religione “fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti”.
Ma come si è visto si tratta di una citazione monca di tale articolo del testo Unico che di fatto è stata integrato dalla ricordata integrazione dell’Intesa.
Il Consiglio non ravvisa neanche un contrasto con l’art. 205, comma 4, d.lgs. n. 297/1994, ai sensi del quale “per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Gli originari ricorrenti hanno sostenuto che da questa norma deriverebbe il divieto per gli insegnanti di religione cattolica di dare voti, il che escluderebbe la possibilità di partecipare alle sedute del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico e di prendere in considerazione il loro giudizio.
Il Consiglio però non condivide tale tesi.
Ciò in quanto “le ordinanze in questione non prevedono, infatti, che l’insegnante di religione attribuisca un voto, ma solo che nell’attribuzione del punteggio, nell’ambito dalla banda di oscillazione, si tenga conto del giudizio (non del voto appunto) riguardante l’interesse con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ovvero l’attività alternativa e il profitto che ne ha tratto. In altri termini, quella “speciale nota” cui fa riferimento l’art. 205, comma 4, cit. pur non potendosi tradurre in un voto numerico contiene necessariamente un giudizio sull’attività svolta dall’alunno. Le ordinanze in questione si limitano a prevedere che tale giudizio diviene ora uno degli elementi valutabile ai fini dell’attribuzione del punteggio nell’ambito della sola banda di oscillazione prevista dalla tabella allegata al D.P.R. n. 323/1998 che, all’art. 11, disciplina il credito scolastico”.
L’attribuzione del credito scolastico è la media dei voti (in questa fase non rileva quindi il giudizio dell’insegnate di religione e di altre corsi alternativi che non esprimono propriamente un voto).E su questo quadro normativo che intervengono le ordinanze impugnate, le quali si limitano a prevedere che, ai fini dell’attribuzione del credito scolastico nell’ambito della banda di oscillazione, si tiene conto anche del giudizio formulato dai docenti di religione o di insegnamenti alternativi.”
E’ con questo argomento, che accoglie la tesi ministeriale che porta all’annullamento della Sentenza del TAR, che il Consiglio di Stato di fatto sbarra la strada alla pretesa più volte enunciata dalla Gelmini di introdurre una valutazione numerica nella valutazione dell’IRC. Infatti la norma di cui all’art 205. comma 4 del T.U., deriva dal Concordato e quindi non è modificabile con una legge ordinaria ma richiederebbe l’attivazione di una complessa procedura, di modifica appunto, concordata tra le parti e ratificata dal Parlamento.
Nella parte conclusiva della Sentenza il Consiglio è forse consapevole del carattere astratto che assumono le sue valutazioni sulla non discriminazione senza affrontare ”la constatazione che in molte scuole gli insegnamenti alternativi all’ora di religione non sono attivati, lasciando così agli studenti che non intendono avvalersi come unica alternativa quella di non svolgere alcuna attività didattica.”
Tale preoccupazione, manifestata dal giudice di primo grado, secondo il Consiglio va tenuta nella massima considerazione.
Questa è la significativa conclusione della Sentenza su cui la Gelmini già da tempo è stata chiamata a riferire in Parlamento:
“Non vi è dubbio, infatti, che la mancata attivazione dei corsi alternativi rischi di mettere in crisi uno dei presupposti su cui si fondano le ordinanze impugnate, che, nel mettere sullo stesso piano, ai fini della valutazione come credito scolastico nell’ambito della c.d. banda di oscillazione, l’insegnamento della religione e l’insegnamento dei corsi alternativi per i non avvalentisi, danno quasi per scontato che i corsi alternativi esistano ovunque.
Al contrario, è circostanza nota che in molte scuole i corsi alternativi non sono attivati e questo rischia di pregiudicare la libertà religiosa dei non avvalentisi e di compromettere la logica delle ordinanze in esame.
Infatti, nelle scuole in cui il corso alternativo non è attivato, lo studente che per motivi religiosi non intenda avvalersi dell’insegnamento della religione, ha come sola alternativa quella di di non fare nulla (a parte eventuali iniziative individuali o di c.d. studio assistito).
La mancata attivazione dell’insegnamento alternativo può incidere sulla libertà religiosa dello studente o delle famiglia: la scelta di seguire l’ora di religione potrebbe essere pesantemente condizionata dall’assenza di alternative formative, perché tale assenza va, sia pure indirettamente ad incidere su un altro valore costituzionale, che è il diritto all’istruzione sancito dall’art. 34 Cost.
Ciò evidentemente non contraddice il carattere facoltativo dell’insegnamento alternativo: tale insegnamento è, e deve restare, facoltativo per lo studente, che può certamente non sceglierlo senza essere discriminato, ma la sua istituzione deve considerarsi obbligatoria per la scuola, specie alla luce della scelta compiuta nelle ordinanze della cui legittimità ora si discute.
Di questo aspetto il Ministero appellante dovrà necessariamente farsi carico, perché altrimenti si alimenterebbe una situazione non coerente con quanto le stesse ordinanze impugnate sembrano invece presupporre. “
Questa argomentazione del Consiglio di Stato rappresenta una chiara denuncia della violazione del Concordato da tempo in atto nelle nostre scuole. Perché la CEI, che è intervenuta in questo giudizio non vi si associa?
Ne avrebbe tutti i requisiti e anche il dovere per farlo in quanto contraente principale di un Patto bilaterale.
Invece l’O.M. n.44 del 5 maggio 2010 caccia quei pochi docenti di materie alternative, che ancora sopravvivono ai micidiali tagli degli organici, dai consigli di classe in sede di valutazione dei crediti scolastici.
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CAMMNINO EDUCATIVO E MERCIFICAZIONE DELLA CULTURA
LA “GELMINI” NELLA CRITICA DI UN ECONOMISTA
Marco Mazzoli*
Il primo pensiero, da profano, che ho avuto alla lettura del bel libro di Baldacci e Frabboni** è stato il forte legame che emerge tra filosofia dell’educazione e pedagogia. Le parti iniziali del libro contengono infatti interessanti riflessioni e alcune linee guida su come caratterizzare lo studio del cammino educativo umano: “disegnare la complessa fenomenologia dell’esperienza educativa” per poi passare alla “scelta del modello pedagogico fedele all’orizzonte-limite”. La pedagogia si configura qui come la presa di coscienza dell’universalità, ossia l’organizzare la vita educativa come processo teleologico, dunque come progettazione esistenziale. Che c’è dunque di più vicino all’oggetto della filosofia? O meglio all’esperienza più quotidiana e più diretta che si può avere della filosofia? Non stiamo forse parlando del processo umano di apprendimento, di presa di coscienza della realtà, di come l’uomo apprende e riflette sul suo stesso processo di apprendimento? E l’angolatura offerta dal libro di Baldacci e Frabboni non è quella della speculazione teorica (pure importante) sull’apprendimento umano, ma un vero e proprio condensato di decenni di esperienza sociale nel campo: una sorta di sguardo retrospettivo agli importanti risultati che questa sorta di “filosofia applicata” ha avuto nella socialità dei ragazzi nella crescita di tanti ex ragazzi, oggi trentenni o quarantenni... Il sapere pedagogico emerge dall’interazione ripetuta di una molteplicità di soggetti (allievi, maestri, docenti, studiosi) che, nel corso dei decenni, hanno prodotto un modello educativo consolidato. Un economista teorico, utilizzando le categorie di analisi della teoria dei giochi (una branca della teoria delle decisioni) definirebbe tale interazione come un “gioco evoluzionistico”, ossia, nel linguaggio comune dell’uomo della strada, una configurazione sociale che emerge in modo stabile e consolidato come risposta ottimale di ogni individuo nell’interazione interpersonale ripetuta con gli altri individui.
Poi è arrivata la riforma Gelmini, già anticipata, per molti versi dalla Moratti, aprendo un conflitto che va ben oltre la questione dei tagli o della riduzione della spesa pubblica causata dalla crisi economica: alla cultura filosofica, alla stessa tradizione umanistica italiana si è contrapposta la mercificazione della cultura, secondo una sottocultura pseudo-aziendalistica, che tratta il bene “educazione”, privatizzandola e mettendola sul mercato, come si tratta una qualsiasi merce. Ebbene, è lo stesso pensiero liberale che, a partire dagli anni Trenta del Novecento osserva che i cosiddetti “public goods” (i beni per i quali esistono “esternalità”, ossia ricadute positive o negative anche per chi non li consuma direttamente e “non escludibilità dal consumo”, ossia la condizione secondo cui il consumo di un soggetto non esclude il consumo simultaneo di altri soggetti) non possono essere prodotti e venduti sul mercato perchè esiste un problema di incentivi e di free riders. Alla categoria dei “public goods” appartengono per l’appunto l’educazione, la cultura, la sicurezza, la difesa nazionale e altri beni e servizi di uso collettivo. L’educazione e la cultura, ad esempio, non avvantaggiano esclusivamente la persona che ne usufruisce, ma contribuiscono a migliorare le condizioni economiche e sociali e la qualità della vita di un’intera nazione... ma si tratta di concetti troppo sofisticati e troppo colti nell’epoca degli spot pubblicitari e in tempi di pregiudizi razziali. Viviamo indubbiamente tempi difficili. Mai prima d’ora una parte politica si era identificata non in una classe sociale, non in un gruppo di interesse, ma negli interessi individuali di un solo leader. Neanche nelle dittature si era mai verificato nulla di simile... Forse però sarebbe auspicabile che almeno il gruppo dirigente dei partiti progressisti avesse lo spessore culturale e la determinazione di difendere con forza e lucidità i valori e le idee guida di quella che fu, un tempo, la sinistra.
*Docente di Economia Monetaria e Internazionale all’Università Cattolica del S.Cuore. Sede di Piacenza.
**Il testo è la trascrizione dell’intervento pronunciato alla presentazione del libro “La controriforma della scuola” di Massimo Baldacci e Franco Frabboni. Casadeipensieri Bologna, 15. 03. 2010
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CRISI E CORSA ALLA FORMAZIONE. ITALIA FERMA
Gian Carlo Sacchi
Come affrontare la crisi ? La risposta sembra prendere due strade principali: per gli aspetti finanziari si deve intervenire sul piano etico, mentre sul versante del lavoro si può operare in chiave pedagogica. Sono i due fronti che oltre a valide politiche industriali preoccupano per una ripresa non soltanto economica, ma anche sociale e civile. La situazione della Grecia costituisce un severo ammonimento; l’Italia non è molto lontana, forse può contare su una maggiore capacità imprenditoriale. Corruzione, evasione fiscale, crisi della legalità; a volte si ha l’impressione di essere sopraffatti. Tagli a scuola e università, blocco delle risorse negli enti locali, ripiegamento su un apprendistato professionalmente debole che svilisce il mercato del lavoro e rinuncia allo sviluppo delle conoscenze ed all’investimento sui giovani e la loro formazione.
E’ questo lo spettacolo che di questi tempi è sotto i nostri occhi e non stupisce quindi che qualunque rapporto internazionale ci trovi sempre in posizione marginale.
Ma la crisi nel nostro Paese sembra essere nelle mani di chi da le notizie e dalle stesse fonti governative emergono soluzioni contraddittorie. Si dice infatti che per combattere la disoccupazione ci vuole più formazione e dall’altra parte si pensa di far assolvere l’obbligo di istruzione in percorsi che inseriscano precocemente i giovani in azienda, alimentando così la dispersione scolastica ed abbassando complessivamente il livello di competenze, sempre più importanti per le persone, i cittadini, i lavoratori e la qualità della vita.
In una situazione a dir poco depressiva un Paese non può essere competitivo, ed ecco una recente conferma nel rapporto del World Economic Forum, che prende in esame i progressi registrati in base ai criteri indicati dalla strategia di Lisbona dell’UE nel 2000. Il programma di riforme è già scritto anche per noi da quei Paesi che raggiungono i livelli più alti nella graduatoria.
Innovazione, inclusione sociale, elevati livelli di apprendimento. L’Italia è in fondo un po’ su tutti i parametri, superata anche dai nuovi ingressi nell’UE, che pur tra notevoli difficoltà economiche stanno lavorando alacremente con grinta e motivazione. Il nostro si rivela un sistema vecchio, che dalla riforma appena varata ha ricevuto solo qualche lavagna multimediale, e che ha buttato via tutto quanto elaborato in più di vent’anni di sperimentazione, sulla quale si erano misurate le capacità di miglioramento didattico, di revisione istituzionale, anche attraverso un corretto rapporto tra pubblico e privato e di maggiore integrazione tra scuola e territorio.
Si pensa alla qualità a partire alla valutazione ed alla selezione e non piuttosto collegando l’esperienza con la ricerca e il miglioramento continuo nelle professionalità e nell’organizzazione.
I Paesi nordici sono sempre ai primi posti per gli investimenti in questo settore, che aiutano certamente i risultati scolastici, nei quali però il sistema formativo è parte di un processo di coesione sociale e di governo territoriale del servizio. In quest’ultimo aspetto non solo siamo fanalino di coda, ma contribuiamo ogni giorno a disgregare, dall’uso dei tempi scuola, agli indirizzi scolastici, ai rapporti tra scuola e realtà, tra sistemi formativi locali e centralismo burocratico.
In tutti i Paesi europei e non solo la crisi viene combattuta con significativi interventi finanziari, strutturali e dando alla scuola e alla formazione un ruolo primario nel campo appunto della coesione sociale, del recupero etico, della legalità, dello sviluppo; da noi ci si vuole convincere che meno è meglio ed anche “cittadinanza e costituzione” è già scomparsa nei meandri delle indicazioni di alcuni ambiti disciplinari.
Il governo territoriale, nato prima come decentramento, poi come autonomia, ora come federalismo, sembra la tela di Penelope. Ci sono certamente problemi di trasparenza dei conti, ma c’è anche la qualità e la quantità di servizi sui quali stato e regioni devono ancora trovare l’accordo, e che, a giudicare dallo scarso interesse dimostrato da entrambi, si ha l’impressione che lo si giochi al ribasso. E questo favorisce chi pensa ad un intervento pubblico minimale con ampi spazi di mercato nell’offerta per chi se lo potrà permettere, a livello economico e socio – culturale.
Si sa che l’eccellenza, tanto proclamata, non viene dal censo, soprattutto nel nord Europa viene da efficienti politiche pubbliche, sulle quali si misurerà il così detto “sviluppo sostenibile”.
E se dunque non si cambia rotta il “Centro Europeo Per lo Sviluppo della Formazione Professionale” ci dice che nel 2020 (data in cui andranno verificate le politiche di cui si è detto) l’Italia avrà una carenza fortissima di forza lavoro altamente qualificata, che non si ottiene ovviamente aumentando i percorsi al ribasso della qualità formativa, ma ritornando ai processi di integrazione tra il sistema educativo e produttivo, così come iniziato nel 1996 con gli accordi tra governo e parti sociali, che hanno poi dato origine ad una serie di provvedimenti legislativi che avevano cercato di innovare i profili, ma anche le organizzazioni e la governance, che oggi si vanno disperdendo, a fronte di una piuttosto effimera valorizzazione dell’istruzione tecnica e professionale, non fa trovare consenso nell’opinione pubblica e nell’iscrizione di nuovi allievi.
Abbassare la dispersione scolastica significa aumentare in prospettiva sia il numero dei diplomati, sia le competenze degli alunni; tutto questo però non è soltanto un problema di contenimento sociale e/o del disagio adolescenziale, ma di profondo rinnovamento didattico, organizzativo e di governo del sistema. Ancora i risultati nel nord Europa evidenziano che è più facile arrivare a raggiungere livelli alti nel successo formativo se si tiene su quelli medi, che più difficilmente potranno franare verso il basso.
Il mercato europeo sarà caratterizzato da lavori ad alta intensità di conoscenze tecniche, e non da garzoni di botteghe artigiane di fine novecento, e l’economia domanderà occupazioni con obiettivi di elevata qualificazione; crolleranno i posti di lavoro con basse competenze. Un particolare investimento andrà poi fatto sull’occupazione femminile, per evitare tra l’altro uno spreco di talenti, in quanto si stima che le donne europee con meno di 40 anni saranno più qualificate degli uomini.
Insomma si illumina un quadro internazionale che da noi tende ad oscurarsi, e se la crisi che non c’era aveva già fatto scempio delle risorse sul sistema formativo, adesso che si è scoperto esserci dovremo temere altri sacrifici, che certamente è più facile fare sui servizi pubblici. Non c’è dubbio che si possano ottimizzare i costi, e magari invece si dibattere solo sul fisco si potrebbe iniziare a calcolare i “costi unitari” nei “livelli essenziali delle prestazioni” dei servizi; non si tratta solo di un esercizio contabile, ma data la scarsa sensibilità che si vede in giro, anche di un programma pedagogico.
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LA SCUOLA CHIEDE ATTENZIONE E CURA
CHIEDE ATTENZIONE IL FUTURO DELLA RICERCA E DEI GIOVANI RICERCATORI
Rossella D’Ugo
Sono stata invitata qui, questa sera, per riflettere brevemente con voi in merito ai temi della ricerca universitaria. Confesso subito, però, che la lettura del Memorandum di impegno del Partito Democratico presentato da Raffaele Donini, pone in me l’esigenza di parlare non solo della ricerca in generale, quella messa a repentaglio quotidianamente dalle scelte (e dai tagli) del nostro governo, ma anche di una esperienza che ha caratterizzato, nello specifico, il mio impegno in questi anni.
Dico questo perchè mi sembra di ritrovare – in molte suoi temi –una stessa direzione.
Probabilmente perché anche noi pedagogisti siamo soliti, come lui, tenere sempre sullo sfondo un “pensare globale ed un agire locale”.
Cercherò, per questo, di intrecciare la sua “speranza e fiducia nel futuro”, alla mia esperienza che, allo stesso modo, da pedagogista , è costantemente alimentata da una tensione utopica che pretende di ripercuotersi in un agire concreto e locale.
La “Bologna metropolitana”, quella che Raffaele Donini riprende riaffermando l’urgenza di un nuovo sistema che si impegni, si legge nel documento, a “trasformare gli attuali quartieri in vere e proprie municipalità che indirizzino in modo cogente l’azione amministrativa in materia di servizi sociali” è la stessa città che avrei voluto attraversare durante le mie ricerche.
La mia avventura universitaria iniziò per caso quando al terzo anno (seguivo il corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria), fui coinvolta in una ricerca sul ruolo sociale dei nonni. Era il 2003 ed eravamo in un quartiere preciso, quello di Borgo Panigale. Sotto la guida del compianto Prof. Loperfido, tra questionari e osservazioni, trascorrendo mesi con i nonni del territorio, scoprimmo che quel rapporto – quello tra nonni e nipoti - era di nuovo una necessità della popolazione. I nonni sono una risorsa sociale in grado di contribuire a risolvere molti dei tanti problemi delle odierne famiglie: da quelli economici a quelli organizzativi. Quelli che una nuova Bologna dovrebbe impegnarsi a risolvere, riprendendo la via di una forte partecipazione, anche per selezionare l’uso delle risorse e integrare la forza delle famiglie ed i servizi.
Dal 2006 al 2009, il mio interesse di ricerca sulla città, mi ha portata ad indagare in un altro quartiere – San Donato – su quali fossero le offerte del territorio destinate alla qualità della vita degli anziani .
Oltre ad un ripensamento in generale delle attività promosse dai Centri anziani (che continuiamo erroneamente a chiamare così anche se oggi sono indicati, non a caso, come Centri Sociali Ricreativi Culturali) gli impegni pedagogici scaturiti da questa indagine sono numerosi. Tra i tanti mi preme sottolinearne due: in primo luogo l’esigenza della creazione, attraverso mirati progetti cittadini, di una rete intergenerazionale che abbia come suo centro, come suo luogo di ritrovo proprio queste associazioni. In secondo luogo, la possibilità di contemplare l’ingresso di nuovi cittadini, come i migranti di buon inserimento, in questi centri col fine di irrobustire un volontariato che si sta riducendo. Un passo avanti, in questo modo, anche verso una società che sia multiculturale non solo nei problemi ma anche nei luoghi del fare insieme, che sono stati la forza di Bologna..
Obiettivi impensabili, ancora una volta, senza un’azione politica coerente e chiara, di lungo periodo..
Ed è, infine, di questi mesi, una ricerca in collaborazione con il Comune di Bologna, con l’intento di rilevare la qualità di alcune scuole comunali dell’infanzia. Siamo sempre nel quartiere San Donato. Posso anticiparvi ciò che emerge: occorre investire sui servizi dedicati all’infanzia, oggi più che mai. Ci sono attività necessarie per lo sviluppo dei bambini che talvolta non possono essere svolte non certo per la mancanza di professionalità degli insegnati, quanto per problemi, magari, di abitabilità dei locali della scuola.
È in questo scenario cittadino che si è andato evolvendo il mio impegno da “futuro” ricercatore – e sottolineo “futuro” con una giusta dose di incertezza e speranza. Ed ecco i problemi, in generale, della ricerca universitaria: la mancanza di certezza nel nostro futuro e il rischio di una dispersione di quanto fatto sino a questo momento.
Il mio impegno di ricerca di questi anni, non porta a delineare certezze lavorative future. Anzi, paradossalmente, le certezze sembrano inversamente proporzionali al ritmo delle mie giornate che mi vedono attraversare l’Italia, dal Trentino Alto Adige alle Marche. Mentre come me tanti giovani si affannano , di contratto in contratto, di realtà in realtà, i tagli della Gelmini negano la possibilità di un futuro e già hanno ridotto drasticamente tutti gli istituti, dalla formazione al confronto delle esperienze e del modo di insegnare che fanno la qualità di una scuola, di qualsiasi grado.
E’ capitato a me, come a tanti, di vivere un contratto, e poi un altro e così va senza sapere più non solo se sarà rinnovato ma se l’istituzione presso la quale si lavora continuerà ad esistere. E’ la scuola, è l’Università, è il sistema formativo, e forse ancora più generalmente la galassia dei servizi pubblici per la crescita delle persone, che oggi sono precari, non solo tanti che ci lavorano.
Credo che a questo punto, ogni commento ulteriore risulti superfluo.
La speranza, anzi l’incitamento è che l’impegno politico, anche quello che rinnoviamo qui questa sera, sia rivolto alla salvaguardia anche dei giovani ricercatori molti – che nelle nostre università si sono formati, prima, e hanno, deciso, poi, di investire lo loro vita per lo sviluppo della qualità della vita della loro città.
Buon lavoro!
Bologna, 4 maggio 2010
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NON ARRENDERSI ALLA SCUOLA DELL’ESCLUSIONE
Mauria Bergonzini
Le sempre minori risorse disponibili per la scuola pubblica accentuano il rischio della separazione fra chi può e chi non può, o non può più.
Il rischio che ci troviamo davanti è quello di una scuola che esclude
L’esclusione evidente:
esclusi i bambini che – anche nei nostri comuni – si trovano senza posto alla materna. La manovra ha ridotto di 700 milioni la spesa per la scuola. A me dà più il senso dell’esclusione questo elenco apparso qualche giorno fa su Repubblica: 43 bambini ad Anzola, 44 a San Giovanni in Persiceto, 20 a Vergato, 59 a Casalecchio, 35 a Castelmaggiore, 41 a Budrio. I comuni cercano di trovare soluzioni, ma non ci sono i soldi per gli insegnanti.
Il tempo pieno è bersagliato già dai tempi della Moratti.
Alle scuole superiori ci aspettiamo classi più numerose e meno tempo, quasi azzerate le ore per chi ha bisogno di recuperare.
Ho trovato da qualche parte questa frase: Se pensi che l’educazione sia costosa, bene, prova quanto costa l’ignoranza !
Poi c’è l’altro tipo di esclusione, con i tentativi di lasciar fuori dalla scuola dell’infanzia i bambini di genitori irregolari, di imporre il tetto del 30% di bambini extracomunitari. Probabilmente non ci fermeremo qui, dobbiamo aspettarci ogni giorno qualche nuova invenzione. Purtroppo ogni nuova invenzione, anche se poi ripudiata o rimangiata, alza il livello delle cose - orribili - che si possono pensare e dire e poi anche fare nella scuola e in tante altre questioni.
Poi c’è l’esclusione sotterranea: a novembre uscì sui giornali - e ci rimase per qualche giorno - la notizia di un ragazzo di Rovereto, studente alle superiori, costretto a lasciare gli studi perché il padre aveva perso il lavoro. In qualche modo si trovò una soluzione caritatevole, intervenne la preside, così dissero i giornali. Poi non se ne è saputo più niente.
Vorrei sapere - dobbiamo sapere - quanti casi così ci sono in giro: ho chiesto a diverse persone, più o meno dentro al mondo della scuola o comunque interessate, anche a politici di esperienza, ad un sindacalista, ma nessuno lo sa. Uno mi ha risposto “Non ci avevo pensato” !
La mia domanda è semplice: quanto la crisi inciderà sugli abbandoni dopo la scuola dell’obbligo ? In quanti in meno andranno alle superiori e all’università poi ? E quanti di questi saranno ragazze ?
Se i dati non ci sono, credo che l’unica soluzione sia chiederlo direttamente alle famiglie. Io credo che il PD debba farsi carico di questa conseguenza – ancora sommersa - della crisi sulla dispersione scolastica, per motivi ideali e per motivi concreti, per il progresso in giustizia del nostro Paese.
Nel documento di Donini, uno sforzo ampio di riflessione,si parla di merito, di talenti e di solidarietà.
Caro Donini, desidero rivolgerti un ragionamento.
Il merito, e i talenti: servono, e devono essere liberi di essere valutati, senza essere soffocati da promozioni indebite garantite a chi merito e talento non ha.
Ma la società che ci serve di più è una società in cui tanti siano preparati, capaci di fare, di fare insieme e ragionare sulle cose e sul futuro. Serve quantità insieme alla qualità. I talenti servono, ma i grandi risultati sono quasi sempre il frutto del pensiero e del lavoro di tanti, di una organizzazione dove nessuna parte resti indietro. E’ il problema anche nel mondo delle imprese. Nessuno da solo è più intelligente di tutti gli altri insieme. Non è un affermazione morale: ci sono, di questo, molte evidenze empiriche.
E la solidarietà?
La scuola che si profila è una scuola del meno e per meno ragazzi. Per questo la solidarietà è un valore da recuperare. Invece sembra prevalere la competizione.
Competere vuol dire andare insieme, convergere ad un medesimo punto: cum è insieme, pétere, andare verso.
Verso dove? Verso delle buone opportunità di lavoro, di vita, di affermazione personale e sociale?
Con chi? Da solo, spintonando e rubando spazio agli altri oppure anche andando insieme con gli altri?
Vedo in giro molta competizione: sono competitivi i bambini e i ragazzi - lo sono sempre stati - lo sono molto anche le famiglie.
All’ambizione naturale, quella verso i propri figli e le proprie figlie, si aggiunge ora - in questo contesto povero di opportunità “alte”, ma anche di sicurezze normali, di quel po’ di garanzie godute dalla mia generazione - una maggiore competizione delle famiglie, la tensione un po’ bulimica ad accumulare le occasioni per i loro figli, perché così saranno messi in grado di eccellere, di avere più occasioni, più scelte. Naturalmente le famiglie che possono, quelle bene-stanti e quelle che riescono a destinare risorse per i figli. Si riempie fin da piccoli il curriculum.
Cosa si possa fare per limitare questo fenomeno, non lo so. Chi ha il dovere di educare, gli insegnati, le famiglie però devono farlo in qualche modo. Ci serve ancora - e oggi ancora di più - un pezzetto di Lettera a un professoressa che dice così:
“Il preferito.
La vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare. Però chi era senza basi, lento o svolgiato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finchè non aveva capito, gli altri non andavano avanti”.
Bologna, 4 maggio 2010